giovedì 29 marzo 2012

La tempesta non conta i suoi morti, di Cristina Bove




Cristina…omerica.



La tempesta non conta i suoi morti

di Cristina Bove



Videro fuochi di sant Elmo
aprire il nero come fosse un foglio
un mare obliquo
mare
mare
mare!

navigavano vene da contratto
senza diritto di mugugno
ma d’inventarsi un cielo sì
lo fecero grondante di bitume
piovvero inferno e sangue

il Capitano
s’accorsero nell’attimo d’un lampo
leggeva poesie sul cassero fiammante

o marinaio
mio marinaio
parodiava una voce di balena
arpione in gola
non suonare campane
il gelo ha già ghermito le tue braccia
e le ghirlande
barcollano battendo le fiancate

nessuno scenderà da questa nave



E scomodiamo perfino Vivaldi con le sue note:

Il prete giusto, di Nuto Revelli



Il prete giusto

di Nuto Revelli

Edizioni Einaudi

Storia biografia

Collana ET Scrittori

Pagg. 109

ISBN 9788806196981

Prezzo € 9,00







Un prete giusto e perciò scomodo







Era l’estate del 1982 quando don Raimondo Viale, il prete ribelle di Borgo San Dalmazzo, manifestò all’amico Mario Cestella il desiderio d’incontrarmi il più presto possibile. Quale il motivo di tanta urgenza? Aveva appreso che intendevo dedicarmi a una indagine sul clero della campagna povera, e voleva inserirsi nel discorso, ma subito, come se temesse di perdere l’ultima occasione di *consegnarmi* la sua storia di vita.





Don Raimondo Viale (1907 – 1984) è stato un sacerdote piemontese della zona di Cuneo. Partigiano durante la seconda guerra mondiale, è stato insignito dell’onorificenza di Giusto d’Israele per aver soccorso e assistito dopo l’8 settembre 1943 centinaia di ebrei.

Si è sempre battuto contro le ingiustizie, patendo anche un soggiorno al confino, in uno spirito cristiano volto a soccorrere chi più ne avesse bisogno; uomo che non abbassava la testa nemmeno a rischio della vita, sarebbe rimasto poco conosciuto se Nuto Revelli non ne avesse scritto la biografia, frutto di diverse ore di registrazione, durante le quali il vecchio prete ha raccontato la sua storia, dalla nascita fino al dopoguerra.

Antifascista e anticomunista, in nome di quella libertà a cui ha sempre aspirato fermamente, Don Viale è indubbiamente un prete scomodo, uno che non sa tacere, né chinare la testa, e in questo contesto subirà un vero e proprio oltraggio con la “sospensione a divinis”.

Soldato di Cristo e non della Chiesa, scettico nei confronti del clero, tranne che nel caso di pochi sacerdoti, è contro qualsiasi potere che  sovrasti gli uomini, uno spirito ribelle quindi, con caratteristiche di anarchico, un anarchico di altri tempi, pronto a sacrificare se stesso per portare avanti le sue idee e difendere i deboli.

La biografia è scritta in prima persona, insomma è Don Viale che racconta e si avverte chiara la trepidazione, o la commozione, quando ricorda l’infanzia, il seminario, la sua parrocchia, la persecuzione fascista. E’ un uomo anziano che parla, sconfitto e in preda a scoramento, ma nelle sue parole non c’è mai odio, magari un po’ di risentimento, ma questo è temperato dall’amore per tutti, compresi gli avversari e i nemici.

Non c’è discrasia fra il Don Viale prete e il Raimondo Viale uomo, anzi sono fusi mirabilmente in un’immagine di grande pathos. E così, come assiste spiritualmente tredici partigiani condannati alla fucilazione, porta conforto anche a una spia fascista condannata a morte dopo la Liberazione.

Ma quel suo non chinare mai la testa, dire sempre ciò che pensa, criticare anche la Chiesa finirà per fargli patire una condanna ben più grave del confino. Infatti, privato della sua parrocchia, chiuderà la sua esistenza in un ospizio.

A Revelli va dato il merito di  aver portato alla luce un personaggio di così grande spessore, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, un altro Perlasca, un altro Schiendler, gente che in umiltà ha dato prova di nobilitare l’umanità, in epoche in cui era più comodo e salubre tacere.

La biografia non è tuttavia completamente esauriente, poiché Don Viale va a memoria e molte cose si confondono o si dimenticano. Quel che manca, soprattutto, è il periodo di continui richiami, di reiterate diffide, che sfociarono nella “sospensione a divinis”. E’ possibile intuire il motivo, ma non è la stessa cosa che avere degli elementi certi, e non è improbabile che non sia stata una dimenticanza di Revelli, bensì una naturale ritrosia del prete a scavare in una ferita che non si sarebbe più rimarginata.

Il prete giusto è un libro intriso d’amarezza, ma è anche un grido, il grido di un uomo vecchio, malato e stanco che chiede giustizia, la prima volta per sé.

Da leggere, senza dubbio.





Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti (1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005).



Recensione di Renzo Montagnoli



   




MondoBlog del 29 marzo 2012

MondoBlog





I miei consigli odierni:

  







mercoledì 21 marzo 2012

Il segreto di Caterina Carmon, di Renzo Montagnoli

                                                         Foto da web

Il segreto di Caterina Carmon

di Renzo Montagnoli



Aprì le imposte e una folata d’aria fredda s’insinuò rapida nella cella, ma Suor Benedetta non vi fece caso, anzi ne gioì, le sembrò quasi un lenimento per quel calore che le andava su e giù, che come una serpe partiva dal pube e si irradiava, come i tentacoli della Medusa, in ogni parte del suo corpo.
Guardò fuori il cielo stellato, straordinariamente limpido in quella notte di rigido inverno, con la neve che era caduta anche durante il giorno e che aveva ammantato tutti i dintorni, disegnando un paesaggio irreale di straordinaria bellezza.
Si mise a pregare, perché avvertiva la pesantezza delle palpebre, l’imminente sonno che le avrebbe portato forse per l’ultima volta quel sogno.
Accadeva ormai da anni, da quel lontano 10 febbraio del 1867.

Anche allora faceva freddo e c’era la neve, ma lei, novizia, aveva il desiderio di assaporare il piacere di una piccola passeggiata nel giardino del chiostro, di sentire sotto i piedi il crepitio di quel manto bianco che tutto copriva, tranne il roseto.
Si addentrò in quel candore, che il sole faceva luccicare, e si fermò assorta a guardare il lavoro di Domenico, il giardiniere, che potava le rose.
Erano mani forti, di un uomo abile, benché giovane, e con precisione e rapidità le forbici recidevano i rami vecchi per preparare la pianta a una nuova vita.
- Buongiorno, Domenico.
- Buongiorno, Sorella.
Era un bel ragazzo il giardiniere, dai lineamenti forse un po’ forti, ma con due occhi neri che sprizzavano vitalità.
- Sono belle queste rose.
- Sì, sono molto belle, ma adesso le sistemiamo e a primavera saranno stupende.
E nel dire così, inavvertitamente, la mano dell’uomo sfiorò una spina e subito un rivolo di sangue si allargò, scivolò lungo il palmo e arrossò la neve.
Suor Benedetta si precipitò immediatamente e appoggiò le labbra con forza sulla ferita, mescolando la sua saliva a quella linfa vitale.
- Che fa sorella? No, si fermi…
Staccò la bocca, si pulì le labbra con il fazzoletto, che porse subito all’uomo.
- Ecco, si fasci. L’ho fatto per l’infezione, perché la saliva fa bene, evita che possa venire.
Poi corse via, alla sua cella.
Avvertiva ancora nella bocca il sapore dolciastro di quel sangue e si accorse con sgomento che le sue labbra avevano come un tremito, un’ irrefrenabile sensazione di voluttà.
Rimase turbata tutto il giorno, evitando di tornare in giardino, si sforzò invano di non pensare all’accaduto rifugiandosi in una preghiera intensa che ripeteva a voce sempre più alta quasi volesse soffocare quello che la sua mente sentiva dentro.
Poi venne la notte e con essa sperò che il sonno avrebbe cancellato la sensazione di un giorno che, anziché scemare con il trascorrere del tempo, si andava radicando sempre di più.
Alla fine si addormentò, mentre nel buio fissava la bianca parete di fronte, adornata solo di un povero Cristo in croce.
Fu un sonno agitato, un dimenarsi continuo nel letto alla ricerca di una posizione ideale, e in questo lavorio proprio di un dormiveglia ebbe il sogno.
La parete bianca iniziò a muoversi, come una vela gonfiata dal vento, e il crocefisso avanzò verso di lei, lentamente, ma senza indugio e a ogni passo ingrandiva, al punto che quando arrivò in fondo al letto era della grandezza di un uomo.
Benedetta guardava con occhi sgomenti quel povero Gesù che piegava il capo, ora da una parte, ora dall’altra, che si lamentava, con il sangue che colava dalle ferite e che gocciolava sui suoi piedi, tanto che li ritrasse impaurita.
Quello che però era ancor più incredibile era il viso del crocefisso: non più il volto magro, dai lineamenti delicati del Nazareno, ma le mascelle forti, il mento quasi aguzzo del giardiniere.
- Aiutami, Benedetta, ferma questo sangue.
E lei avvicinò le labbra prima alla ferita dei piedi, poi si rivolse a quella nel costato e infine a quelle nelle mani.
Ma il sangue scendeva come un torrente e allora lei sì alzò in piedi, abbracciò stretto l’uomo, aderì con tutta la forza del suo corpo, affinché il cotone dell’abito, premuto sui tagli sbrecciati, arrestasse quello stillicidio di vita.
Fu tutto inutile e si accorse ben presto che l’infelice era ormai entrato in agonia. Urlò allora disperata e quel grido, dentro di sé, la svegliò.
Si guardò intorno: il crocefisso era là sulla parete e questa piattamente la guardava.
Non era stato che un sogno e quasi si rallegrò, ma guardando le sue vesti si accorse di una macchia rossastra che aleggiava proprio sul pube.
Credette di morire, urlò, accorsero le monache e ci volle il suo tempo per calmarla e per spiegarle che a lei, novizia di 14 anni, erano venute le prime mestruazioni.
Del sogno comunque non raccontò nulla, timorosa di svelare un segreto o comunque di aver immaginato qualche cosa di immorale.
Si ripromise di parlarne dopo aver preso i voti, con l’inconscia paura che fosse di ostacolo alla sua vita monastica.
E invece finì con il non rivelarlo mai, nemmeno durante la confessione, perché argomentò a se stessa che un fatto evanescente come un sogno era unicamente suo, il solo contatto con la realtà che esisteva fuori da quelle mura.

Da allora erano passati 40 anni, tanti, nel chiuso di un convento a condurre una vita scelta più per necessità che per vocazione.
Ultima di dieci figli, e per giunta femmina, in famiglia era considerata una bocca inutile e le continue privazioni, soprattutto alimentari, non resero difficile il lavoro di convinzione dei genitori.
- Starai bene, vedrai. Là si mangia tutti i giorni e poi non si fa niente.
Queste furono le parole di suo padre; invece la madre cercò, se pur blandamente, di opporsi.
- Sì, si mangia sempre, ma là dentro non è come fuori; soprattutto tu dovrai dedicarti fino alla morte a Nostro Signore e non avrai mai il dono della carezza di un uomo.
Il padre, che già aveva deciso, si mise a ridere a queste parole e pronunciò una sentenza di cui lei avrebbe avuto perenne memoria:
- Ho deciso così e basta! Ma che vuoi che possa fare con noi, magra, scheletrica com’è. Trovarle marito sarebbe un’impresa, perché non ha nulla da dargli, nemmeno una lira di dote.
E così Caterina entrò in convento e lasciò la vita.

Dopo quella notte il sogno si rinnovò con cadenza mensile e ogni volta in coincidenza con l’inizio del ciclo mestruale.
Non aveva più paura e il risveglio la lasciava sì turbata, ma non gosciata, anche se le riusciva ignobile pensare che al Cristo, il suo vero sposo, ogni volta si sostituisse il giardiniere.
Questi continuava a venire al convento ogni volta che c’erano dei lavoretti da fare e in ogni caso in febbraio per la potatura del roseto.
In quelle occasioni, Suor Benedetta, non più novizia, restava nella sua cella, ma lo guardava da lontano, attraverso l’inferriata della finestra.
Lui non la poteva vedere, ma lei ne seguiva ogni mossa e fu così che si accorse dai suoi movimenti sempre più lenti che il tempo stava passando, che nonostante quelle giornate sempre uguali la vita correva per entrambi.
Ai cinquant’anni Suor Benedetta entrò nella menopausa, ma il sogno non sparì, mantenendo la stessa periodicità; scomparve invece il giardiniere, perché da quell’anno a potare le rose venne un vecchio contadino e quando lei timidamente gli chiese dove fosse l’altro, questi alzò in modo inequivocabile gli occhi al cielo.
Non ne fu sconvolta, ma avvertì la sensazione che qualche cosa di lei se ne era andato per sempre.
Non versò lacrime, perché era ormai abituata alla compagnia della sofferenza, una vita di rinuncia a cui si era piegata suo malgrado. Per tutte le sorelle, comunque, lei era Suor Benedetta, dallo sguardo fermo, ma dolce, sebbene malinconico, e nessuna però immaginava quale angoscia si celasse dietro quegli occhi che sembravano invece indulgere alla beatitudine.
In lei quella vocazione forzata era una spina nel cuore, una rinuncia che ora le pesava in modo più sottile nel rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere se non avesse preso i voti e finiva con il ritenersi indegna dell’abito che portava, nonostante la sua fede religiosa fosse salda e ben radicata.
“Non sono né suora, né donna.”
Queste poche parole ogni tanto risuonavano nella mente e di certo accentuavano lo sconforto.

Non stava bene, da un po’ di tempo: continui malesseri, capogiri, anche qualche svenimento e la medicina ufficiale concluse che il suo stato era assai grave, raccomandando riguardo, perché di cure non ce n’erano.
Era così rapidamente deperita, invecchiando anche precocemente, una sorta di candela che andava lentamente spegnendosi.

Richiuse le imposte e si trascinò al letto, sentendosi mancare.
Respirava a fatica, le gambe e le braccia le tremavano; avvertiva una stanchezza immane e appena coricata le si abbassarono subito le palpebre.
Benché distesa, le sembrò che tutto girasse intorno come una gigantesca giostra che provocava un vortice e lei era giusto al centro.
Si affollavano i volti dei genitori, lo sguardo duro di suo padre quando le aveva imposto di prendere i voti, il volto succube di sua madre, i visi quasi senza lineamenti, tanto ormai non li vedeva da tempo, dei suoi fratelli.
Sembrava una riunione familiare, quasi un giorno, uno di quei miseri giorni, in cui ancor bambina stava nel mondo.
E tutto girava all’intorno, forse quelle bocche si aprivano, ma non uscivano suoni, mentre invece il turbine di vento ingigantiva e le sue orecchie ne erano piene, quasi devastate.
Fu allora che vide l’uomo crocefisso schiodarsi dalle assi e venire a passi leggeri verso di lei.
- Caterina, sono tornato a prenderti. Lascia tutto, vieni via con me.
Era un sussurro il suo, un suono melodioso, una musica che toglieva ogni affanno.
Lei lo guardò, riconobbe ancora una volta i lineamenti marcati del giardiniere e i suoi occhi, dolci e profondi.
Si abbandonò a lui e si sentì improvvisamente leggera mentre la prendeva fra le sue braccia e la portava con sé.

Un violino suonò, lontano, un’Ave Maria solo per lei.

Il vortice cessò di colpo.

Il corpo esanime di Suor Benedetta, al secolo Caterina Carmon, fu ritrovato l’indomani dalle sorelle.
Avrebbero poi scritto, nel diario del convento, che era morta nella grazia di Dio: stringeva al petto il crocefisso della cella e i suoi occhi, prima sempre dolci, ma malinconici, sembravano brillare.

N.B.: questo racconto, tratto da Lungo la strada, di AA.VV, edito da Historica-Il Foglio Letterario (www.ilfoglioletterario.it), viene pubblicato per gentile concessione dell’editore.


La spartizione, di Piero Chiara



La spartizione

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore

Narrativa romanzo

Pagg. XIII – 151

ISBN 9788804567912

Prezzo € 8,40


 

Uno per tutte, tutte per uno


  

“Da dove era venuto con quella faccia severa, con quell’aspetto composto e a prima vista distinto? Da qualche importante città, da una famiglia di rango, da una lunga abitudine alla riservatezza?
Solo dopo qualche mese si seppe che veniva, in seguito a trasferimento d’ufficio, dal capoluogo della provincia; ma che era di Cantévria, un paesucolo della Valcuvia, a pochi chilometri da Luino.”





Emerenziano Paronzini, un impiegato statale di mezza età, ha idee ben chiare in testa: è giunto il momento di accasarsi, di trovare una moglie, non necessariamente bella, ma che rappresenti per lui una sicurezza, un approdo definitivo in attesa dell’ultima stagione.
E’ così che nella sua ricerca, in cui spirito di osservazione e fiuto istintivo procedono appaiati, s’imbatte nelle tre sorelle Tettamanzi, zitelle ormai, timorate di Dio, anzi quasi beghine, senza problemi economici e con una vecchia, ma comoda casa in paese, circondata da un bel giardino. Belle non sono, anzi a voler essere realisti  sono proprio brutte, anche se qualche particolare anatomico non è disprezzabile. E così come la faina si avvicina al pollaio con circospezione, il Paronzini guata le prede, fino a riuscire a introdursi nella loro dimora.
La scelta cade sulla più anziana, Fortunata, ma il corteggiamento di un uomo, del tutto ormai inatteso, sconvolge l’equilibrio familiare, provoca scariche ormonali al punto che tutte e tre le sorelle decidono, autonomamente beninteso, di farlo innamorare. E così, se la scelta formale sarà per Fortunata, portata infatti all’altare, Emerenziano Paronzini si farà in tre, passando da un letto all’altro, accontentando così anche le altre due che, per la prima volta, nella loro ingessata vita da nubili, conosceranno la felicità.
Convinte di condurre il gioco, in effetti questo è comandato dal maschio, un vero e proprio gallo nel pollaio che, secondo turni prestabiliti, giace con l’una o con l’altra, in tutti i giorni della settimana, fatta eccezione per la domenica, vero e proprio giorno di riposo in tutti i sensi.
Secondo romanzo di Piero Chiara, dopo Il piatto piange, La spartizione vanta un’invidiabile freschezza, una leggerezza narrativa che presenta, per la prima volta nella produzione dell’autore luinese, una misurata ironia che fa muovere più al sorriso che alla risata, che stempera qualche scena un po’ troppo erotica, restituendo all’atto sessuale quella sua naturalezza che solo secoli di calunnie hanno relegato fra i peccati.
Fra l’altro, l’abilità dello scrittore è veramente rimarchevole dove descrive i turbamenti di queste mature zitelle, la trasformazione da insensibili cariatidi a femmine voluttuose, prima frastornate dalla novità e poi compiaciute del loro tranquillo menage.

La spartizione è un romanzo sicuramente piacevole e divertente e quindi la lettura è senz’altro consigliata. 




Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).



Recensione di Renzo Montagnoli




MondoBlog del 21 marzo 2012

MondoBlog





I miei consigli di oggi:


 



 



 



 



 



 



 

lunedì 12 marzo 2012

L'erba voglio, di Domenica Luise

L’erba voglio

di

Domenica Luise

 Foto da web 





Era un'erba velenosa dal cuore d'oro. <Non mangiatemi, morireste> diceva sempre ai vermini, ma quelli niente e così poi, anziché diventare farfalle, giacevano tutti intorno a lei come in un cimitero ed essa stillava lacrime dense e amarissime. Infine l'uomo scoprì che una sola di quelle preziose gocce faceva passare la tosse, guariva i bronchi e i polmoni, curava
magnificamente la stitichezza, il mal di denti, i dolori mestruali, stirava le rughe e faceva tornare i capelli bianchi al proprio colore naturale.
Era un ottimo eccitante per i deboli e i pigri mentre agiva da calmante ai malati di nervi, faceva perfino partorire senza dolore in perfetta coscienza come ogni mamma vorrebbe. Messa nei campi li concimava in maniera naturale e somministrata ai nani li faceva crescere.
Così gli uomini non sapevano nemmeno che nome dare a questa panacea, qualcuno suggerì "l'erba del sogno" oppure "l'erba dei desideri", chi ne sentiva l'acuto e strano odore, chissà perché, diventava subito allegro.
Infine uno studioso, in un simposio internazionale, propose di chiamarla "l'erba voglio".

Le ditte farmaceutiche, tuttavia, non ci poterono fare grandi affari perché l'erba voglio nasceva spontanea dappertutto e, data la grande pubblicità dei mass media, ognuno la riconosceva e bastava masticarne una fogliolina di media grandezza per ottenere, in una volta, tutti gli effetti benefici.
Quando poi si scoprì che faceva toccare e mantenere il peso forma anche agli obesi, ogni villino, balcone, finestra e catapecchia ebbe il suo bel cespo di erba voglio.

Gli uomini e le donne, al mattino, appena svegli, la masticavano prima del caffè e non gliene importava nulla del saporaccio
e se le piccole spine, che stavano intorno alle foglie, gli punzecchiavano la lingua. Si poteva pure mangiare bollita, come verdura, ma gli effetti benefici non erano così eclatanti.
Bene presto fallirono tutti i medici, chirurghi, farmacisti, fisioterapisti e dietologi, chiusero finanche le palestre perché, come effetto collaterale, l'erba voglio rassodava i muscoli ed appiattiva la pancia.

Si vedevano giovanotti e signorine che sembravano tutti di vent'anni anche se ne avevano ottanta. Gli ospedali divennero discoteche e nelle farmacie si vendevano fiori di campo coi quali maschi e femmine adornavano i capelli.
Nessuno rubava più e tutti vivevano felici e contenti facendo soltanto quello di cui avevano voglia. Appunto.
Si erano dimenticati di lavorare, non pensavano più alla pensione né alla vecchiaia e nemmeno cucinavano, tanto bastava un'altra fogliolina e si sentivano sazi.
Così l'erba voglio finì perché gli uomini la mangiarono fino all'ultimo stelo e non si trovò neanche un suo seme in tutta la terra. Soltanto una vecchietta, che l'aveva coltivata non per uso commestibile, ma perché le piaceva lo strano fiore carnoso che l'erba voglio faceva ogni tre anni, continuò a possederne
un cespo.

Una mattina si sentì venire meno mentre lavorava in giardino,
"È giunta l'ora" pensò, ma in quel momento si aprì il fiore dell'erba voglio, un po' di polline stuzzicò il naso della vecchietta, che starnutì, disse: <Ma com'è possibile?> e, non più rimbambita, saltò dalla sedia a dondolo balzando nei vialetti del giardino, coi capelli biondi fluenti nel vento, gli occhi che ci vedevano bene, senza rughe e dimagrita di ventidue chili e mezzo.
Fu così che gli uomini ebbero nuovamente l'erba voglio, ma stavolta furono più prudenti e conservarono accuratamente i semi per i tempi di penuria.
Si svilupparono gli studi e le arti, grande incremento ebbero i viaggi spaziali e la colonizzazione di nuovi pianeti che abbiamo tutt'intorno, ma non vedevamo perché circondati di antimateria. Del resto non si moriva più per cause naturali, ma soltanto per incidenti occasionali e la terra, in breve, non avrebbe sopportato più il peso di tanta umanità, quindi occorreva non solo esplorare al meglio l'universo, ma anche costruire nuovi pianeti a distanza raggiungibile dalla terra e furono suddivisi in pianeti popolari
per i poveracci e pianeti residenziali per i privilegiati, che non mancarono nemmeno allora.
La vecchietta, che era una poetessa zoppa in incognito, continuò a coltivare l'erba voglia per diletto, ma si tenne una seconda piantina per uso proprio perché anche a lei piaceva molto sembrare una ragazza, sentirsi in forma e si era riabituata ben presto a ballare quasi tutte le sere nelle discoteche con i coetanei ottantenni.
Ormai l'umanità aveva tutto quello che voleva, e cioè la conclusione delle fiabe: e vissero felici e contenti.
Non lavoravano; non si preoccupavano della pensione; erano giovani, belli, sani e magri, si divertivano coi viaggi spaziali, vivevano come principi e principesse, eppure qualcosa gli mancava, ma non sapevano cosa perché nemmeno l'erba voglio basta a saziare completamente il cuore umano.



Piove di Gabiele Oselini



Piove

di Gabriele Oselini

Prefazione di Fabrizio Azzali

Copertina di Elvira Pagliuca (studio Kaleidon)

Fara Editore


Poesia silloge

Collana Sia cosa che

Pagg. 64

ISBN 978 8897441 014

Prezzo € 11,00







Uomo e natura







Nella sua prefazione a questa silloge, Fabrizio Azzali cita il riferimento ad alcuni dipinti del grande pittore romantico inglese John Constable, con quegli orizzonti che sfumano in cieli solo lievemente corrucciati, una pittura naturalistica che ha i tratti sfumati, tenui e pur così coinvolgenti propri dell’acquarello.

E’ indubbio che quest’opera poetica di Gabriele Oselini approdi, attraverso le parole, a descrizioni paesaggistiche del territorio padano, non fini a se stesse, ma metafore degli stati d’animo, dei sentimenti, delle emozioni dell’autore (al tramonto / con frivola certezza / dallo stagno odoroso / molle di luci ondulate / soffuse fra frasche di salice / e anatre in fila affamate / dietro il ponte verde marcio / vola un rondone.). Pochi versi e si apre uno squarcio nel grigiore quotidiano per un ritorno alla serena complessità della natura, una natura realistica, non idealizzata come un’Arcadia, ma semplicemente portata alla luce perché se ne sappiano cogliere i positivi influssi, immergendosi in essa, parte e mai controparte del caos perfetto dell’universo.

Per chi non si lascia travolgere dalla quotidianità è un ritorno alle origini, un rifugio a cui approdare dopo una continua fuga da se stessi. C’è una certa atmosfera che si può ritrovare anche nelle Bucoliche di Virgilio, ma non stupisce perché l’essere umano, per ritrovare il suo intimo io, deve ritornare nel grembo della grande madre, appunto della natura.

Le sensazioni indotte, però,  non si limitano solo ai tratti di pennello con cui si delinea il paesaggio, perché come in ogni opera pittorica assumono valenze i colori, quasi sempre tenui, un’impalpabile mano di vernice che sembra dissolversi nell’aria se si soffia sulle pagine ( Greve / il giorno della merla / colora d’opale / la neve.). La fine di gennaio, nel pieno dell’inverno, assume così i tratti di un freddo interiore, di una stagione morta da cui è possibile risorgere solo a primavera ( da Rondine – linea nera / veleggi / nell’azzurro / sinuosa…).

E la natura è sempre protagonista, anche laddove fa da sfondo a un emergente ricordo (da Compagno Bruno - …Dorme ora la tua anima / capace di assalti / un tempo verdi / di alberi amati / lungo la strada del Po /…) ( da Ennio – un vecchio salice / monta la guardia / alla barchessa / abbandonata / dietro il bugno…).

C’è una semplicità in queste poesie che è perfino disarmante, ma esse sanno ricreare un ambiente, un’atmosfera palpabile e che coinvolge, magari senza la vena mistica propria della produzione di Tagore, ma quel senso innato di rispetto e amore per la natura c’è tutto, come quell’inconscio ritorno al passato, un’isola lontana che riaffiora dentro fra le brume dense del tempo presente, e che non ci fa dimenticare da dove veniamo, alla ricerca di una rotta sicura e serena nei marosi di un’epoca che procede come un veliero disalberato.

Sono una quarantina di poesie in tutto, fra le quali Piove, che dà il titolo alla silloge e che è paradigmatica di tutta l’ars poetica di Oselini (fra arabeschi / color verde / su nubi diafane / chiaro un raggio / - o forse un’ombra - /…). Natura che richiama i ricordi, memorie che si fondono nel paesaggio, colori tenui, un senso di vita calmo, pacato, appena sfiorato da quell’ombra, quasi sempre nascosta, e che di tanto in tanto ci ricorda che l’eternità non è per noi, piccoli esseri che per poco tempo alimentiamo quell’autentico miracolo che è la vita.

Leggete queste poesie, ritroverete una serenità di cui non serbavate nemmeno il ricordo.





Nato a Viadana in Provincia di Mantova il 19 settembre 1953 ed ivi residente, Gabriele Oselini si è laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Parma. Negli anni ’70 ha conosciuto Daniele Ponchiroli, viadanese, capo redattore della casa editrice Einaudi, dal quale ha avuto stimoli importanti e utili alla propria formazione culturale e umana e col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia. È insegnante di Italiano nella Scuola Media dell’Istituto Comprensivo di Sabbioneta. Sposato con due figlie, impegnato in politica, ha ricoperto per anni l’incarico di Assessore alla Cultura, Pubblica Istruzione e Politiche giovanili del suo Comune. È appassionato di letteratura e di poesia, con particolare attenzione per quella latinoamericana del Novecento. Ha partecipato a diversi concorsi locali e nazionali: è stato segnalato alla III edizione del concorso Pubblica con noi di Fara Editore, con cui ha pubblicato nel 2005 una selezione di poesie all’interno di Antologia Pubblica e, successivamente, le sillogi Specchio (2006), e Finito (2008).







Intervista a Gabriele Oselini, autore della silloge poetica Piove, edita da Fara.







In questa raccolta è sempre presente la natura, una natura vista poeticamente, una proiezione quasi metafisica che fa da cornice a stati d’animo, venati, peraltro soffusamente, da una dolce malinconia. Potrebbe essere definita, ma nel senso più ampio del termine, una poesia bucolica, una deliziosa serie di acquarelli dai colori tenui e sfumati. Quale è il suo rapporto con la natura e, nel caso specifico, si avvale della stessa per portare avanti un suo discorso poetico, oppure rappresenta la fonte d’ispirazione dei suoi versi?



Definire i versi di PIOVE come poesia “bucolica”, è, per me, oltremodo impegnativo, in quanto la grandezza della poetica virgiliana supera ampiamente i confini di una semplice descrizione della natura con una serie di acquarelli dai colori tenui e sfumati: vi è comunque in Virgilio la concezione dello spazio come rifugio metafisico da una realtà terribile fatta di violenze, ingiustizie, orrori quotidiani; l'Arcadia, frutto della sua coltissima fantasia, è stata definita un “non luogo”, dove vivere metaforicamente quella bellezza e quella pace che le soldataglie scatenate delle guerre civili e delle conseguenti successive lotte impedivano di vivere nella realtà.

Amo molto indugiare nella descrizione, con cenni, di aspetti essenziali. Amo cogliere le sfumature, i colori, soprattutto i colori. Amo evidenziare i suoni, i profumi, senza nascondermi i rumori dolorosi della sofferenza. Poesia della natura, ma anche poesia della vita, in cui la memoria ha un ruolo fondamentale. Oltre i ricordi, oltre la nostalgia, la memoria è, direi, recupero del presente. 

Il mio rapporto con la natura è, assai più modestamente che in Virgilio, reale. Non simbolo di pace ma pace essa stessa, la natura nei suoi aspetti anche più semplici ed umili disegna in certi momenti un universo che l'uomo invade e tende a deteriorare, deteriorando se stesso.

La natura è lo spazio che prende il sopravvento sull'esistenza e quindi sul tempo, donando sicurezza ed equilibrio, anche nei momenti più difficili.

Da questo punto di vista mi sento vicino all'impressionismo pascoliano, al suo amore per le cose e gli esseri più umili, al suo seguire lo scandire dell'esistenza al di sopra delle meschinità umane.

Al di sopra ma non al di fuori: i miei versi tendono ad essere attivi, impegnati, a volte con funzione, più o meno nascostamente, civile, e qui si cela l'influenza subita dalla mia passione per la poesia latinoamericana, specialmente peruviana, del primo Novecento.





Ma anche in Virgilio il rifugio in un’isola felice è frutto della memoria, dei tempi in cui, nella dimora paterna, poteva cogliere quell’armonia della natura che così incisivamente si era impressa nel suo animo. Esiste un silenzio nelle ecloghe virgiliane che è quello proprio dell’eterno e che nel far sentire all’uomo la sua caducità, la brevità del suo tempo, infonde uno stupore attonito che lo porta a servirsi del paesaggio per uscire momentaneamente dalla sua infinetisima esistenza. Certo, nella sua poesia, e per sua intendo questa raccolta intitolata “Piove”, la natura, più che protagonista principale, è un catalizzatore di sentimenti, di emozioni, ma anche qui è, in altro modo, strettamente connessa al ricordo, come nel caso di Compagno Bruno.  C’è sicuramente un riferimento all’impressionismo pascoliano, anche se là la vena malinconica è più marcata e rasenta una rassegnata tristezza. Il Pascoli, i cui ricordi solastici tendono un po’ a svilrne la grandezza, a causa dell’insana mania, almeno ai miei tempi, degli insegnanti di far apprendere a memoria le sue liriche, è in effetti un poeta della memoria, una memoria fatta anche di gesti quotidiani, di rimpianto di un tempo più idealizzato che reale. Premetto che è un poeta che ammiro, uno che nei suoi versi ha fermato il tempo ed è anche per quello che ancor oggi è grande. Passiamo però ad altro autore, a lei, e alla sua passione per il colore (dietro al ponte verde marcio, giallo / dentro la mia vecchia maglia / a righe, righe verdi / terra bruna, rosso prugna, sul fiume azzurro, riflessi gialli e viola / di platani grigioverdi); indubbiamente è una policromia, ma al di là del senso estetico, che pure è utile al verso, c’è altro, che penso d’aver intuito, ma che chiedo a lei di spiegare. In parole povere, qual è il significato dei suoi colori?



Vorrei citare due brevi versi del poeta messicano Octavio Paz :

“los caballos color de sol / los burros color de nube”

“i cavalli color sole / gli asini color nuvola”.

La relazione colore-emozioni è il frutto di esperienze del tutto personali e risulta alla fine assolutamente individuale. Non so quali impressioni possano aver avuto gli eventuali lettori dei miei brevi versi, certamente ognuno avrà vissuto dentro di sé in modo diverso l'approccio cromatico con paesaggi, persone, immagini evocate o reali.

Definirei espressionismo, come nel caso della pittura o della musica, segnare sulla carta emozioni che i colori possono esprimere; e questa, penso, sia stata la mia operazione creativa, il più delle volte senza volerlo. 

Secondo il pittore/poeta russo Kandiskij, il colore è un mezzo per dare “impulsi all'anima”; ritiene che ogni colore sia dotato di un proprio patrimonio espressivo e, quindi, attraverso di essi sia possibile rappresentare in modo diverso la spiritualità che si annida in ognuno di noi. Penso che abbia ragione. Certo che il rapporto col colore è relativo al tempo e allo spazio considerati e determina gli stati d'animo e la psicologia degli individui in modo unico e irripetibile.

Per me il colore è determinante per inseguire parole, ricordi, emozioni e fermarli sulla carta: il colore diventa suono, profumo, sapore in una continua sinestesia e contaminazione dei sensi.

Il rosso è forza, vita, battaglia, vino, allegria , il giallo  è fiducia, polenta, rifugio, l'azzurro è silenzio, incanto, nero è amore, passione, occhi, certezza, ma altri numerosi colori sono testimoni di situazioni che sottintendono relazioni umane, sociali e culturali, o semplicemente, il cogliere la visione, interiorizzata, di fenomeni naturali, quasi a consacrare l'immanenza dello spirito con la natura.





Certo il colore influenza gli stati d’animo e un giorno grigio di novembre muove più facilmente alla malinconia. Peraltro tendiamo sempre ad associare una tonalità a un nostro stato emotivo e ci sono tinte generalizzate, cioè di riferimento per tutti, e altre invece che riflettono una condizione del tutto individuale. Resta però il fatto che i colori sono una componente essenziale della nostra vita e risultano determinanti anche come messaggio, sia in pittura che in poesia.

Poiché ognuno, pur cogliendo la natura soggettivamente, finisce sempre con il partire da una base reale, soprattutto in un’epoca come la nostra che impone una visione massificata di ciò che ci circonda, una sorta di Arcadia al contrario, ho rilevato che nelle sue poesie lo sfondo è quello tipicamente padano (il salice, la barchessa, il bugno, gli aironi, le anatre, il fiume Po).

Questa natura non è presentata con distacco, il che sarebbe tipico di un osservatore del tutto materialista, ma come partecipe della nostra esistenza, in quanto noi parte della stessa.

Il rapporto con il mondo che ci circonda è volto alla sua comprensione, un sistema indispensabile per conoscere noi stessi.

Quanto ha influito questo modo di vedere, da partecipe, la natura sul suo percorso di cognizione interiore?



La natura esprime percezioni sensoriali e, nello stesso tempo, stati d'animo. Gli aspetti più significativi per me, nel momento in cui sono colti, hanno una dimensione reale e valgono per quello che sono, non per quello che rappresentano o rappresenterebbero. Certamente materia e cultura, natura e sentimenti, spazio e tempo si intersecano e si condizionano, per cui il mio universo padano, ad esempio, descrive quello che sono e che penso e che sento. Altri casi letterari particolarmente significativi, di grande valenza letteraria, hanno avuto una evoluzione creativa assai simile: penso alla produzione poetica   di Umberto Bellintani o a quella, più limitata, di Cesare Zavattini.

Ho scoperto che la profondità dell'essere si innerva della percezione fisica di ciò che ci circonda. Nel mio caso la Valle del Po è parte prevalente della mia esistenza, ma anche altri paesaggi ( Mediterraneo, Atlantico ) constato che hanno influito.

C'è qualcosa di antico, o meglio,  di primitivo, nell'approccio con la natura che ti rivela consonanze con l'universo e che, grazie alla poesia, ti fa rivivere l'esistenza, dalla nascita fino alla percezione della morte.

Immersi nel paesaggio, fra colori, sfumature, assalti di immagini, ti senti al sicuro, è qualcosa di tuo che hai ritrovato, è un ritorno a casa, che appaga e da sicurezza, anche nei momenti di sconforto. Nel mio caso, certamente ogni angolo della “bassa” influisce , così come gli oggetti o gli animali, alla pari dei ricordi o delle relazioni umane. Non ritrovare spazi cari alla memoria, come un albero  o un fossato  o una vecchia casa, provoca un senso di smarrimento, così come scoprirne ancora una volta di apparentemente eterni ti rassicura. A volte sei colpito da particolari che sembrano insignificanti che comunque ti danno la sensazione di essere ad un tempo soggetto ed oggetto di un'esistenza che è tutta in te e fuori di te: percepisci di essere parte di un tutto.





Se l’uomo si rendesse conto che la natura è la sua naturale abitazione, con ogni probabilità la rispetterebbe maggiormente. E giusta è la puntualizzazione dello smarrimento che si prova a non ritrovare un vecchio albero, o un fossato, o una vecchia casa, tutti elementi che concorrono a quel grande patrimonio individuale che è la memoria. Al riguardo, in questa raccolta entra uno dei grandi temi della poesia, il ricordo, a volte velatamente, altre più in evidenza, come per esempio in Compagno Bruno. Che cosa rappresenta per lei in effetti  la memoria?   Quale significato darle nell’ambito  di quell’ampia esperienza che è la vita?



Per me il ricordo è parte fondamentale dell'esistenza, e quindi della poesia, in senso forse proustiano, o forse semplicemente, come presenza perenne di sensazioni che sopravvivono alla loro occasionalità.

Proust distingue memoria volontaria da memoria involontaria, riservando alla prima una funzione razionale di reminiscenza di persone,  episodi, cose, che rimane  limitata e senza grande respiro; la memoria involontaria invece è quella istintiva delle sensazioni, che fa rivivere il passato, trattenendolo, proprio perché vissuto continuamente, quasi abolendo la nozione di tempo. Forse è proprio questo recupero casuale di ciò che è accaduto che fa rivivere un passato altrimenti perduto per sempre.

La memoria avvicina un vissuto fatto di sensazioni a momenti presenti, in cui sopravvivono le stesse sensazioni. Il recupero del passato è carico di felicità o di malinconia ma l'angoscia che ne può nascere viene rimossa proprio esternandolo.

Per questo c'è bisogno di rivivere il passato: è un'esigenza di infinito, che è presente e fortemente condizionante.

La frequente meschinità della vita quotidiana trova la via d'uscita in questo continuo gioco di rivivere le sensazioni più forti attraverso percorsi apparentemente banali o insignificanti.

La semplicità della consolazione in cui prevale il senso della pietas, è per me sempre presente, specialmente in casi di morte di personaggi amati o conosciuti. Una pietas che la memoria lascia in eredità a chi è vivente.

Il recupero continuo delle sensazioni riporta allo scoperto dalla profondità dell'oblio, momenti e, soprattutto, persone che rendono vivo il passato.

La sensazione di paura, sempre uguale nel vivere il presente, di attraversare una strada sterrata ove, in fondo, offuscata dalla nebbia del mattino, si intravvedeva una sagoma informe che evocava streghe, orchi, fantasmi dell'infanzia,  veniva   annullata dall'abbraccio rassicurante di mia madre che, ancora odorosa di erbe e prezzemolo della cucina, mi stringeva forte al petto, e quel ricordo rimuove, incredibilmente, l'insicurezza di oggi, superando il tempo. Questa la definirei memoria involontaria.

In Alsazia, ho incontrato un vecchio contadino che mostrava con i suoi strumenti di vetro e fornelli e altro, come si fa la grappa, e  udendo di lontano il mio accento nord-italiano ha subito avuto la sensazione di trovarsi di fronte a un suo compaesano. In dialetto, non conosceva quasi più la lingua italiana, mi ha confidato che era originario di Parma, stabilitosi a Colmar da bambino con i genitori, e mai più tornato nella sua città natale. Avrebbe voluto tornare in Piazza Duomo  nel becco di una cicogna, una di quelle numerose cicogne che nidificano in quella terra sui tetti delle case ad angolo acuto, e ho dovuto fermare quel momento sulla carta, come memoria, che definirei volontaria.

Il nostro pensiero è alla continua ricerca di ciò che non muore, come l'istinto delle specie viventi tende alla continuità perenne, e vincere il tempo è comunque foriero di felicità.       



 

Concordo. Del resto la memoria, cioè il ricordo di ciò che è stato è l’unica misura valida per avere la certezza di aver vissuto; il dramma è che la generazione attuale sembra avere ricordi del tutto disallineati da quelli dei genitori, come se fosse intervenuta una cesura netta a separare marcatamente un’epoca dall’altra e come se la precedente non fosse mai esistita. Se non sappiamo da dove veniamo, abbiamo un’incapacità non solo di vivere il presente, ma di fare anche qualche timido progetto per il futuro.

Restano degli individui che trascinano la giornata in preda a questa o quella chimera, facilmente influenzabili da chi detiene le leve del potere.

Al riguardo, qual’è la sua opinione?



Le nuove generazioni, sin da adolescenti, si chiedono subito cosa esigere dalla vita e cosa fare per raggiungere la loro meta, o perlomeno, una meta, che molte volte è un sogno, o solamente un desiderio di avere un sogno.

I giovani sono sempre liberi nell'anima, soprattutto dai genitori e, in genere, dagli adulti, i quali non possono seguirli, anche volendo, rincorrendo il futuro.

La vita evolve, diviene continuamente e non può attardarsi sul passato. Certamente la memoria del passato è vitale per evitare disastri e fallimenti, per non commettere gli stessi errori, ammesso che si abbia lo stesso concetto di errore.

Il poeta Gibran Kahil Gibran, poeta arabo libanese, vissuto negli USA e punto di riferimento della cultura “ribelle” del “68, rivolgendosi ai genitori  in una sua poesia afferma: “Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive,/ sono scoccati lontano”. Sia i genitori che i figli hanno un ruolo complementare nella vita, diverso ma intrinsecamente legato, per cui da una parte i genitori debbono amare i loro figli ma non costringerli alla loro volontà, al loro pensiero.

Ciò non toglie che si debba scrupolosamente agire come seminatori di valori; poi, una volta fatta la semina, la pianta non potrà che crescere da sola, e sarà più sana e robusta, più avrà modo di proiettare i propri rami verso spazi aperti, inesplorati.

Il problema è se le generazioni più anziane hanno realmente seminato valori, o se si sono attardate nel proprio particolare, coprendo, almeno nella nostra civiltà occidentale, i figli di benessere, di oggetti, a scapito di autentiche relazioni.

Una generosità degli oggetti e non degli affetti. Così ogni vero scambio di idee e di esperienze tende a finire in un vuoto rituale di baratto e si perde l'occasione di comprendersi.

Ovviamente si deve pretendere corrispondenza dai giovani, ma l'artefice vero della trasmissione di valori e dell'insegnamento non può che essere l'adulto, dando, dando e ancora dando, senza stancarsi e senza pretendere di ricevere, perché non c'è nulla da ricevere se non la gioia di vedere la luce di un nuovo mondo, ancora migliore.

Chi detiene le leve del potere per interessi propri o di una parte rispetto al tutto, alimenta chimere e disvalori per poter meglio raggiungere i propri scopi, ma la democrazia implica un potere che incrementa la libertà nell'ambito di confini  valoriali ben identificabili, che io ritengo riassumibili in due concetti fondamentali del pensiero moderno: giustizia e libertà.

Ognuno, a suo modo, dovrebbe seminare il proprio campo, e i frutti non potranno non nascere copiosi. I giovani sono lo strumento di crescita di questi frutti e sono frutti essi stessi; dipende dalla semina.





Certamente l’educazione è basilare e se i genitori, che sono preposti a quella dei figli, non la mettono in atto, non ci si deve meravigliare se ci troviamo in un mondo simile, travolto da una crisi più etica che economica. Nelle generazioni dovrebbe essere presente un filo conduttore, che unisce l’una all’altra; ora, purtroppo, questo filo si è spezzato.

Ma veniamo alle domande e fra queste una classica, se rivolta a un poeta: secondo lei, che cos’è la poesia?



Non saprei dare una definizione di poesia, se non quella che si legge sulle antologie scolastiche o sui manuali, ma so che per me è come un ritorno a casa, mi rassicura e mi rende felice, proprio come entrare dalla porta che chiude dietro di sé ansie e contrasti.  La poesia è uno scrigno che si apre e permette di conoscere e apprezzare i valori in esso contenuto.

La poesia unisce solitudine e socialità, descrizione e creazione, coglie i particolari e gli insiemi.

La poesia vince il silenzio, l'oblio, il tempo.

La poesia  è un'espressione dell'animo che comunica all'esterno ciò che siamo veramente dentro, e nello stesso tempo, permette a ciò che è all'esterno di comunicare la sua realtà.

A volte mi chiedo se ciò che scrivo, o che ho scritto, anche poche righe o poche parole, sia veramente vissuto o solo pensato, ma non ha importanza, perché il confine della realtà sfuma fino a scomparire, nel senso che tutto è reale in quanto suscita sensazioni che vincono il tempo e lo spazio.

Le persone o le cose che ho incontrato a sedici anni, o a venti o a cinquanta, dentro il mio cortile della mia casa o oltre oceano, mi hanno indotto a prendere nota di quanto mi comunicavano, permettendomi di cogliere qualche sprazzo di quell'immensa sinfonia di vita in cui siamo, spesso inconsapevolmente, immersi.

Ecco, se vogliamo dare un senso alla poesia è quello di saper cogliere l'attimo fuggente, che altrimenti si perderebbe come una meteora nello spazio infinito.

La poesia è anche ricerca, rifinitura, perfezionismo della forma, è ritmo, immagine, ma questi non produrrebbero nulla, se non ci fosse la volontà di comunicare la tenerezza dei sogni o la durezza del pianto, la gioia dell'affetto, la ferita dell'odio, lo stupore della bellezza, la verità degli uomini e il loro approccio con la vita in ogni sua espressione, compresa la morte, la loro lotta e la loro speranza.

Il valore della poesia è nella parola del poeta ma anche nel lettore che trova in essa uno strumento di comprensione e di miglior uso dell'esistenza.

La poesia serve ad ogni individuo che vuole vincere la sua subalternità.

Parafrasando Neruda mi sento di affermare che “ così la poesia non avrà cantato invano”.





Posso essere d’accordo, in quanto una definizione univoca di “poesia” non esiste, ma varia secondo il sentimento di ognuno e può cambiare nel tempo anche per lo stesso individuo. Ma passiamo all’ultima domanda ed è attinente la poesia che dà il titolo all’intera raccolta. “Piove”, si chiama, e mi sembra paradigmatica riassumendo in sé i temi caratteristici delle altre. Come acquarello i toni sono ancora più soffusi e nell’insieme l’ombra dell’inciso sfoca in una nota malinconica, quasi una remora, un dubbio, un oscuro presagio. E nel gioco dei colori questo tratto scuro mi ricorda che la vita è bella, ma non infinita.

E’ una bella poesia che, a mio parere, necessiterebbe di un’interpretazione autentica dell’autore. Che significato vi è ricompreso, cos’è quell’ombra?



La delicatezza dello sguardo di mia madre, la sua pensosa innocenza, la musicalità generosa di mio padre, il suo canto,  rivivono in me ogni istante: la loro poesia di vita pervade ogni attimo della mia esistenza e si sublima in tutto ciò che amo, dalla mia famiglia, alle mie amicizie, alle mie conoscenze. 

L'ombra di PIOVE è la nostra precarietà, nella bellezza dell'immenso universo, che ci sfiora e ci rende consapevoli: la via d'uscita ? Il superamento della solitudine: la solidarietà, senza illusioni trascendenti, ma con ragionevole serenità; il godere nel sentirsi soggetti fra gli oggetti, in una pulsazione di vita che tutto pervade.

Leopardi. Ecco Leopardi è entrato in me, sin dalle prime letture, disperate, della giovinezza. Poi è subentrato il segreto della “Ginestra”, che, lavorando come una corrente di un fiume sul suo letto, ha aperto in me orizzonti inesplorati, fino ad incontrare la poesia ispano americana, che mi ha colorato l'anima.

Indugiare nello sconforto della fine, che non è fine, mi libera dall'angoscia; assaporare fino in fondo il gusto della vita, nel senso del dare e del ricevere, mi rende felice; amare ciò che è amabile e ciò che difficilmente può sembrarlo, mi appaga e mi profuma ogni attimo dell'esistenza, nonostante tutto.





È un peccato che questa piacevole conversazione sia giunta al termine, ma spero che ci siano altre occasioni per riprendere il discorso. E nel mio saluto di commiato ricomprendo anche il sincero augurio che questa Piove trovi il consenso dei lettori, almeno di quelli che pensano che un mondo senza poesia non possa essere a misura d’uomo, ma solo una landa deserta e senza speranza.





Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli