venerdì 24 febbraio 2012

La bellezza della neve, di Ferdinando Camon

 

 


La bellezza della neve

di Ferdinando Camon



"Avvenire" 2 febbraio 2012

Nevica sul Vesuvio, freddo siberiano, crolla il tendone del Palafiuggi, saltano le partite di calcio, 90 morti in Polonia, Romania, Bulgaria, 45 in Ucraina, in crisi anziani e clochard, disagi e ritardi sui treni, ci sono scuole e asili che chiudono. In gran parte d’Italia ci vogliono le gomme invernali o le catene, anche se la strada non è ghiacciata devi averle a bordo, la polizia ti controlla il bagagliaio, se non le hai sei in multa. Molti imprecano: maledetta la neve, a cosa serve la neve? Perché ci fa soffrire? Perché la vita, già così difficile, dev’essere più difficile? È giusto, è saggio che la natura sia fatta così? O c’è un errore?

La neve è un male?
Guardo fuori dalla finestra, la neve volteggia come se non avesse peso. Però cade, un peso ce l’ha. L’ho vista infinite volte, praticamente ogni inverno. Per me, uomo del Nord, fa parte della natura e del mondo. Certo la vedevo con occhi diversi da piccolo, allora era accettata, era naturale. Poi è venuto il boom e col boom l’idea che nel corso della vita avremmo umanizzato il mondo, lo avremmo piegato alle nostre esigenze. E tra le nostre esigenze non c’è la neve né il freddo: sono due negativi. Per noi umani, ma anche per tutti gli animali. E per i vegetali: le piante soffrono, non crescono, la linfa che sale lungo la corteccia si ghiaccia. Nelle linee ferroviarie si possono bloccare gli scambi, un treno diretto a una destinazione s’immette in un’altra, il traffico va in tilt. La neve è un nemico. Come l’orso, il lupo, la lince, la volpe, tutti gli animali che tornano silenziosamente a popolare i nostri boschi, e che ci fanno guardinghi: si stava meglio prima. La Natura ci tradisce.
Lei noi, o noi lei?
Non siamo noi che diventiamo incapaci di amare la natura, di accettarla, quando è come dev’essere? Un bosco con l’orso è più bello, con le linci e le volpi pure, e un inverno che ha la neve è un inverno. Non volendo la neve, noi non vorremmo l’inverno. Non vorremmo la Natura. Vorremmo un mondo s-naturato. Non siamo più capaci di vivere.
La neve non c’è nel “Cantico di Frate Sole”, ma solo perché san Francesco lo scriveva in Umbria, in una stagione in cui la neve non scendeva. Se lo scrivesse ora, adesso, guardando i fiocchi di neve toccar terra senza tonfo, la inserirebbe tra le meraviglie per cui bisogna alzare le lodi. Francesco sta all’inizio della nostra storia letteraria, nel primo capitolo. Zanzotto sta alla fine, nell’ultimo. Zanzotto ha un’ode alla neve, perché la vedeva ad ogni inverno, faceva parte del suo paesaggio. Della neve fa un elogio immenso e fulmineo, la guarda e dice di essere «pronto, in fase d’immortale, / per uno sketch-idea della neve, per un suo guizzo. / Pronto. /Alla, della perfetta./ “E’ tutto, potete andare”». Dunque la neve non è uggiosa, dannosa, odiosa: è “perfetta” e basta. Il “potete andare” è rivolto a noi, che dal poeta ci aspettavamo chissà che cosa. Mentre dobbiamo soltanto prendere atto che la neve è una perfezione indicibile: è giusto, è bello che ci sia. Se c’è la neve, non c’è qualcosa di troppo. Se non ci fosse, ci sarebbe qualcosa di meno. Come il lupo, che dall’Austria scende verso sud, come l’orso, che dalla Slovenia cammina verso ovest, come le volpi, che in Carnia rubano le galline. La natura non è fatta perché noi la dominiamo senza disagio e senza paura: la vita sta nell’affrontare i disagi e vincere la paura. La neve ce lo ricorda. Nelle nostre case calde, noi la odiamo. Nelle loro case fredde, i contadini l’amavano. E non è vero che non serva a niente: “Sopra la neve fame, / sotto la neve pane”. Fra poco la neve si scioglierà e il pane spunterà.



Tenebre su tenebre, di Ferdinando Camon




Tenebre su tenebre
Quando Dio si vergogna degli uomini e gli
uomini si vergognano di Dio
di Ferdinando Camon
Garzanti Libri
Saggistica
Pagg. 368
ISBN 881159797-8
Prezzo € 18,00



Un’analisi impietosa



Nel 2006  Ferdinando Camon ha riunito in un volume (Tenebre su tenebre) una serie di pensieri, ragionamenti, meditazioni, ricordi, scritti nel corso di circa tre lustri in concomitanza con i fatti più eclatanti della storia e della cronaca, come guerre, encicliche, omicidi, suicidi, fenomeni sociali di vario genere, tutti eventi che, senza che magari che ne accorgiamo, incidono in modo determinante sulla nostra vita.
Ormai dovrei essere abituato all’originalità delle opere di questo autore, mai ripetitivo, e in grado di affrontare qualsiasi tema a 360°; eppure questo Tenebre su tenebre mi ha stupito, con questa lunga serie di riflessioni su aspetti diversi, ma in un’unica ottica: quella di rappresentare i controsensi di una società apparentemente felice, ma che va di giorno in giorno degradando. E il quadro che ne esce è per certi aspetti disarmante, perché non lascia scampo, perché non resta un barlume di speranza a che questa decadenza possa arrestarsi, o comunque rallentare.
Tengo a precisare che Camon non è l’inguaribile pessimista che da un aspetto, magari anche marginale, trae, per estensione, conclusioni apocalittiche; no, nel leggere questi pensieri, che a volte possono anche indisporre perché ci toccano direttamente, nascono altre riflessioni che finiscono con il pervenire, al termine del libro, a un unico giudizio sul futuro di questa povera umanità, tesa a percorrere una discesa senza freni e comunque nel più totale disinteresse per la propria sorte.
Ora parlare diffusamente di tutte queste ponderazioni è pressochè impossibile, perché il libro consta di 368 pagine, dove sono numerosissimi i fatti su cui l’autore ha ragionato e pertanto mi limiterò ad accennare solo ad alcuni, a quelli che, a mio parere, possono meglio dare un’idea dei contenuti di questo volume.
Comunque non è sfuggito nulla dei piccoli e grandi temi, o problemi, che caratterizzano la nostra società. A volte le riflessioni hanno imposto un discorso piuttosto lungo, altre, più spesso, si formalizzano in poche righe, una vera e propria fucilata che ci richiama alla realtà di situazioni e di fatti che abbiamo affrontato in modo superficiale, e frequentemente sulla base di preconcetti, che diamo come verità assolute, e invece sono delle falsità di comodo su cui costruire castelli che, per l’infondatezza delle loro stesse basi, prima o poi finiranno per crollare su di noi.
In un’epoca come la nostra, caratterizzata da grandi spostamenti di esseri umani dalle aree misere della terra alle nostre, in cui il benessere è ancora palpabile nonostante la crisi, non poteva così mancare un’attenzione per il fenomeno delle migrazioni ed ecco allora alcune meditazioni, fra le quali Verme mi sembra che più di ogni altra valga a spiegare la nostra diffidenza verso questi stranieri (I paesi che hanno avuto una forte emigrazione sono i più crudeli nel bloccare l’immigrazione. Perché l’ex-emigrante vede nel nuovo povero il povero che lui è stato. La visione accanto a sé dello straniero-povero è come la scoperta di un verme nella mela che sta mangiando: sputa perché lo disgusta. Perciò gli immigranti, dopo aver lavorato qua per decenni, prima di morire tornano nei loro paesi: finalmente liberi, pari tra pari.).
Altre riflessioni sono brevi, quasi uno strale che colpisce all’improvviso e che dà l’impressione di un epitaffio disincantato, proprio per la logica ferrea che è alla loro base, come nel caso di Vincitori (Nelle polemiche letterarie, come nelle guerre, vince chi ha più potere, non chi ha più ragione. La tv sul giornale, il giornale sulla rivista, il premiato sul finalista, le centomila copie sulle diecimila copie.).
Di questi pensieri lapidari ce ne sono parecchi e, a differenza di quelli che sono più lunghi da leggere, sono brevissimi, ma richiedono, magari in più tempi, ulteriori nostre riflessioni che finiscono poi per approdare ad altre problematiche, proprie dell’esercizio della mente quando viene opportunamente stimolata, come in Bene (Il bene è silenzioso. Se diventa rumoroso, è pubblicità.). E’ vero e senz’altro incontestabile, ma in una società in cui conta l’apparenza, finirà nella maggior parte dei casi con l’essere pubblicità. E se poi pensiamo al concetto che abbiamo di bene, sorge immediata una richiesta di verifica, su cosa sia effettivamente il bene, su come cercarlo in noi, su come farlo senza la cognizione di farlo, come gesto spontaneo, contro ogni forzatura.
Si potrebbe andare avanti per un bel po’, e infatti la lettura del libro è stata piuttosto lunga, nel senso che mi ha impegnato in un arco di tempo di circa un anno, che può sembrare un’enormità, ma non lo è, poiche gli stimoli che mi ha indotto continuano a perpetuarsi, provocano indirette e anche non cercate riflessioni che tendono a far sì che il mio apprezzamento, a distanza di tempo da quando l’ho terminato, si accresca, al punto da farmi esclamare:” Se non l’avessi letto, mai e poi mai avrei fatto queste considerazioni; mai e poi mai avrei pensato che ciò che ritenevo assodato era solo un preconcetto; mai e poi mai avrei cercato di comprendere, attraverso me stesso, i problemi di questa società.”. 
Quelli che erano atti di fede sono così risultate semplici convizioni, assimilate come veri e propri dogma, e quindi a prova di ogni logica, in quanto questa aprioristicamente respinta.
Al riguardo Camon scrive una riflessione esemplare sulla Fede (Su quel che promette la fede l’umanità si divide in due parti: metà crede che ci sia tutto ma teme che non ci sia niente, l’altra metà crede che non ci sia niente ma teme che ci sia tutto.)
Quasi senza accorgerci, una pagina dopo l’altra, emerge una diagnosi cruda, impietosa, della nostra società, una conclusione che turba e che porta a una visione di un mondo insensato, in un libro di grandissimo interesse, e di altrettanto consistente valore.
Leggetelo, per sapere come siamo, per conoscere dove andiamo.


Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente, Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).
 Il suo sito è www.ferdinandocamon.it



Intervista a Ferdinando Camon, autore di Tenebre su tenebre, edito da Garzanti.






Strano libro, questo, costituito da riflessioni, pensieri, in alcuni casi da articoli pubblicati su qualche quotidiano. Se a me per leggerlo è occorso un anno (non per la lunghezza, ma perché inevitabilmente questi brani suscitano altrettante riflessioni), penso che per scriverlo sia stato necessario molto di più, o forse, con maggiore probabilità, l’opera è frutto di scritti stilati in un arco di tempo piuttosto lungo. Nell’ambito della produzione letteraria italiana Tenebre su tenebre costituisce un genere atipico e peraltro non facilmente inquadrabile, ma è indubbiamente un lavoro interessante che offre spunti per confronti, per dialoghi, quasi dei dibattiti, come quello che mi accingo ad avviare con l’autore, Ferdinando Camon.
Perché l’idea di riunire in volume idee, riflessioni, maturate in più anni e che finiscono, nel loro insieme, per delineare un quadro impietoso della società attuale?

Non sono articoli, sono il cuore di ragionamenti maturati a ridosso della cronaca, in un decennio e più: se il centro, la tesi centrale di quei ragionamenti non è stata smentita finora, ho pensato che può avere una validità, cioè una attualità, anche domani. Sono insegnamenti del passato ad uso del futuro. Non mi offendo se qualcuno mi definisce “moralista”, penso anzi che tutto dovrebb’essere morale, anche la politica, e una politica immorale o amorale, come piaceva a Machiavelli e come abbiamo avuto fino a poco fa, non è accettabile. Ritengo che sia necessario risalire a monte dello Stato, della Chiesa, della Costituzione, delle Leggi, e interrogarsi sui primi princìpi e le cause prime, che non sono affatto chiare. Illegalità dello Stato, colpe della Chiesa, ignoranza della Scuola, contraddizioni della Costituzione (nostra e altrui), scontri fra culture, in cui le altre hanno torto ma la nostra non ha ragione, diritto di morire, primato della coscienza, fanno della vita un viaggio disperato, in cui non c’è una guida ma in ogni attimo occorre trovare una guida. Che varrà per quell’attimo.

Concordo e pure io, magari con un approccio diverso, nel chiedermi dove sto andando, mi sono immancabilmente domandato dove sta andando il mondo, che sembra una mosca in un bicchiere capovolto: si agita, vola di qua e di là, e sbatte per  poi sempre verificare l’amara realtà della sua prigionia. Come ha ben detto Saramago, l’attuale crisi non è tanto economica, quanto morale.
Però a me sorge un dubbio, non sempre presente, ma che ogni tanto ritorna. Infatti mi chiedo se il mio atteggiamento moralistico sia sbagliato, cioè se sono io che percorro una strada fuori da quel bicchiere in cui inconsciamente tento di entrare. Cerco una risposta, che trovo nei miei principi di onestà, di rispetto per gli altri, di convinzione che il pensiero del cristianesimo non sia un’utopia, perché tutto ciò che, per un motivo o per l’altro, non ci risulta comodo, lo liquidiamo con il termine impossibile. E’ tuttavia una risposta che, se mi rincuora, non fuga i miei dubbi e allora quello che le chiedo è questo: siamo proprio sicuri che la nostra visione pessimistica del mondo attuale sia giusta e che altrettanto giusto sia quel concetto di moralità che ci accomuna?

Visto che lei parla di Cristianesimo, è vero, al fondo della nostra civiltà c’è questa religione, però predica una verità rivelata, e di fronte alla rivelazione si deve fermare ogni ricerca, filosofia, scienza. È questo il punto. Il Cristianesimo non concepiva rapporto possibile con l’”altro” se non in vista della sua assimilazione, o conversione, cioè della sua distruzione come “altro”. Il Cristianesimo crede nell’assioma che Dio è la verità, non accetta di cambiarlo con l’inverso, che la verità è Dio. È un tema antico, ne parla già Socrate nell’”Eutifrone”, dove si pone il quesito: una cosa è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? È buona se piace a Dio, rispondeva Eutifrone, che è un sacerdote. E così ha risposto ogni papa, fino al primo Ratzinger. Se un’azione è buona quando piace a Dio, se al posto di Dio ci metto Hitler o Stalin, facendo la sua volontà faccio il bene. Ci abbiamo messo duemila anni a liberarci da questo impianto. Todorov insegna a non convertire, o non acculturare, nessuno. Noi diamo agli altri tutto quello che sappiamo, lasciandoli liberi di accettare o no. Abbiamo una società più arretrata rispetto a quella dell’impero romano, dove erano possibili convivenze che oggi non ammettiamo. C’è poca scienza nella nostra società, poca filosofia, e molta ideologia. Non abbiamo concetti, ma soltanto preconcetti.

Sì, il confronto con l’impero romano ci vede perdenti perché siamo succubi di noi stessi, nel senso che siamo alla ricerca di un’identità che non ci è stata tolta, ma che abbiamo perso per strada. E in un tempo come il nostro abbiamo un concetto di razionalità che è irrazionale, di nazione che è più retorico che effettivo, siamo un branco di naufraghi alla deriva pronti ad agganciarci alla prima zattera che incontriamo, convinti che non ci sia di meglio, ma subito lesti a disperare. A dirla francamente, l’uomo contemporaneo ha meno personalità che in un passato lontano, è una massa belante che si crogiola in una pseudo democrazia che è remissiva accettazione del governo di pochi. Si ha paura dell’altro, di quello che viene da fuori, perché non ci si conosce dentro, e d’altra parte la decadenza del mondo occidentale è sotto gli occhi di tutti, e in questi periodi di disfacimento è logico, come dice lei, che non esistano concetti, ma preconcetti, preconcetti che sono alla fin fine oggetto di questo suo libro. Al riguardo ricordo quanto scrive a proposito dell’analfabeta: “ Quando hai finito un romanzo, devi leggerlo di fronte a un grande critico e a un analfabeta. Il secondo non ha meno importanza del primo.” . Eppure, se domanda a chi si picca di scrivere se leggerlo solo davanti a un famoso critico e non anche a un analfabeta, la pressochè totalità risponderà sdegnata che la seconda ipotesi è quasi blasfema.
Ecco, quindi, la domanda, quella che ora rivolgo a lei, certo di non facile risposta: perché ci siamo ridotti così?

Avevamo, e in gran parte abbiamo ancora, un’idea bloccata di storia. Di Stato, nazione, progresso, religione, scuola, futuro. Ci sembrava che il nostro domani sarebbe dipeso dal nostro oggi, che la nostra idea di Stato sarebbe durata per sempre, che i nostri diritti sarebbero sempre stati i nostri diritti, che i nostri figli sarebbero stati la nostra ripetizione, che la nostra religione fosse frutto di una più perfetta rivelazione, che noi fossimo “oi ghennàioi”, i migliori, e che chi arriva qui dovesse diventare la nostra brutta copia.  È saltato tutto. La Storia impone agli altri diritti che noi non gli riconoscevamo, è finita l’epoca delle storie separate, ogni popolo la sua con i suoi risultati: dobbiamo spartire i risultati della nostra storia con i figli di altre storie. Predicavamo un concetto astratto di umanità, ora l’umanità ci stringe d’attorno, ci assedia. Tutto ciò che sapevamo non ha più un valore assoluto. Dobbiamo riapprendere. Né nell’universo morale né nell’universo fisico.   

Quando una civiltà si culla sugli allori, è il momento in cui inizia a decadere. Perché a una rivoluzione non segua una restaurazione, la rivoluzione deve essere continua. Lo stesso ragionamento vale per l’evoluzione, che deve essere sempre presente: il fermarsi implica che si resti indietro e non si possa più riprendere il treno, su cui altri invece sono saliti al posto nostro. Certo che in questo suo libro non mancano gli strali, che colpiscono anche la sua categoria (Insegnare a un altro a scrivere vuol dire insegnargli a copiare. Scrivere s’impara, non s’insegna. Fondando scuole di scrittura, Pontiggia, Baricco e Mozzi creano imitatori, non scrittori). Premetto che condivido quanto ha scritto ed è comprovato dai fatti. Dalle scuole di scrittura non escono scrittori, ma scrivani. Eppure mi risulta che siano molto frequentate e questo sinceramente mi è incomprensibile. Secondo lei, perché uno dovrebbe partecipare a uno di questi corsi, ovviamente non gratuiti, per scrivere in un modo uniforme, un’omologazione che sa tanto di catena di montaggio?

Una civiltà decade quando non impara più, perché crede di avere imparato tutto. La cultura non sta nel sapere, ma nel cercare. La scuola non deve insegnare verità da imparare, ma un metodo per cercarle. Le scuole di scrittura sono un non-senso: chi impara a scrivere da uno scrittore-insegnante, sostanzialmente ripete quello scrittore, in peggio. Non dovrebbero esistere nemmeno gli editors, cioè i lettori-correttori di testi: ogni parola che sta in un testo viene dal vissuto dell’autore, se un editor inserisce una propria parola sostituisce il vissuto dell’autore col proprio. Molti anni fa l’”Unità” mi chiese un’opinione sul divorzio, era la vigilia del referendum, la mandai, nel pomeriggio mi richiamarono 7-8 volte, ogni volta per cambiare un aggettivo o un sostantivo, alla mattina dopo leggo l’articolo stampato e mi chiedo: “Ma chi lo ha scritto?”.  Non era più mio. Quando lesse il mio primo romanzo, “Il Quinto Stato”, in manoscritto, Pasolini mi consigliò di inserire una parola, una sola: l’ho fatto, ma ancor oggi mi rimorde. Tuttavia ci sono quelli che s’iscrivono alle scuole di scrittura, perché hanno un’idea scolastica e professionale della scrittura, un’idea borghese. Vengono fuori scrittori da sottobosco, che poi cercano editori a pagamento.

Il fenomeno sembrerebbe quindi irreversibile, tanto che quando decade una civiltà è come un masso che rotola lungo una china fino alla sua base. Secondo lei, sarebbe possibile rallentare questo disfacimento o addirittura rimediarvi e, se sì, in che modo?

Una volta la questione veniva posta in altri termini: cosa c’è dietro l’angolo? Ogni politico, intellettuale, filosofo, prete, docente intervistato dava la sua risposta. Finché apparve un politico ex-comunista che rispose: “Io so cosa c’è dietro l’angolo”, ”E cosa c’è?”, “Un altro angolo”. Quel politico è morto, non c’è più. Aveva sperimentato la fine di un mondo che credeva epocale, e s’era visto trasportato dalla storia in un mondo opposto. Se fosse vivo oggi, si troverebbe da capo nella stessa situazione: il mondo si sgretola, non possiamo farci niente, e non sappiamo quale sarà il mondo di domani, perché non possiamo vedere dietro il nuovo angolo. In queste situazioni, capisco chi si fa prendere dalla nostalgia, e spera che la storia faccia (come non farà mai) un salto indietro. Il mio traduttore russo (una volta avrei detto sovietico) rimpiangeva Stalin, diceva che con Stalin “c’era la chiarezza”. Di recente m’ha scritto un’email un suo figlio, scappato già allora negli Stati Uniti. Mi chiedeva notizie recenti su suo padre. A Istanbul mi ha intervistato uno scrittore islamico integralista, calvo ma bello, un Yul Brynner, che mi trattava con disprezzo: lui nella verità, io nell’errore. È fatale che le cose vadano così. Impossibile convincerlo che la sua verità è provvisoria e relativa, come il mio errore.

Le dico che è una fortuna non sapere cosa c’è dietro l’angolo, sia che si tratti di un mondo migliore che di uno peggiore. Provi un po’ a immaginare se potessimo conoscere il nostro futuro: sarebbe un’esistenza terribile, sia che questo si presenti roseo, sia che risulti tragico. E in questo modo non avremmo più né passato, né presente, né futuro, ma solo una seguenza noiosa di fatti ed eventi che toglierebbe ogni emozione.
Il suo libro porta come sottotitolo “Quando Dio si vergogna degli uomini e gli uomini si vergognano di Dio”. Vuole spiegarmi il significato di questa frase?

Che gli uomini facciano cose vergognose è palese a tutti. Che nel nome di Dio vengano fatte cose altrettanto vergognose è difficile dirlo e difficile accettarlo, per ogni religione, cristiana, islamica, e le altre. Stiamo in casa nostra. C’è un capitano dell’aviazione argentina, che ha guidato alcuni “voli della morte”, scaricando in mare centinaia di ragazzi sequestrati dalla polizia e addormentati con iniezioni di Valium, il quale anni dopo atterrò, per incautela, in Spagna, e la Spagna lo arrestò, perché tra le sue vittime c’erano anche ragazzi spagnoli. Lui raccontò che una volta, dopo uno di quei voli, si recò in chiesa e si confessò, per fare la comunione. Il prete gliela diede dicendo: “Oggi, per te, questa è la seconda comunione”, intendendo che il volo della morte era stato la prima. La Spagna non ha la condanna a morte, e non ha l’ergastolo, però può condannare a un numero di anni illimitato. A questo capitano inflisse 600 anni di carcere. Se quel volo della morte valeva 600 anni di carcere, e se è stato possibile dargli prima la comunione, ci si può vergognare di quella religione. È un esempio. Nel mio studio, in una scatoletta, conservo una fibbia per pantaloni, comprata in un mercatino di Brunico, in Alto Adige: è la fibbia della Wehrmacht. Porta la scritta “Gott mit uns”. Di quel Dio che era con loro ci si può vergognare.

Più che vergognarsi di quel Dio che era con i nazisti, ci si dovrebbe vergognare per aver permesso che un’ideologia come quella nazista andasse al potere. Dio non può essere né buono, né cattivo e solo gli uomini tentano di dargli un’immagine, di considerarlo alla stregua di se stessi, e poiché l’uomo è imperfetto, anche il Dio costruito da questi uomini è imperfetto.
In ogni battaglia i contendenti invocano l’aiuto di Dio e questo offre la misura della loro fragilità; il ricorrere a un giudice supremo per la vittoria non solo è irrazionale, ma dimostra che l’evoluzione della specie è ancora enormemente lenta.
Nel suo libro ci sono delle riflessioni illuminanti, di una logica ineccepibile e parlare di tutte – e sono tante – è praticamente impossibile.  Qualcuna, però, merita più di un’attenzione e un approfondimento, come questa: “Il nuovo papa, tedesco, dichiara di voler condurre il mondo a Cristo. Non cambia nulla. Cambierà tutto quando verrà un papa che vorrà condurre Cristo al mondo.”
Mi piace, ma non sono convinto del tutto. Può spiegare in altri termini il significato?

Alle mie spalle, in questa stanzetta dove scrivo, ho l’Abiuratio Galilei, il testo con cui Galilei rinnegava la propria scienza, la malediceva e la condannava, e prometteva a chi lo teneva sotto giudizio (7 cardinali, che occupano le prime sette righe della pagina), che se girando per il mondo avesse scoperto scienziati che portavano avanti le sue dottrine, immediatamente li avrebbe denunciati al più vicino tribunale della Santa Inquisizione. Era un modo per ridurre il mondo a Cristo. Il nazismo, lo stalinismo, l’islamismo usano modi analoghi. Il cambiamento da raggiungere è l’impianto opposto: vediamo se ciò in cui crediamo si può adattare alle nuove scoperte della scienza. Il sistema in cui viviamo è plasmato dal nostro cervello, ma anche viceversa: il nostro cervello è prodotto dal sistema in cui viviamo. Confesso che il mio cervello non riesce a concepire uno spazio che si dilata infinitamente, occupando sempre nuovo spazio, e un universo che s’è prodotto con l’esplosione di una microparticella che c’era da sempre, anche quando non c’era niente. Qualche mese fa ho letto che questa teoria viene sostituita da un’altra, che il Big Bang non fu un unicum, ma la storia dell’universo è una catena di Big Bang che esplodono e reimplodono dopo miliardi di anni. Non ho il cervello per incamerare questi concetti. Mio padre, contadino, non capiva il sistema solare galileiano, gli era più chiaro quello tolemaico. Io, suo figlio, non capisco la fisica post-einsteiniana. Nel sistema in cui i mondi si succedono dopo miliardi di anni, si auto-creano e si autodistruggono, vale il detto di Dostoievski che “tutto è permesso”, sparisce ogni concetto di bene e di male. Non riesco a farlo mio.

Sostanzialmente è la differenza fra la supposta certezza e il dubbio, dove quest’ultimo dovrebbe essere sempre presente per comprendere dove si sta andando e per cercare di andare per il meglio. Comunque c’è un’altra riflessione, molto illuminante, intitolata Sviluppo e civiltà. Lei scrive “ Secondo gli americani (cito un economista) lo sviluppo economico di un popolo non è compatibile con il mantenimento dei suoi costumi e delle sue usanze.” Poi, e per brevità salto alcune righe, aggiunge “Gli americani vanno per il mondo a salvare i paesi poveri, portandogli la ricchezza ma sopprimendo la loro civiltà. Dappertutto trovano una interminabile resistenza, e la credono resistenza alla ricchezza, mentre è resistenza alla perdita della propria civiltà. Nessun popolo può sentire l’arrivo del progresso nella perdita della propria civiltà.”.  E’ vero, ma la civiltà proposta dagli americani è una non civiltà, basata solo sul guadagno come fine di ogni popolo, un concetto talmente deleterio che finisce con il ritorcersi contro chi lo propugna, come stiamo anche osservando con la crisi economico-finanziaria attuale. Con lo stesso sistema si vuole imporre poi un concetto di democrazia a chi, per civiltà, non fa comodo. Ora, il declino dell’occidente appare ormai inevitabile e progressivo, anche perché gli altri paesi europei si sono omologati ai principi della potenza egemone e passivamente ne seguono le vicende, disuniti e pronti a beccarsi come i polli manzoniani. E’ un sistema in cui tutti si puntellano per restare in piedi, ma basta che uno scivoli e tutto crolla.
Secondo lei, noi europei abbiamo rinnegato la nostra civiltà, accettando supinamente quella imposta dagli Stati Uniti, o ancora in noi è presente un po’ di orgoglio che potrebbe anche sfociare in un rifiuto a un sistema di vita solo in apparenza gratificante, ma che alla fine immerge tutto in uno squallore desolante?

I paesi che non sono disposti a barattare ricchezza con civiltà, e che non accettano la civiltà americana, sono i paesi islamici. Dove c’è l’Islam la civiltà occidentale penetra poco o niente. L’Islam sente questo come una sua forza, noi occidentali lo sentiamo come una sua forma di arretratezza. Gli islamici che vengono qui faranno negli anni futuri, in un paio di generazioni, il percorso che noi abbiamo fatto nelle generazioni passate: noi abbiamo acquistato in benessere, ma abbiamo perduto la nostra civiltà. Rispetto al dopoguerra abbiamo perso un tipo di famiglia, di coppia, un concetto di lavoro, di risparmio, di rapporto tra generazioni, di sesso, di Dio, di vecchi, di solidarietà: abbiamo perso una civiltà. Siamo uomini diversi, viventi in una famiglia diversa, in una società diversa, e concentrati su valori diversi. Ogni impero dominante nella storia impone i suoi valori. L’impero americano impone il valore dei soldi. Si fa tutto solo per i soldi. I marines si arruolano e uccidono per i soldi, le guerre si dichiarano per il petrolio, la Sanità è regolata per censo, e anche gli studi all’università. Anche l’arte è sottomessa al denaro. Se fai un film che incassa, potrai fare un altro film, ma se fai un film bello che però non incassa, hai chiuso. Se hai un infarto per strada ma non hai un’assicurazione, l’ospedale ti trascina fuori della porta e ti lascia morire sul marciapiede. È un sistema turpe ma forte, lo Stato americano è iniquo ma potente. Nel breve futuro che riusciamo a vedere con i nostri occhi, non cambierà. Questo è il nostro mondo e sarà il mondo dei nostri figli.   

E’ un quadro desolante, che lascia presagire un futuro sempre peggiore per la nostra società, una situazione in cui ci siamo messi inconsciamente e altrettanto inconsapevolmente continuiamo a sbagliare, pur fra lamentele varie, anche per il timore di apparire diversi, e quindi di essere emarginati. Quella frase “Se hai un infarto per strada ma non hai un’assicurazione, l’ospedale ti trascina fuori della porta e ti lascia morire sul marciapiede.” mette i brividi e mi fa venire una delle riflessioni che, a parer mio, è fra le migliori, quella sulla Carità e la giustizia.
Credo di non aver mai trovato due definizioni migliori delle sue per fare comprendere come dovrebbero essere. E opportunamente ha evidenziato il pensiero di Mao, una soluzione non solo marxista, ma anche cristiana e liberale: .” se dai al povero un pesce, lo sfami una volta; ma se gli insegni a pescare, lo sfami per sempre.” . La carità, invece, consiste nel venir incontro a chi ha fame, affinchè non muoia, nell’attesa che politicamente gli si insegni come procurarsi i mezzi per mangiare.
In realtà i paesi ricchi centellinano gli aiuti a quelli poveri, perché sono consapevoli che la loro ricchezza esisterà solo a fronte di quella povertà. Non è più una questione di surplus, ma di potenza, che non deve essere mininamente scalfita, bensì, se possibile, accresciuta.
Lei cosa pensa al riguardo?

Nel capitalismo non esiste il concetto di carità o aiuto o sussidio, esiste il concetto di interesse o di affare. I paesi poveri saranno aiutati quando aiutarli sarà un affare. Si possono aiutare i paesi arretrati, e di fatto si aiutano, ma in previsione del loro salire tra i paesi emergenti: allora l’aiuto è un investimento, che è una perfetta pratica del capitalismo. Nel rapporto con i paesi affamati, il capitalismo applica un suo principio: “Hai fame? Colpa tua”. È lo stesso principio per cui si dice: “Sono ricco? Me lo merito”. Se un paese fallisce (come, nel momento in cui scrivo, pare succeda alla Grecia), è giusto che venga divorato dai paesi sani che lo circondano. In Parise c’è un marito, capo-famiglia, che è malato e sta in ospedale, ogni volta che la moglie o i figli vanno a trovarlo, lui si vergogna: perché è malato, tutti gli altri padri e capi-famiglia lavorano e portano avanti la loro famiglia, lui non lo fa e se la sua famiglia è danneggiata, la colpa è sua. La malattia come colpa è un concetto della società del lavoro. Non è un concetto infondato. È possibile che il lavoratore non ami la sua condizione, la avversa, e se ne libera rifugiandosi nella malattia. La “malattia come tornaconto” è un concetto caro a Freud. Nel capitalismo non c’è limite alla corsa verso la ricchezza, chi ha vuole avere sempre di più: teoricamente, la corsa dovrebbe finire quando uno solo ha tutto. Ma sempre, quando lo squilibrio è troppo alto, la storia si spezza.    

Logica ferrea, la sua, con una descrizione del capitalismo che sarebbe piaciuta tanto a Marx e, che al di là delle opinioni, è purtroppo veritiera. Fino ad ora abbiamo parlato di questo suo libro e mi piacerebbe continuare, ma le domande finirebbero con l’essere in numero eccessivo, con il risultato che potremmo andare avanti per giorni e giorni. Non nascondo che mi piacerebbe trattare con lei altri punti, ma c’è un limite fisico che mi frena e che mi induce, per l’ultima domanda, a passare ad altro argomento.
S’impara a scrivere leggendo e nessuno sfugge a questa norma; però, ci sono autori e opere che più ci influenzano e quindi, nel suo caso, che maggiormente hanno contribuito alla formazione di Camon scrittore. Chi sono questi artisti, quali loro opere sono state determinanti e perché?
E se mi permette, in uno con questa domanda, ne rivolgerei un’altra: a quale suo libro è maggiormente affezionato e per quale motivo?

Sì, ci parliamo da troppo tempo, se qualcuno ci seguiva all’inizio a quest’ora ci ha abbandonato. S’impara a scrivere leggendo, e leggendo s’impara a leggere, quali libri leggere. In giovinezza si legge di tutto, tutto ci nutre. In età matura si sceglie, ci sono autori fraterni, la loro vita e la loro opera insegna qualcosa alla nostra vita e alle nostre opere, se vogliamo tentare di scrivere. Per me, sono stati importanti gli autori del Verismo italiano, Verga soprattutto, e del Naturalismo francese, Maupassant più degli altri. E del neorealismo, Pasolini in modo particolare. Anche il suo cinema, il suo primo cinema, da “Accattone” al “Vangelo secondo Matteo”. E ancora i sudamericani, Cortàzar più di Màrquez. Alla fine, sapevo interi capitoli a memoria. Non rinnego nessuno dei miei libri. Ci sono articoli che ho scritto senza volerlo, stanco, ad ora tarda, tra le 23 e le 24, perché un direttore me lo chiedeva, aveva bisogno di quel pezzo e lo voleva prima di chiudere io giornale. Ma i libri li ho scritti perché li volevo io, ognuno nasce da una necessità. Più di tutti, “Immortalità”, quello che io chiamo così, e che così s’intitolava quando l’ho mandato all’editore. L’editore italiano lo intitola “Un altare per la madre”, quello francese “Apothéose”, quello americano “Memorial”… Credo che si chiami “Immortalità” soltanto in Lettonia, Brasile, Turchia. Ma per me resta “Immortalità”. Entrando nel mondo di là, lo userò come un lasciapassare. Una volta mi chiedevo: Sì, ma in quale lingua? Italiana, francese, tedesca, inglese, russa…? Visto come va la storia, escludo che nel mondo di là parlino il russo.   


La ringrazio per questa piacevole e assai interessante intervista e la saluto con l’auspicio di avere altre occasioni come questa per un nuovo scambio di opinioni.



Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 24 febbraio 2012

MondoBlog


I miei consigli odierni:


Massimo Maugeri, dopo il Festival di Sanremo, a k.Lit – Il Festival dei Blog Letterari.










sabato 18 febbraio 2012

Il sogno della libellula, di Renzo Montagnoli

                                                                      Foto da Web

Il sogno della libellula
di Renzo Montagnoli



Canneti di rane gracidanti
sospiri di vento
che lento s’adagia sull’acqua.
Splende la luna
in un cielo di stelle
a cui salgono i sogni.
Domani è il giorno
per il volo da sposa
per lasciare la progenie
una vita intera
in una scia di sole
e poi il tramonto
senza più notti.
Ma ora dormi
sogna
libellula dalle seriche ali.
Nulla ti deve turbare
il sogno è la realtà
dell’eterno
il risveglio
è l’irrealtà
di un tempo finito.

(da “Il cerchio infinito” – Il Foglio, 2008)


Questa la stupenda colonna sonora:





Il balordo, di Piero Chiara



Il balordo
di Piero Chiara
A cura e introduzione di Mauro Novelli
In copertina: Domenico Gnoli,
LEFT SIDE PARTITION, 1969 – Stedelijk
Museum Amsterdam
Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
Pagg. XXXVI – 145
ISBN 9788804103400
Prezzo XXXVI – 145




Un personaggio straordinario




Anselmo Bordigoni pesava centoquaranta chili e la sua altezza era di metri uno e novantotto. La vita sedentaria aveva favorito la crescita del suo ventre, il cui asse antero-posteriore era di settanta centimetri, in rapporto proporzionale col peso…. Scalinate di carne, sacche di grasso d’incalcolabile consistenza, cordonate di lardo e spessore incredibile di cotiche, materializzavano in lui una forma che troppo facilmente poteva definirsi mostruosa, e aveva invece una sua armonia di rapporti tra misura e misura, e come si è visto, tra misura e peso. Nel luogo dove capitò a vivere egli era, positivamente, il più grande e grosso uomo che si fosse mai visto.

Questa è una parte della descrizione che Piero Chiara fa del protagonista di Il balordo, il suo terzo romanzo dopo Il piatto piange e La spartizione. E’ indubbiamente un personaggio eccezionale e non solo per la sua mole, perché, additato di volta in volta come omosessuale, antifascista, debole di mente, musicofilo e concertista di grande fama, è invece un uomo che più che vivere, si lascia vivere, senza apparenti desideri, senza memoria del passato, completammente soddisfatto della sua innata passione per la musica, alternata con lunghe sedute in riva al lago o ai fiumi, cercando di far abboccare qualche pesciolino.
Una vita anonima e silenziosa, la sua, in evidente contrasto con la sua dimensione, che da sola basta a farlo notare.
Si potrebbe anche dire che conduce un’esistenza chiuso in se stesso, indifferente al mondo che lo circonda, in un atteggiamento tipico del diverso o comunque del disadattato.
Addirittura potrebbe essere scambiato per lo scemo del paese, con quel suo mutismo ostinato che avvolge di ulteriore mistero la sua persona.
Ma se lo scemo del paese viene tollerato e finisce con il diventare quasi un’istituzione, perché c’è senza esserci, perché in lui normalmente non c’è un talento che supplisca alla sua disgrazia e che lo elevi dal suo grigiore, in Anselmo Bordigoni è presente una grazia divina, una capacità di accostarsi alla musica, di interpretarla, di suonare diversi strumenti come ben pochi sanno fare. E’ un piacere ascoltare il suono del suo pianoforte, è una melodia che scende dell’anima, ma inevitabilmente questo riscatto della sua volontaria astrazione dal mondo urta la sensibilità di chi, attivo e presente in società, non ha nulla da contrapporre a questa qualità così eccelsa. Uno comincia a mormorare, a inventare fatti inesistenti, e in una piccola realtà la voce corre, si propaga, si amplifica, fino a diventare una verità.
Accusato di comportamento sconveniente sarà inviato al confino, in un altro piccolo paese del meridione, chiuso, ma disponibile ad accogliere, senza riserve, questo omone che trascorre lunghe giornate seduto sotto un albero gigantesco e secolare, chiamato nella tradizione popolare Il Buon Cazzone. Ed è tanta la simbiosi con la pianta che anche Anselmo Bordigoni, il Bordiga, ne assumerà il soprannome.
Rientrato al paese lacustre, dopo il secondo conflitto mondiale, in cui saprà farsi valere con la sua musica, tanto da essere arruolato nell’esercito americano come direttore di banda, non verrà riconosciuto dapprima da chi pur aveva a lungo vissuto vicino a lui. Scambiato per un maggiore dell’esercito alleato, dimenticata da tutti l’accusa infamante che l’aveva mandato al confino, anzi nella convinzione che questo suo soggiorno obbligato fosse dovuto a un’attività antifascista, in un quadro generale che vede le autorità del paese latitanti per il loro trascorso attivo nel regime, sarà proclamato sindaco a furor di popolo. E mai simile incarico verrà svolto così bene, con l’introduzione di una democrazia diretta accettata da tutti, in quanto partecipi delle decisioni.
Durante questo incarico verrà a mancare (le pagine della sua morte sono di grande bellezza) e umile come era sempre stato chiederà solo di essere sepolto lungo il muro di cinta del cimitero, con una piccola lapide con su scritto solo Qui riposa Il Buon Cazzone.
I tempi, tuttavia, dopo la sua morte cambieranno rapidamente, vi sarà un ritorno ai preconcetti del passato, una silenziosa restaurazione che provvederà a far cancellare dall’iscrizione “Il Buon Cazzone” e così ci si è dimenticherà di lui, di una presenza tanto ingombrante quanto esaltante.
Piero Chiara ha scritto un romanzo che è semplicemente stupendo, forse sotto l’influsso del Candido di Voltaire, un candido nazionale, paesano, un personaggio indimenticabile così come tracciato dall’autore, che rivela in quest’opera anche un rilevante talento poetico. Al riguardo bastano le poche righe che seguono per dimostrare questa sua capacità:
Finì l’anno scolastico e con l’estate ricominciò a funzionare l’orchestra. Nelle notti stellate le due motociclette canterellavano per le strade delle valli; e appena arrivati loro dentro i saloni a finestre spalancate delle trattorie tacevano i grilli e incominciavano i tonfi della grancassa, le cascatelle del pianoforte, i singulti del sassofono e le sviolinate del Ginetta. Il pubblico era sempre lo stesso, con l’intrusione di qualche villeggiante milanese.
E io che pensavo di aver letto tutto di Chiara, tranne Il balordo, forse per il titolo che non mi attraeva, ora sono contento di parlarne, perché per ultimo mi sono riservato il suo romanzo più bello, che non esito a definire un capolavoro per il tema trattato, per come è stato svolto, per la grande maestria con cui, più volte, si è indotti al riso e contemporaneamente al pianto, come appunto nelle pagine della morte del Bordiga.
Il balordo è un’opera imperdibile.




Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).


Recensione di Renzo Montagnoli



MondoBlog del 18 febbraio 2012

MondoBlog


Oggi segnalo:
















venerdì 10 febbraio 2012

In Slovenia la cultura (r)esiste, di Sergio Sozi




In Slovenia la cultura (r)esiste
di Sergio Sozi



La sua mancanza di rassegnazione, un popolo a volte la dimostra anche senza mettersi a bestemmiare o a sfasciare vetrine in piazza. Testimonianza ne sia la manifestazione pacifica che circa trecento scrittori ed intellettuali hanno tenuto il pomeriggio del 7 febbraio 2012 nel centro di Lubiana, con l'intenzione di aggiungere una nota polemica alla cerimonia ufficiale di premiazione del Premio Prešeren 2012, che si teneva la medesima sera in una sala congressi del grande Cankarjiev dom (palazzo destinato ad incontri culturali, spettacoli, ecc. Ogni anno a novembre vi si tiene anche la fiera del libro nazionale).
Cosí quei trecento – dopo aver firmato, con altri cinquemila operatori culturali, una petizione che esprimeva la loro posizione rispetto al problema – si sono radunati all'aperto (il termometro segnava dieci sotto zero) e hanno discusso assieme, scandito tranquilli slogan, acceso lumini e... bruciato simbolicamente un violoncello autentico e funzionante. Perché? Qual era il ''problema'' che univa musicisti, scrittori e redattori, uomini di spettacolo e traduttori?
Semplice: il problema era che il governo aveva deciso di eliminare il Ministero della Cultura, accorpandone le funzioni (e i funzionari) a quello dell'Istruzione. Prevedendone le probabilissime (io direi le ovvie) ricadute negative sul mondo dell'editoria e della cultura in genere, tutti si sono alquanto arrabbiati. La televisione nazionale ha dedicato servizi alla protesta sul primo canale. I giornali ne parlano tuttora (e anch'io, pur essendo un italiano vivente a Lubiana, faccio il mio dovere divulgando la faccenda, che dovrebbe far profondamente vergognare l'attuale governo sloveno). La cosa, insomma, non è restata incastrata nel ''vuoto pneumatico'' dell'omertà massmediatica – che invece in Italia funziona tanto bene quando c'è da annullare un evento ''minoritario'' sgradito al potere. Esempio: tu cittadino, o tu piccolo coordinamento, scrivi alla RAI per dirle che il servizio fa schifo e spieghi con civiltà le tue ragioni? Nessuno ti risponde. E' il ''vuoto pneumatico'', il silenzio del potere che ti isola e ti uccide in quanto cittadino o piccola aggregazione di cittadini.
Ebbene, in Slovenia questo silenzio (nonostante un certo imbarbarimento evidente anche qui) è considerato immorale: se tu scrivi e spieghi civilmente le tue ragioni, esiste un funzionario che ti risponde, alla tv come in qualsiasi altro ente pubblico. E della cultura nessuno oserebbe addirittura dire, come il nostro Tremonti, che ''non si mangia''. E se anche qualche imbecille lo dice, c'è chi gli risponde a tono. E brucia i violoncelli sotto lo Cankarjiev dom.
Dunque, ovunque in Europa, davanti ai liberisti e ai liberomercatisti culturali, ai darwinisti sociali della cultura, agli ottusi nonlettori o lettori danbrowniani: resistere! Resistere! Resistere! Solidarietà alla lotta degli operatori culturali sloveni. E ai politici italiani: tagliassero le proprie scorte di polizia, non il bilancio della cultura, che già è uno dei piú bassi dell'Unione Europea!

La fabula bella, di Carlo Bordoni



La fabula bella
Una lettura sociologica
dei Promessi Sposi
di Carlo Bordoni
Presentazione di Enrico Ghidetti
Edizioni Solfanelli
Saggistica
Collana Micromegas
Pagg. 88
ISBN 978-88-7497-744-4
Prezzo € 8,00


Fu vera gloria?


Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. “ Questo dice in tono perentorio uno dei bravi di don Rodrigo al pavido Don Abbondio.
La frase è arcinota, tanto che non è stato difficile farla riemergere dal labirinto della mia memoria, anche perché, quando fu letta e commentata a scuola dall’insegnante, mi venne il sospetto che, per quanto il Manzoni fosse andato a risciacquare i panni in Arno,
avesse finito per delineare come autentica lingua italiana, e quindi da essere da tutti utilizzata, quel parlare proprio dei toscani che, nel caso specifico, si estrinseca nell’elisione della i davanti alla h del verbo.
In questo senso le comuni riletture de I promessi sposi sono effettuate o con lo scopo di evidenziare l’aspetto linguistico, oppure di privilegiare quello storico, e, meno frequentemente, con accorta equidistanza, entrambi.
Resta il fatto che mai romanzo italiano ebbe una diffusione come questo e che, per quanto non possa essere considerato popolare, chi più chi meno ne ha avuto sentore, se non altro per il fatto della sua obbligatorietà come testo scolastico.
Però, questa vicenda di un amore ostacolato nella sua realizzazione formale, di questo matrimonio tanto desiderato, ma che per qualcuno non si ha da fare, può essere letta anche in chiave sociologica ed è quel che ha fatto Carlo Bordoni con questo libro che, pur nella sua brevità, riesce a svolgere i propositi in modo esauriente e, cosa non da poco, facilmente comprensibile.
Quel che è particolare è rappresentato dall’occasione che ha indotto l’autore a porre mano a questo lavoro, vale a dire la riduzione televisiva del 1990 del regista Salvatore Nocita, frutto quindi di un mezzo, quello televisivo, capace di porgersi con fini didattici, ma che indubbiamente nasconde, per le potenzialità insite nello stesso, i pericoli di un assoggettamento dello spettatore, di un condizionamento della mente che di per sé finisce con il costituire l’oggetto di altre analisi sociologiche.
Di per sé l’opera è stata esaminata prescindendo dalla qualità intrinseca e considerandola alla stregua di un normale romanzo di consumo e astraendo così dal suo rilevante valore, nonché ignorando la corposa documentazione critica che seguì la sua uscita e che continua ancor oggi.
Il risultato di queste scelte, di quest’occhio attento più alle implicazioni sociologiche che al contesto letterario, è sbalorditivo, perché appare un romanzo totalmente nuovo, senza che con questo il giudizio sulla sua valenza venga sminuito, anche se, a ben guardare, risulta, sia pur di poco, ridimensionato.
Quella di Bordoni è una rilettura, insomma, fuori dai canoni e che evidenzia la trascurabile personalità dei due protagonisti principali, Lucia ligia al senso del suo onore femminile, abbastanza scialba, e Renzo, quasi un sempliciotto pronto a inalberarsi di fronte a un ostacolo, ma lesto a rimettere il capo sotto le ali.
Assume invece un rilievo particolare la figura di Gertrude, la monaca di Monza, esistita veramente e non quindi frutto di fantasia, la cui presenza nell’opera manzoniana può sembrare eccessiva in funzione della struttura e della trama della narrazione. Anche in questo caso avevo colto da studente l’anomalia, in un romanzo quasi matematico dall’apparire alla lunga freddo. Che il Manzoni avesse avuto pietà della triste vicenda di questa donna costretta per volere paterno in convento dove si risvegliò poi una passione, normale in altri luoghi, invereconda fra le mura di una casa di Dio? Molto probabilmente non fu così, perché l’autore, nel dare risalto agli aspetti negativi di una donna che in pratica cercò di ribellarsi alla sua condizione, intese invece in tal modo, e in contrapposizione, esaltare la fermezza di propositi di Lucia Mondella, però secondo un concetto di donna vista nei ristretti limiti di una mentalità che la considerava una costola dell’uomo.   
Personalmente riconosco meriti al romanzo che tuttavia presenta luci e ombre, e non sempre le prime sono tali da far dimenticare le seconde, ma d’altra parte l’aria paternalistica di cui il testo è impregnato risente della posizione sociale dell’autore, un conservatore pio, pietoso anche, ma non di certo disposto a cambiare l’ordine gerarchico dell’umanità.
Ecco, il Manzoni cattolico, ligio alla conservazione, emerge  in modo chiaro e non è difficile ipotizzare che l’uso del testo nelle scuole non fosse solo finalizzato allo studio della lingua italiana, ma costituisse un esempio-monito di ciò che le classi meno privilegiate dell’epoca dovessero aspettarsi, in una invariabilità dello status quo a tutto beneficio di chi deteneva il potere.
Bordoni riesce a cogliere nei personaggi le sfumature generalmente ignorate nella didattica e li rende meno astratti e più veritieri, così come anche alcuni opportuni rilievi circa l’inquadramento del periodo storico nell’opera manzoniana riportano il romanzo a una maggiore aderenza a realtà prima un po’ offuscate dalla fantasia.
Insomma, senza che per questo I promessi sposi diventino un’opera da gettare – e credo che non pochi studenti lo desidererebbero – quel che esce da La fabula bella è una più razionale valutazione di un romanzo dalle indubitabili qualità, ma non il capolavoro assoluto, giudizio che in epoca scolastica ci è stato surrettiziamente imposto. 
Il libro di Bordoni è quindi senz’altro da leggere, magari con accanto un’edizione dei Promessi sposi.



Carlo Bordoni è docente di “Editing e scrittura editoriale” all’Università di Pisa. Si occupa di sociologia dei processi culturali e ha insegnato nelle Università di Firenze, Milano e Napoli.
     Per Solfanelli ha pubblicato La paura il mistero l’orrore dal romanzo gotico a Stephen King (1989), La fabula bella. Una lettura sociologica dei Promessi Sposi (1991), l’antologia di racconti Cuori di tenebra (1993), La dismisura immaginata (2009) e Le scarpe di Heidegger (2010). Tra le altre sue pubblicazioni: La pratica editoriale. Testo contesto paratesto (Felici, Pisa 2010), Dal sublime ai nuovi media (Felici, Pisa 2010), L’identità perduta. Moltitudini, consumismo e crisi del lavoro (Liguori, Napoli 2010); Libera multitudo (Franco Angeli, Milano 2008); Introduzione alla sociologia dell’arte (Liguori, Napoli 2008), Società digitali (Liguori, Napoli 2007), Il testo complesso (Clueb, Bologna 2005).
     Nella narrativa ha esordito col romanzo L’ultima frontiera (Ponzoni, Milano 1965) e, negli ultimi anni, si è riproposto con Il nome del padre (Baroni, Retignano 2001), Istanbul Bound (Tabula fati, Chieti 2006) e Il cuoco di Mussolini (Bietti, Brescia 2008).
     Collabora a “Prometeo” e dirige la rivista “IF”, trimestrale dell’Insolito e del Fantastico.


Recensione di Renzo Montagnoli