sabato 28 gennaio 2012

Prima del buio, di Renzo Montagnoli




Prima del buio
di
Renzo Montagnoli




Già, già, si andava ripetendo nel guardare ciò che restava di tutte le sue fortune: una camera incolore e disadorna, che un tempo ospitava il cuoco di quello che era stato il suo castello e che ora, in altre mani, gli era stata caritatevolmente concessa dal nuovo proprietario, un commerciante di suini arricchitosi anche troppo in fretta.
Senza fonti di sostentamento, praticamente in miseria, il conte Gherardo Uguccione di San Colombano, casato di antiche origini e di cui si parlava già nel tardo medioevo, misurava a occhio la sua attuale dimora, nulla più di un loculo come con ironia, ma anche con tristezza, la definiva.
C’era stato invero un passato glorioso, se può definirsi tale il continuo svolazzo di un farfallone fra i tavoli dei tapperi verdi delle case da gioco e le alcove di numerose dame, nobili e non, perché tanto nel letto non contano i titoli, ma gli attributi.
Aveva così sperperato il notevole patrimonio lasciatogli dai suoi avi, fra una partita a chemin de fer e una notte di fuoco, di passione amorosa travolgente, in continue assillanti trombate, come le definiva lui, che si compiaceva anche di essere un vero campione in materia, grazie a doti fisiche non consuete e a esperienze che lo avevano visto protagonista fin dall’adolescenza, prima con le serve di casa, e poi con nobildonne, popolane, perfino con una suora, in un turbine di letti disfatti e di respiri affannati. Sì, perché lui si considerava un gran trombatore, un virtuoso di quello strumento proprio solo degli uomini e che lui amava chiamare tromba.
Ancor adesso che la sua bella epoque era finita amava ricordare amplessi con donne di cui non rammentava più il nome, ma che nel silenzio accogliente di una camera da letto guardavano stupite il suo membro lasciandosi sfuggire termini di meraviglia, che, a seconda del ceti, andavano da “che spada” a un “Uh signur!”, senza dimenticare quella che si era messa a urlare, con gli occhi lucidi e fissi sull’affare: “Diu belu! Diu  belu!”.
E lui affondava la spada, anzi lo spadone, implacabile, e quelle si beavano, come Giuditta, la serva di casa con cui aveva avuto il primo rapporto, una donna avanti con gli anni, ma ben tornita, che nell’eccitazione continuava a ripetere: “No, signorino, no!!, ma che poi, verso la fine della cavalcata doveva aver cambiato opinione perché urlava: “ Sììì! Così, ancora, dai, spingi, non fermarti!”. E lui era un moto perpetuo, capace di prestazioni di ore, una macchina infernale che travolgeva ogni inibizione e portava a orgasmi parossistici. Mai sazio, sempre pronto, a chi lo definiva un tombeur des femmes, rispondeva sorridendo che lui era un trombateur des femmes.
Vista la continua ricerca di nuove fonti di piacere non si era mai sposato, nel timore d’incontrare una moglie arcigna che, in un modo o nell’altro, gli intralciasse l’attività, e poi il matrimonio era un rischio grosso, un legame con un essere che nel tempo poteva rivelarsi del tutto sbagliato, come era capitato al suo amico Ubaldo Francesco Maria conte di Copertino. Questi, suo compagno di scorribande notturne, ma beninteso di più modeste caratteristiche, aveva creduto di cogliere due piccioni con una fava quando aveva impalmato la duchessa Agrippina Desdemona di Sant’Erasmo, in possesso di un gran patrimonio, ma ossuta, strabica e con un naso a proboscide, una dama da tutti rispettata e additata ad esempio come ricca di virtù cristiane che si esprimevano con la messa giornaliera, cui la sera seguiva il rosario, e con frequentissimi pellegrinaggi a Lourdes.  Se l’attaccamento religioso poteva essere di ostacolo alle scorribande notturne del marito, tuttavia restavano le frequenti assenze per questi viaggi di pietà cristiana, senza dimenticare poi che fin dalla prima notte aveva voluto dormire in una camera separata e che il maggior atto di intimità con il marito era un fugace bacio sulla guancia il giorno della partenza per la località francese.
Tutto bene, quindi, si sarebbe detto, ma si vede che a Lourdes i miracoli non è che siano infrequenti e così era successo che al ritorno di uno di questi viaggi Agrippina era entrata nottetempo nella camera da letto del marito e come una furia aveva preteso gli arretrati dei doveri coniugali.
Per farla breve, dopo due mesi di amplessi a tutte le ore, una mattina, in cui il sole era offuscato da una nebbia lattiginosa, il conte Ubaldo, al termine dell’ennesimo rapporto, aveva alzato gli occhi al cielo, sbarrandoli, e così era rimasto per alcuni mesi, prima di esalare l’ultimo respiro.
Gli anni passano, si ripeteva Gherardo. Si invecchia, aggiungeva con timore. E con rammarico concludeva: la tromba è da un po’ che non suona e un ultimo assolo, prima del silenzio, non può mancare.
Le forze, se pur ridotte c’erano, la voglia era ben presente, ma quello che mancava era lei, l’altra. Nei tempi delle vacche grasse non era difficile trovarla, ma ora che era in miseria e alquanto invecchiato, come avrebbe fatto?
Si mise a pensare ed elencò mentalmente tutti i punti del piano.
Prima di tutto doveva trovare la femmina, possibilmente piacente e meglio ancora se giovane; avrebbe attuato una manovra di aggiramento per portarla a sé, poi una cenetta e infine la nottata, nel suo attuale loculo.
Il programma sembrava perfetto e ora si dovevano trovare solo l’obiettivo e i mezzi necessari, già i mezzi, lui che non aveva un soldo in tasca e viveva con piccoli prestiti che gli elargivano vecchi amici nella consapevolezza che non avrebbero avuto di ritorno quel denaro. Qualche cosa si poteva fare, ma non un lume di candela in un noto ristorante con le tovaglie ricamate e il cameriere sempre alle spalle, pronto a spinare la sogliola e versare lo champagne nel calice. Contò e ricontò e vide che l’unico locale per la cenetta intima non poteva che essere una pizzeria. Concluse così fra sé e sé: Meglio di niente, e poi oggi è di moda, soprattutto fra i giovani, e io la voglio cercare giovane, giovane come quella biondina dell’Est che incontro ogni mattina nel parco comunale, un tipino non appariscente, ma ben fatta, occhi svegli, bocca invitante e gambe snelle. Sì, quella deve essere l’obiettivo, anzi sarà lei, disse spegnendo la luce e apprestandosi a dormire.
Si appostò il giorno dopo nel parco e quando la vide arrivare finse di perdere i guanti di camoscio, facendo in modo che lei notasse.
- Mi scusi, signore, le sono caduti.
Si chinò a raccoglierli e nel farlo la scollatura della camicetta scivolò verso il basso, lasciando intravedere buona parte di un seno sodo e ben tornito.
- Grazie, signorina, troppo gentile. Permette che mi presenti: sono il conte Gherardo Uguccione di San Colombano.
- Piacere, Elena.
Quel nome, che richiamava colei che originò la guerra di Troia, lo scombussolò, gli fece venire in mente la bellezza quasi da dea della consorte di Agamennone e avvertì chiaro che la tromba cominciava a risvegliarsi.
- La vedo tutte le mattine, più o meno a quest’ora.
- Faccio un po’ di moto e passo anche il tempo, perché sono senza lavoro.
- Senza lavoro una ragazza sveglia, intelligente e bella come lei?
- Putroppo sì e per quelli come me è più difficile trovarlo, perché non siamo italiani.
- Di dov’è?
- Di Minsk in Bielorussia.
- Ah, sì – e lo disse così per dire, perché di questa Minsk e di questa Bielorussia non ne sapeva nulla.
- E’ un peccato, ma vedrà che troverà, anzi mi attiverò per cercarle un’occupazione, tanto più che lei parla bene la nostra lingua.
- Grazie, grazie. Ho studiato italiano all’università, facoltà di lingue, ma ho lasciato prima della laurea per problemi economici, gli stessi che mi hanno spinto a emigrare e a venire in Italia.
- Per far questo devo avere da lei un po’ di notizie.
- Comincio subito…
- No, non corra, ho un impegno importante con un industriale siderurgico, affari consistenti, e non posso tardare. Facciamo una cosa: me ne parla stasera. Ci troviamo in pizzeria, ha presente Il Vomero, quella proprio all’inizio di questo parco?
- Sì.
- Ebbene, ci troviamo là alle venti, mangiamo una pizza, che ovviamente le offro io, e intanto parliamo.
- Oh grazie, signore, conte…
- Di nulla, mio dovere.
E si allontanò senza voltarsi, affrettando il passo, proprio come se temesse di far tardi a un appuntamento importante.
Lui era davanti al Vomero già alle 19,30, ma defilato, nascosto dietro un chiosco, in una zona non illuminata, da cui sbucò, quando alle venti in punto, Elena arrivò.
- Puntuale, noto. Brava, apprezzo questo pregio.
Entrarono, si sedettero a un tavolo, ordinarono due pizze e una birra e quando queste, fumanti e ben cotte, furono scodellate nei piatti, fra un boccone e l’altro, iniziarono a conversare.
- Sì, ho capito che lei è quasi laureata, ma non è facile oggi trovare lavoro. C’è la crisi anche per noi, ma farò il possibile, senza poterle dare certezze, se non che il mio impegno sarà totale.
- Grazie, signor conte.
- Macchè signore, macchè conte, i tempi sono cambiati, i titoli sono spariti, oggi ci si da del tu, Elena.
- Vede…
- Vedi, dì vedi, mi devi dare del tu.
- Vedi, con te voglio essere sincera: a me va bene qualsiasi lavoro, perché non ho un soldo e questa pizza  è il primo e unico  pasto di oggi.
Il conte la fissò assorto, imbambolato.
- Non stai bene?
- Non so – rispose quasi meccanicamente, perché stava ripensando alle donne che aveva avuto, ben nutrite, dame e popolane, a conquiste fatte per abilità di maschio e non per fame. Per la prima volta provò vergogna e poi pietà per se stesso; per la prima volta si accorse che esistevano anche degli altri, persone in carne e ossa, cuori pulsanti, vite che aveva ignorato, quasi comparse in quella che era l’unica esistenza da considerare meritevole di ogni attenzione, la sua.  
- Non ho nemmeno più un posto per dormire. Avevo prima una cameretta in affitto, una stanza di fortuna, che pagavo quattrocento euro al mese, ma senza soldi non ho più potuto saldare la pigione e allora il padrone, un usuraio, mi ha gettato fuori.
La tromba diede un segno di risveglio, ma fu subito frenata.
Gherardo non riusciva a scuotersi di dosso quel torpore, anzi avvertì chiaramente che il peso degli anni di colpo gli piombava addosso, un macigno che lo soffocava e di cui avrebbe potuto liberarsi solo smettendo di mentire con gli altri e soprattutto con se stesso.
- Potrei dirti di venire a casa mia, ma non è più casa mia; ci sto, per pietà altrui, perché sì sono nobile, ma decaduto; ho scialato tutta la vita, ho fatto quello che si dice la bella vita, ma tu sei qui ora, sei giovane e non puoi non godere della gioventù. E’ un’età unica in cui si dovrebbe vivere spensierati e fiduciosi nell’avvenire, e invece…Dico solo che non è giusto che tu e altre ragazze, altri ragazzi vi troviate in un mondo che o vi rifiuta o vi sfrutta.
Elena non sembrò meravigliata di quella confessione, anzi dimostrò di apprezzarla.
- Tu sei una brava persona, la prima che ho trovato da quando sono in Italia, la prima che non mi ha messo le mani addosso, la prima che non ha cercato di portarmi a letto, la prima che forse è stata sincera, e proprio per questo è impossibile che un uomo come te abbia gettata alle ortiche la sua vita.
- E invece è vero, mi sono illuso di un’eterna gioventù e di una ricchezza inesauribile, ma poi la realtà, gli anni che diventano sempre più pesanti, la solitudine che mi stringe quasi ad affogarmi sono lo specchio di una vita che, come hai detto giustamente tu, ho gettato alle ortiche. Il fatto è che io sono un fallito, in modo irrimediabile, mentre tu invece sei la vittima di una società ingiusta; per me non ci sono scusanti, avevo e ho scialato, sono stato la cicala che ha cantato al vento.
Si passò una mano fra i capelli e si accorse che gli occhi gli si stavano riempiendo di lacrime, che cercò di frenare invano.
Lei gli mise le mani sulle guance, a raccogliere quelle perle di dolore, e lui lasciò fare, poi, abbassando il capo, riprese a parlare. 
- Tu sei giovane, puoi ancora riemergere e Dio sa quanto vorrei poterti aiutare, ma non sono in grado.
- L’appuntamento con l’industriale era una bugia, vero?
- Sì, ma a quest’età ci si vuole illudere di contare ancora, di essere importanti; scusami. In verità, lo confesso, ciò che volevo era una notte d’amore con te e adesso ti lascio e torno nel mio loculo.
- Sei una brava persona, Gherardo, e adesso so che sei sincero; lascia solo che ti accompagni.
- Va bene.
Lungo il tragitto la mano di lei cercò quella di lui e infine la trovò, una mano fredda, ossuta, con le vene in rilievo, quella di un vecchio.
Arrivarono al castello e sull’ingresso le mani si strinsero ancor di più.
- E’ stata una bella serata, la più bella forse della mia vita; non pensar male per quello che sto per dirti. Non voglio approfittare di te, ma non hai più un alloggio e quindi, se sali con me, questa notte non dormirai sotto le stelle.
- Non so.
- Non preoccuparti, non ti toccherò, te lo giuro.
E si accorse di essere sincero, perché il suo non era più desiderio, ma affetto, e la prova, nel caso occorresse una conferma, era dall’assoluto riposo della sua diabolica tromba.
- Salgo.
Il letto era un tre quarti, da starci coricati in due, ma addossati.
Le carezzò i capelli biondi.
- Potresti essere mia figlia.
- Potresti essere mio padre.
- Potremmo essere una famiglia come le altre.
Nella camera rischiarata dalla luna si accorse che lei si spogliava.
- No, non voglio farlo.
- Ma dormo sempre nuda, quando sono in casa!
- Va bene, fa pure.
Lei scivolò nel letto, gli carezzò i capelli, e, sussurrata una buona notte, si addormentò. 
La luce della luna filtrava dalle imposte, un debole chiarore che che pareva galleggiare nella camera.
Lui guardò a lungo il suo corpo nudo, la rotondità dei fianchi, il Monte di Venere sospeso come un giardino pensile, guardò e poi disse fra sé: Cara tromba, è giunto il momento di metterti per sempre a riposo.
Chiuse gli occhi e lo colse il sonno; quando la luce dell’alba illuminò la stanza e lo svegliò, si volse per una paterna carezza, ma lei non c’era più.
Andò al parco, ma quel giorno non venne, e lo stesso il giorno dopo, e l’altro ancora, non venne mai più.
Si sedeva su una panchina, accanto a un altro vecchio, che un giorno gli chiese perché stesse sempre lì.
- Attendo -  rispose - attendo ciò che non tornerà. E lei perché è qui?
- Attendo come lei che il mio giorno finisca. 
      


   



Operazione Blueprint, di Antonio Di Carlo



Operazione Blueprint
di Antonio Di Carlo
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Solfanelli
Narrativa romanzo
Collana Pandora
Pagg. 256
ISBN 978-88-7497-740-6
Prezzo € 17,00



Alta tensione




La spy story, o letteratura di spionaggio, è un genere che si è imposto rapidamente, perché sovente riesce a combinare più elementi di contatto con il giallo, con il noir, con la fantapolitica e, soprattutto, con l’azione, quest’ultima intesa come una serie di avvenimenti ad alta tensione che riescono a velocizzare la trama, avvincendo ulteriormente il lettore.
Gli autori più apprezzati in questo campo sono per lo più di lingua inglese, come John Le Carré, Tom Clancy, Ian Fleming, Ken Follett, Robert Harris, solo per citare i più noti. Mi sono meravigliato, quindi, nel leggere sulla copertina di Operazione Blueprint un nome tipicamente italico, come Antonio Di Carlo,  e, se devo essere sincero, mi sono accinto a esaminare l’opera con una certa perplessità, con il timore comunque di potermi trovare di fronte a una vicenda un po’ abbozzata, con i limiti tipici di alcuni dei meno riusciti western all’italiana, giusto per fare un paragone e per meglio esprimere così i miei dubbi.
Il libro si apre con un incontro fra due uomini nell’ancora staliniana Mosca, uno dei quali è addidittura il potentissimo  Laurentij Beria, incontro che serve a definire un mostruoso piano chiamato operazione Omega volto a destabilizzare una volta per tutte l’Occidente a tutto vantaggio dell’Unione Sovietica. In buona sostanza si tratta di inserire nelle fondamenta di edifici nella fase di costruzione del potentissimo esplosivo da far deflagrare poi, a tempo debito, con un impulso radio. Non si tratta di fabbricati qualunque, ma di sedi d’ambasciate, di grossi organismi internazionali, di strutture petrolifere e di impianti di produzione di energia nucleare.
Poi il piano temporale si sposta molto in là negli anni e arriviamo alla perestroika, con il comunismo caduto come un frutto marcio, sostituito da un’ancora incerta e debole democrazia, facilmente preda di eventuali e non improbabili colpi di stato, sia provocati dai nazionalisti più accesi, sia dai nostalgici del passato regime.
E’ in questo delicato periodo che si attiva il piano concepito molti anni prima e che inizia una vera e propria caccia all’uomo responsabile dell’esecuzione del progetto, da parte sia dei servizi segreti americani che di quelli russi, peraltro d’intesa fra loro e che attribuiranno alla loro missione il nome di Operazione Blueprint.
Sebbene alcuni aspetti dell’idea mi ricordino Telefon, il bel film di Don Spiegel con un eccellente Charles Bronson,  Operazione Blueprint può vantare una propria autonomia di svolgimento che presenta non poche originalità, come, per esempio, l’incidentale scoperta del diabolico piano e spunti di fatti accaduti veramente, i quali, per fantasia,  si piegano all’esigenze del romanzo, dandone un’interpretazione in linea con la trama.
E a proposito di quest’ultima si rileva un susseguirsi continuo di colpi di scena, beninteso legati fra loro, secondo un filo logico su cui corre senza intoppi la narrazione, con una tensione costante e che a volte arriva anche al parossismo.
Una cosa è certa: se si comincia a leggerlo, non si riesce a smettere, si vorrebbe divorare le pagine per arrivare all’auspicata soluzione finale, con l’immancabile trionfo dei buoni.
Pertanto, se la giornata è piovosa e costringe a restare in casa, se in televisione non c’è la partita, se insomma non volete stare a sonnecchiare, quello è il momento buono per aprire il libro e di colpo il tempo volerà e voi con lui.
Inoltre, il romanzo presenta un’altra interessante caratteristica, vale a dire che, pur lasciando spazio alla fantasia del lettore, questi viene immesso in precise linee guida tali da consentirgli di scorrere le righe e contemporaneamente vedere le immagini di quel che accade, tanto è notevole l’immediatezza.
Peraltro, in presenza di tanti pregi è presente un neo, anche se non rilevante, e mi riferisco allo scarso spessore dei protagonisti, di cui conosciamo più le azioni che la loro intima struttura. Ecco, sono dell’avviso che Di Carlo, se riuscirà a ovviare a questo inconveniente, potrà raggiungere la fama di quegli autori che ho citato prima.
Comunque, la lettura resta godibilissima e quindi è più che consigliata.



Antonio Di Carlo è nato a Parigi nel 1965. Cresciuto in giro per il mondo, risiede da anni in Nord Africa (Libya, Tunisia e Algeria) dove si occupa di infrastrutture nel settore petrolifero.
     Grande viaggiatore (anche se odia gli aerei per inconfessabili motivi), scrive per gioco e per passione, adora gli sport meccanici, i Talking Heads, David Bowie e la buona tavola.
     Lettore compulsivo, legge di tutto in quattro lingue.


Recensione di Renzo Montagnoli


MondoBlog del 28 gennaio 2012

MondoBlog


Oggi segnalo:


Al di là del mare, se non la più bella, senz’altro la più intensa poesia di Piera Maria Chessa.


Un’altra scomparsa e la doverosa commemorazione su Letteratitudine.


L’altro ieri, La giornata della memoria secondo Rossi Orizzonti.


I punti cardinali, o meglio spunti, della scacchiera dell’umanità.

lunedì 16 gennaio 2012

Galatea, di Corrado Sebastiano Magro

Foto da web


Galatea
di
Corrado Sebastiano Magro


Restava quasi immobile vicina ad un tronco avviluppato dall’edera, nei pressi di una fonte che sotto i raggi del sole primaverile colorava gli zampilli con i riflessi cangianti dell’iride prima di sparire tra i sassi calcarei di un piccolo alveo, quasi un bisbiglio misto al gorgoglio che ricordava la risata chiacchierina e intermittente di un bimbo che non ha ancora acquistato l’uso della parola.
Rivestita di veli bianchi adornati di sfumature diafane e disegni che dal nero fluivano nel grigio, restava quasi celata, discreta tra il verde di piante ed arbusti. Verdi che penetravano, invadevano cespugli di fiori esotici, di ciclamini, zafferani e viole che arricchivano il giardino.
Sorpreso d’incontrarla in quei luoghi, conscio della sua timidezza mi fermai a contemplarla con il cuore in gola ed il fiato sospeso.
Temevo che scorgendomi potesse perdere quel sorriso che sgorgava dalla consapevolezza di essere bella e avrebbe nascosto le armoniose nudità che i raggi solari lambivano e scaldavano. Ma non potevo restare nell’ombra, rischiare di lasciarmela sfuggire, di andare a nascondersi tra anfratti reconditi, sconosciuti, inaccessibili oppure, poiché la vedevo melanconica un poco in disparte, come fosse sola, dimenticata, avrebbe prestato orecchio all’invito di un altro viandante capitato nei dintorni e attratto dal suo mitologico fascino.
Titubante mi avvicinai. Bisognava osare.
Incuriosita dal fremere dei cespugli al mio passaggio, il suo sguardo fuggitivo mi scorse. Non avevo letto timori o ansie nelle sue sembianze e avanzai fin quasi a sfiorarla. Felci, capelveneri e fiori ridondanti di colori si dondolavano al soffio flebile della brezza, la cullavano.
Era ricca di una bellezza nobile, delicata e rispose con un sorriso incantevole al mio. Dolcemente, frenando l’impeto di una fiamma sensuale, le rivolsi il saluto e la parola. Lei tenue sì accomodò sul lato, prestandomi attenzione senza sentirsi scossa, invasa e dopo un poco vedendola tranquilla e fiduciosa le tesi la mano.
Titubò. Poi lentamente si accostò sfiorandola e posandovi sopra la sua.
Le dissi grazie chinandomi e strappandole un altro sorriso:
- Vuoi venire con me? – le chiesi anzi le sussurrai.
Mi guardò un po’ sorpresa. Per un attimo il timore di un rifiuto mi offuscò. Non ero un principe, né un fauno, né il dio Pane con una reggia ricca di piante e di fiori. Le avrei potuto offrire solo un posto esclusivo pieno di luce e di calore nel mio modesto alveo terrestre e nel mio cuore.
Non mi deluse, anche se il suo fu un sì appena accennato. Mi pregò però di prendermi cura di lei e di non esporla a strapazzi ai quali non era mai stata confrontata. I fondali marini che per secoli l’avevano custodita assieme alle altre Nereidi, non erano scossi dalle onde sollevate da Eolo e gli esseri che li popolavano non guizzavano ma passavano accanto quasi danzando, sfiorandola, accarezzandola, mentre il dio degli abissi mitigava la sua immensa potenza, trasformava il suo aspetto di signore assoluto in quello di una gigantesca belva ammansita, docile, soggiogata, che la proteggeva e curava con dolcezza ed amore.
- Posso prenderti sotto braccio?
Annuì quasi arrossendo, lasciandosi cingere con delicata attenzione, mentre il mio viso, le mie labbra sfioravano le sue chiome.
Venne via con me, poggiata alla mia spalla e mi guardò ancora una volta amorevolmente facendomi comprendere di volermi stare vicina.
Ero abbagliato, confuso, felice. Mi sembrava un sogno. Il mio cuore palpitava ripieno di lei, delle sue sembianze, della sua bellezza. Lei lo sentiva, lo gradiva e mi sfiorava delicatamente il viso facendomi sognare, accrescendo in me desiderio, passione, amore sensuale.
Orgoglioso di poterla sentire mia amica e compagna, la condussi nel mio piccolo reame regalandole il posto migliore dove si sarebbe potuta sentire a proprio agio, ornandolo di fiori ricchi di colori e tra i quali lei era felice potere sostare.
Mi fu grata e mi diede tutto di lei. Quando veniva a sfiorarmi il viso, le regalavo una carezza, uno sguardo, un sorriso e lei fremeva di affetto, si apriva al mondo che osservava dietro le ampie vetrate piene di luce o volteggiando sul terrazzo illuminato e riscaldato dal sole, felice di essere amata.
Un giorno mi pregò di allontanare arbusti e foglie asciutti, accartocciati dall’angolo che lei preferiva. Lo feci con cura ed attenzione mentre lei mi accarezzava il capo. Poi mi venne davanti lieta di poter manifestare la sua gratitudine guardandomi profondamente negli occhi e iniziando una danza che la vedeva fluire con grazia quasi seguendo la traccia di una sinusoidale eterea, fermarsi per un attimo a mezz’aria, scivolare tra i fiori, toccarli per un attimo, girarmi attorno sfiorandomi. Il bianco e nero delle stoffe che la coprivano con tutte le loro sfumature la avvolgevano per poi aprirsi, allargarsi denudandola al che lei sembrava fuggire, andare a rifugiarsi altrove facendo battere di ansia il mio cuore, per poi ritornare, sfiorarmi nuovamente il viso, scivolare sulla mia spalla, accarezzarmi i capelli.
Quando scelse di posarsi sui petali carnosi di una rosa vellutata, mi avvicinai e le chiesi:
- Galatea, perché hai abbandonato la tua reggia nel fondo degli abissi dove vivevi sicura e protetta?
- Volevo scoprire il mondo e provare le sensazioni che lo pervadono.
- E sei contenta? Sei riuscita a scoprirlo?
- Sì Aci, amore mio.
Furono le magiche parole che Galatea la mia ninfa pronunciò appoggiandosi al mio petto.

Con il nome della ninfa Galatea viene designata una farfalla: la “melanargia galatea” della quale il lettore può osservare le immagini in Internet.

d’Amore 3, di Romantica Vany e King Lear



d’Amore 3
di Romantica Vany e King Lear
Lulu.com
Poesia e narrativa
Pagg. 118
ISBN 978-1-4709-8451-9
Prezzo € 9,80

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Non c’è il due senza il tre…


E’ più che presumibile che gli autori abbiamo assaporato e inglobato il gusto della continuità, in una tematica piuttosto frequente in poesia, meno facile a trovarsi quando sia il frutto di un lavoro di coppia.
Ma più che d’amore, d’amore agognato, sognato, bramato, qui si comincia a vederne i risultati quando questo, ormai raggiunto senza che diventi necessariamente un’abitudine, si è ormai consolidato, dando forma a quella vita di coppia che è frutto di un’unione, formale o informale, comunque stabile e non occasionale.
Peraltro, e questo mi fa piacere, si comprende dai versi e dalla loro tonalità come questo altissimo sentimento sembri ogni giorno rinnovarsi, con lo stesso entusiasmo e la medesima passione del primo incontro (Ricche le tue parole / dolci - come i frutti della terra -, / festose - come suoni nell’aria -, / hanno il sapore del sole / - del vero amore; / disegnano certezze / senz’ombre / in questa serena Domenica).
Si ripetono così, in delicate sfumature, soprattutto ove è  solo presente la mano di lei, emozioni spesso trasognate, con quella mitizzazione dell’amore propria di chi è ancora nettamente pervaso da quel senso di gioisa inquietudine che coglie, e sempre d’improvviso, chi viene trafitto dalla freccia di Cupido (E non vedo l'ora che sia questa notte / per guardare dalle piccole fessure della mia camera / la chiara luce che la notte mi regala, / semplice e magica: / finalmente potrò così pensarti, / l'unico modo che ho di star con te, / una volta al giorno; e pensare / che mi ami e che starai a me accanto / fino a quando io, chiudendo gl’occhi, / non diventerò figlia delle tenebre.). Questa poesia, scritta da Vanessa Corallo, bene esprime la forza e la potenza di un sentimento a cui anche ci si affida per avere una presenza immateriale, ma rassicurante.
Di tutte le liriche presenti quelle più concrete, se pur immerse in un idillio trasfigurato, sono proprio frutto dell’autrice, mentre più mascherate – s’intende nel sentimento – sono quelle scritte da Giuseppe Iannozzi; insomma una si apre maggiormente, l’altro sta un po’ sulle sue, finge di non dare importanza alle emozioni, un comportamento tipico del resto del maschio. Nel caso specifico si tratta di un gallo cedrone, impettito, ma che ronza intorno, parolando con promesse anche divertenti (Amoruccio, per te tutto / Divento uno spostato e un capellone / o anche uno che si fila la destra / Amoruccio, per te tutto / Cado in ginocchio davanti a te / e così resterò fino alla fine / dell'infinita eternità / E non dovesse bastare / mi faccio templare per il Sacro Graal).
Ma dove sono quelle poesie effettivamente scritte in coppia, quali sono i risultati?  Cosa risulta da questa combinazione di tremiti d’amore e di impettiti corteggiamenti? Si ottiene un amalgama di strano effetto, senz’altro riuscito, e che lascia pensare che all’occorrenza abbia prevalso l’uno sull’altro, senza compromessi che banalizzerebbero la poesia (…Oh l’amore! Amore amore amore / quante volte t’invochiamo / per troppo ardimento / con l’anima soffocata in petto / Stupido stupidissimo bisogno / d’assaggiare labbra di ciliegie; / ma quale creatura potrebbe mai / vivere una vita intera in solitudine? …).
Peraltro, anche se il tema dominante è l’amore, è lasciato qualche spazio ad altri argomenti, e addirittura, dopo le poesie, figurano nel libro alcune azzeccate favole, un’opportunità di sognare ad occhi aperti, che non potrà che essere  apprezzata dai lettori.
Del resto la lettura non è mai affaticante, né è necessario soffermarsi eccessivamente per comprendere un senso del tutto naturale e in questo sta anche il pregio della raccolta, volta a esternare in modo mai enfatico quel sentimento che è il motore della vita. Gli autori si lasciano sì andare, ma sono consapevoli che l’amore non ha bisogno di interpretazioni, perché è una forza che scaturisce naturalmente e che è propria di tutti.
Leggetelo e non ve ne pentirete.





Gli autori

Romantica Vany è l’alias di Vanessa Viola Corallo, mentre King Lear è quello di Giuseppe Iannozzi. Piuttosto restii a fornire informazioni sulla loro vita, sono comunque conosciuti su Internet per i loro blog e siti; Giuseppe Iannozzi è noto in qualità di giornalista e critico letterario indipendente e fuori dai canoni.   
Pubblicazioni:
1)     Iannozzi GiuseppeMorte all’alba – narrativa, tramite Lulu.com; Racconti di nani e giganti  - narrativa, tramite Lulu.com; Premio Strega – narrativa, tramite Lulu.com; Nere gli anni delle innocenze – poesia – tramite Lulu.com; Cesare Battisti. Il fascista rosso – tramite Lulu.com; Il caso Marrazzo. Molte ombre e poca luce – tramite Lulu.com; d’Amore 3 – poesia e narrativa – tramite Lulu.com..
2)     Giuseppe Iannozzi e Vanessa Viola Corallod’Amore – poesie – tramite Lulu.com; d’Amore 2 – poesie – tramite Lulu.com; d’Amore 3 – poesia e narrativa – tramite Lulu.com.

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Recensione di Renzo Montagnoli


MondoBlog del 16 gennaio 2012

MondoBlog


Oggi segnalo:


Beatlefest 2012 – Winter Edition, il servizio di Alberto Carollo su questo incontro-spettacolo degli appassionati dei Beatles;


Adesso è possibile trovare la Storia moderna in ebook. Dove? Ne scrive Gaspare Armato.


Storia e fumetti in un Fatto umano, su Letteratitudine.


L’usignola gorgheggia con La grande illusione.

lunedì 9 gennaio 2012

Isola - sola, di Maria Carmen Lama

                                            Foto da web


La Sicilia, quest’isola dagli insanabili contrasti, in una poesia che la rappresenta in modo stupendo.

Isola - sola
 “La Sicilia come metafora
di Maria Carmen Lama


Adagiata sopra carboni ardenti 
senza mai un lamento
                - ho altro a cui pensare -
tranne che a volte sbuffo
lapilli fumo cenere
e magma ribollente
a fuoco lento lento.

Tu mi lambisci i fianchi
e i piedi nudi
                 - amaro mare mio -
e a volte m’accarezzi dolcemente
ma spesso, se adirato, mi fai male.

Altri amici non ho
che te e il cielo
e i vostri repentini cambi d’umore.

Vi guardo, ascolto e attendo
le vostre lune buone.

Io -
- isola bella - desolata  - e sola  -




Più siciliana di così non può essere una canzone:



Il pretore di Cuvio, di Piero Chiara




Il pretore di Cuvio
di Piero Chiara
Introduzione di Enrico Ghidetti
In copertina Antonio Donghi,
Canzonettista (1925)
Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
Pagg. 160
ISBN 9788804480730
Prezzo € 8,00



Lui, lei e l’altro



“La signora lo aspettava sulla porta e lo tirava dentro come un sorso d’acqua. <<Mia polpa, mia massima polpa>> sclamava il Vanghetta abbracciandola appena dentro la porta e guidandola verso un divano senza sponde, che era l’unico supporto sul quale gli fosse possibile goderla, se non tutta, almeno in gran parte.”



Di Boccaccio e del Decameron c’è ampio spirito in questo romanzo breve di Piero Chiara, tanto  che l’inizio è un’epigrafe della quinta novella della giornata ottava (io vi voglio mostrare il più nuovo squasimodeo che voi vedeste mai). E come lo squasimodeo del grande autore medievale esercita l’attività giudiziaria, anche in questo romanzo il più attuale squasimodeo, tale dottor Augusto Vanghetta, professa l’attività di pretore in Cuvio durante il ventennio e in particolare negli anni Trenta.
Uomo non certo di bell’aspetto (alto poco più d’un metro e mezzo, curvo e quasi gobbo, già grasso e occhialuto a vent’anni e simile a un coleottero o a uno scarabeo stercorario per la sua tendenza a cacciarsi nel sudicio…) è di mediocri capacità professionali, di scarsa intelligenza, ma dotato di un’astuzia da faina e amante anche del protagonismo, alla ricerca di una posizione di prestigio che faccia da contraltare alla sua pochezza. Bugiardo, amante della vacuità, è in preda a un continuo e forsennato desiderio sessuale, un’insaziabile satiriasi che lo porta ad accompagnarsi con qualsiasi tipo e genere di donna, dalla nana alla femmina fatale, dalla prostituta delle case chiuse alle clienti che ha occasione di conoscere nel corso della sua attività.
Non è difficile riscontrare più di un’analogia con un personaggio politico attuale, che Chiara, quando scrisse questo testo, non poteva però aver conosciuto, e quindi è sorprendente sapere che, con la sua fantasia, ha dato corpo a qualcuno che si sarebbe manifestato molti anni dopo.
Augusto Vanghetta è coniugato con un’orfana, moglie ideale, in quanto integerrima e in possesso di notevoli disponibilità, il che gli ha consentito di cogliere due piccioni con una fava: il matrimonio indispensabile per una parvenza di normalità e il denaro, sempre più occorrente per dare sfogo ai suoi capricci.
La moglie, poveretta, soffre della sua condizione di oggetto di rappresentanza e già di debole costituzione si ammala, dimagrendo a vista d’occhio. Del resto, che vita può essere la sua, consapevole, grazie anche al giro di conoscenze della piccola entità locale, dei continui e ripetuti tradimenti del marito? Da essere umano diventa poco a poco un vegetale, rinchiusa in se stessa di fronte non solo all’ostentata indifferenza del marito, ma anche nell’impossibilità di condurre una vita familiare almeno in apparenza normale.
Non brutta, anzi graziosa, nonostante la sua magrezza, sente la vita sfuggirle e ormai dispera, fino a quando non incontra un aiutante del marito, un giovane avvocato, solerte, bravo, ma che nella mentalità di Vanghetta non è un uomo, perché non va a caccia di donne.
Senza sospetti il pretore lo introduce in casa sua, dando vita piano piano a una coabitazione che finirà con l’emarginarlo.
Non vado oltre, perché le sorprese non mancheranno e con un epilogo che è da manuale.
La scrittura di Chiara è fluente, ammaliatrice, continuamente piena di sorprese e di invenzioni, come nel caso della rappresentazione teatrale travolta, e non in senso figurato, dall’improvvisa piena di un fiume; e si ride, volentieri, anche se è sempre presente una nota malinconica sul destino degli uomini, grandi, normali o mediocri che siano: come formiche lottano sul palcoscenico della vita per arrivare tutti a quell’ultimo traguardo, un’esistenza di passioni, di delusioni, di vittorie, ma più ancora di sconfitte, di cui l’ultima è l’inevitabile conclusione di quella battaglia subito avviata non appena venuti alla luce.
Il pretore di Cuvio è un romanzo indubbiamente assai bello, da leggere non solo per sorridere, ma anche per meditare.  


Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).


Recensione di Renzo Montagnoli

lunedì 2 gennaio 2012

Febbre d'amore, di Renzo Montagnoli

La vita è fatta di ricordi  che ricompaiono sempre quando ce n’è bisogno e che ci rendono consapevoli che non è stata solo un noioso interminabile flusso di ore.


                                                                   Foto da web



Febbre d’amore
di Renzo Montagnoli



Ci son giorni in cui
vecchio che sono
ripenso al passato
a quella giovane età
che or mi sovviene
come un sogno nascosto
celato nell’animo
ma pronto a riemergere
se gli anni ormai tanti
gravano troppo
in attesa di un buio
che per tutti è destino.
Riaffiorano allora
corse nei prati
su  un puledro sfrenato
come il suo cavaliere.
Non c’era un domani
in un tempo
che bruciava le ore
portava a nuove scoperte
e fra queste l’amore.
Di tutte la prima
con tenerezza ricordo
di quando la videro insieme
i miei occhi e il mio cuore
forse non bella
ma di certo per me autentica dea
a cui rivolger pensieri
fra palpiti, affanni,
un desiderio e un tormento
una febbre d’amore.
Chissà se c’è ancora
chissà se anche lei
mi vuole sognare.
Il viso il corpo
son ricordi ormai incerti
ma quel che provai
è ancora una febbre d’amore
che in questi giorni
di gelo interiore
riscalda il mio cuore.


(da Canti celtici II)


La voce, melodiosa e armonica, è quella di Enya: