martedì 25 settembre 2012

Il ladro di sogni, di Renzo Montagnoli


                                                                      Foto da web

Non siamo mai del tutto negativi.

 

 

Il ladro di sogni

di Renzo Montagnoli

 

 

Per chi non lo sapesse ancora, non c'è un'unica terra, ma ce ne sono due, così come ognuno di noi non è unico, ma ne esiste, spesso sconosciuto, un altro, di cui ignoriamo o preferiamo ignorare l'esistenza. Questa è la storia di uno dei tanti, o meglio di due in uno dei tanti.

Il luogo e il tempo non contano, perché ciò che importa è il personaggio, nel nostro caso il ragionier Tal dei Tali. Statura media, età media, occhi grigio medi, capelli di media lunghezza, insomma un perfetto sconosciuto come ci capita di vederne ogni giorno, senza che ci lasci traccia.

Un volto normale, anonimo, un portamento elegante in linea con il lavoro svolto e con l'ambiente sociale a cui appartiene: potrei essere io, potreste essere voi.

Il ragioniere sta andando al lavoro come ogni giorno, sempre alla stessa ora, identico il percorso, il traffico caotico, il ritardo. Una vita normalissima, sposato, due figli, una bella casa, un buon posto, uno stipendio più che dignitoso, insomma un tipico rappresentante del ceto medio. L'autoradio gracchia sempre le stesse cose: la politica, ormai insulsa, la cronaca nera, lo sport ed il nostro ragioniere ormai ne percepisce solo il suono.

Ecco siamo arrivati al crocevia dei lavavetri, ignobili sozzoni che fingono di pulirti il parabrezza per avere in cambio qualche spicciolo; c'è da far battaglia perché non appoggino la spazzola sul vetro, magari rigandolo, di quell'auto nuova di cui val la pena di pavoneggiarsi.

Non c'è il solito lercione, un ragazzotto che, anziché pulire i parabrezza, dovrebbe darsi una bella spugnata, consumando almeno un bel pezzo di sapone. Strano, perché era immancabile con la sua petulanza e la sua insolenza.

C'è invece, al suo posto, una ragazzina smunta, con i capelli untuosi raccolti a trecce: evidentemente anche in quest'attività c'è il turn-over.

Neppure l'avesse scommesso, nel momento di impegnare l'incrocio il semaforo passa al rosso.

Piede sul freno, l'auto che slitta sull'asfalto bagnato, si gira e colpisce con violenza la lavavetri.

- Porca miseria, ci mancava anche questa. Cosa aspettano a toglierli di mezzo!

Accorre gente, i vigili, tutti si affannano in una gara di falsa pietà per soccorrere la vittima ed il nostro ragioniere? Niente; resta seduto al suo posto e pensa - Un altro ritardo in ufficio, l'appuntamento con il cliente X mancato, le scocciature dei verbali, ma che ritornino al loro paese questa feccia dell'umanità!

I vigili lo invitano a scendere e, quasi scocciato, acconsente, ed è allora che la vede veramente, scorge quegli occhi neri che fissano il vuoto, nota la bocca aprirsi e appena ode queste sbiascicate parole - Non è colpa sua; non avrei dovuto star sull'incrocio.

Il ragioniere non sente più nulla, la ragazzina è svenuta e viene caricata sull'autoambulanza, sale anche lui, lascia tutto in mezzo all'incrocio, perché è accaduto qualche cosa di incredibile, una metamorfosi. E mentre a sirene spiegate il mezzo si allontana può scorgere evanescente, accanto all'auto, confusa fra la folla, la figura del ragionier Tal dei Tali.

Possibile una cosa del genere? Si tocca le mani, si stropiccia gli occhi, guarda nel vetro opaco del finestrino riflesso il suo volto: tale e quale il ragionier Tal dei Tali, nessuna differenza.

Le resta accanto, sempre, anche quando si addormenta sotto l'effetto dei sedativi; le bagna la fronte, le accarezza il viso e quando scendono le ombre della notte non si stacca ancora dal letto ed ascolta la ragazzina che, nel dormiveglia, parla, racconta i suoi sogni.

Terre lontane, miseria inclemente, la mamma, il babbo, i fratellini lasciati laggiù, la speranza di portare loro un minimo di aiuto, le guerre fra poveri e altri poveri, il desiderio di un ritorno alla propria casa, ai propri usi, alla propria vita, il sogno disperato di un essere disperato.

Il ragioniere ascolta, gli occhi fissi ed umidi, un senso di disagio per il contrasto fra quel mondo e il suo. E' tanto assorto che non si accorge che la ragazzina, dieci, forse dodici anni, si è risvegliata e lo osserva.

- Scusami.

Si scuote dal suo torpore - Come?

- Scusami.

La stringe a sé, l'abbraccia, la bacia, mentre le lacrime gli rigano le guance.

Ventiquattro ore dopo viene dimessa e il ragioniere ritorna a casa. E' cambiato, se ne sono accorti tutti in famiglia; non se la prende più con il governo, è diventato straordinariamente calmo ed è sempre assorto, come se la sua mente fosse altrove.

Ogni mattina la cerca all'incrocio, ma non la trova; anche la sera al ritorno si guarda intorno invano: niente.

Sono passati ormai diversi giorni dall'incidente e di lei si sono perse le tracce.

La mente del ragioniere però è sempre là, in quel villaggio donde è venuta, in quel sogno del letto d'ospedale. E' cambiato molto in ufficio: è diventato più comprensivo, ha perso la sua consueta irritabilità.

Dicono di lui - Vive come in sogno. – oppure – E' cambiato, dopo l'incidente.

Hanno ragione gli uni e gli altri, perché lui ha riscoperto la parte migliore di se stesso, quella linfa vitale inaridita dalle convenzioni.

E' bastato un niente: un incidente ed il furto di un sogno per diventare umano.

 

Il caso Saint-Fiacre, di Georges Simenon




Il caso Saint-Fiacre

di Georges Simenon

Traduzione di Giorgio Pinotti

In copertina Clarence John Laughlin,

Lo specchio del tempo che fu (1946)

Adelphi Edizioni

Narrativa romanzo

Collana Gli Adelphi

Pagg. 148

ISBN 9788845912399

Prezzo € 10,00

 

 

 

 

 

Un’indagine sul filo dei ricordi

 

 

 

 

Georges Simenon, scrittore belga di lingua francese, è stato autore di una produzione copiosissima, con centinaia di romanzi e di racconti, di diversi generi, ma con una spiccata preferenza per il giallo e in quest’ambito a lui si deve la creazione di uno dei personaggi più amati in letteratura, cioè il commissario Jules Maigret. Sono numerose le trame (ben 75 romanzi e 28 racconti) che vedono protagonista il riflessivo poliziotto parigino, un investigatore a cui piace immergersi nell’atmosfera propria dei luogo in cui è stato commesso il crimine, seguendo il suo istinto, il suo fiuto di segugio, che non viene meno anche in presenza del fumo della sua immancabile pipa.

I gialli che lo vedono protagonista differiscono da quelli in auge fino agli anni ’20 del secolo scorso, caratterizzati da perfette geometrie proprie di delitti perfetti, o quasi, da investigatori che sembrano dei superuomini, con ambientazioni di prestigio, o comunque altolocate.

Maigret è tutto fuorché perfetto, è riflessivo, ma è l’istinto che lo guida, così come l’ambiente è quello più assai diffuso, cioè quello popolare e anche piccolo borghese.

Più che la vicenda, i ragionamenti per arrivare a individuare il colpevole, per Simenon ciò che conta é l’individuo in quanto tale, anche con i suoi sentimenti, con i suoi motivi per i quali è giunto al crimine.

Alla fine del racconto in cui ci sé deliziati della caratterizzazione dei personaggi e dell’atmosfera, sempre particolarmente curata, è inevitabile poi che Maigret arrivi a scoprire il colpevole.

Non è così, però, in Il caso Saint-Fiacre, con il nostro investigatore che, a seguito di un messaggio anonimo che annuncia una prossima morte, si reca in tutta fretta da Parigi a Saint Fiacre, paesino di campagna che prende il nome dal nobile del posto, di antica casata.

Per Maigret è un ritorno alle origini, perché lì ha trascorso la giovinezza, perché lì è sepolto suo padre, che era proprio l’intendente del conte di Saint-Fiacre.

E’ autunno, è freddo, la campagna è spettrale e proprio alla prima messa, come indicato nel messaggio anonimo, la contessa viene a mancare all’improvviso. Delitto o morte per cause naturali? O una via di mezzo fra l’una e l’altra possibilità?

Nella gretta atmosfera di un piccolo borgo agricolo, Maigret si lascia condurre quasi da spettatore degli eventi; annota, però, indaga in silenzio, ma la verità, che lui aveva già intuito, sortirà al termine di una cena grottesca al castello dei Saint-Fiacre, l’ultimo baluardo di una famiglia in estinzione, di una nobiltà ormai decaduta.

Lo stile è scarno, diretto, ma si respira a pieni polmoni l’aria di sospetto che si aggira in quel luogo, dove più d’uno poteva aver motivi per commettere il crimine, ma fra i quali uno solo è il colpevole, smascherato per di più da uno dei sospetti.

Da questo straordinario romanzo è stato tratto nel 1958 un film altrettanto famoso, Maigret e il caso Saint-Fiacre, diretto da Jean Delannoy e interpretato, nella parte di Maigret, da un grande Jean Gabin. 

Il romanzo è assai piacevole e quindi la lettura è senza dubbio consigliata.        

 

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».

Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 25 settembre 2012


MondoBlog

 

I miei consigli per la giornata odierna:

 


 


 


 


 


 


 

mercoledì 19 settembre 2012

Un fauno e una ninfa in bicicletta, di Enzo Maria Lombardo

                                                                      Foto da web


Lieve come le ali di una farfalla questo ritratto di due “diversi”.

 

Un fauno e una ninfa in bicicletta

di

Enzo Maria Lombardo

 

 

Uscendo dalla fabbrica, dopo i saluti, ben pochi usavano la scorciatoia del lungofiume per tornare a casa. Ma a Costanza, se era una notte chiara, di luna, quella strada solitaria piaceva e la percorreva spesso.

- Non hai paura? - le dicevano le sue colleghe di linea.

- Paura di che? Dei grilli? – rispondeva ridendo – Tranquille che non mi mangia il lupo cattivo! Un quarto d’ora e sono a casa. E senza respirare la puzza dei camion.

E poi, diceva a se stessa montando sulla sua bicicletta, chi la vuole una strega? Perché sono brutta, brutta, e voi lo sapete bene che sono così! E, uscendo prima delle altre, immaginava le battute, magari rivestite di una scorza di pietà, che facevano su di lei quelle donne nella toilette quando si guardavano quei visi da madonna, aggiustandosi il trucco prima d’uscire.

Lei non si truccava, volutamente, per non guardarsi troppo il viso, ma qualche volta lo specchio dell’armadio, a casa sua, anche se era ormai vecchio e annerito dall’umido, le faceva vedere quel naso affilato, dritto, le labbra inesistenti, il mento a punta e gli occhi infossati tra gli spuntoni degli ossi della faccia. E le mostrava il suo corpo da maschio, legnoso, in cui si indovinavano, appena accennate, le escrescenze dei seni e una certa rotondità – quasi innaturale – di fianchi e cosce.

Nelle sere di luna Costanza pedalava volentieri immersa in quel chiarore freddo, quasi irreale. A tratti distoglieva lo sguardo dalla strada e seguiva, con la coda dell’occhio, la sua ombra e quella della bici. Quelle ombre, solo a tratti annullate dalla luce tremolante del faretto, l’accompagnavano assumendo i contorni più strani: strisciavano a terra, si allungavano, si contorcevano ad ogni asperità del terreno, ad ogni buca. A tratti s’arrampicavano sul muretto lungo l’argine del fiume, si spezzavano e scomparivano tra i rovi.

Spesso, lungo le discese dei dossi, correndo più forte, la gonna svolazzante le si riempiva dell’aria della sera, diventava un pallone che le cingeva di frescura le gambe e il ventre. A volte quella gonna le si arrotolava fin sul petto e lei la lasciava così, felice di sentirsi immersa nella falsa oscurità, sola e nuda dalla cintola in giù, accarezzata dall’impalpabile mano del vento della corsa, in una complicità totale con la sua bicicletta e la campagna.

La corsa solitaria, le ombre e quella strana complicità con il vento facevano parte di un gioco da fiera alimentato dalla sua fantasia, un ottovolante fra i dossi o un labirinto di specchi, un gioco segreto e forse anche pericoloso, ma comunque una parentesi che le era dovuta, dopo i rimbombi della fabbrica e prima dei lamenti ossessivi della madre.

Povera mamma - diceva quando le piccole luci del paese già s’intravedevano in lontananza - povera mamma mia, hai finito di accorciare calzoni, attaccare colletti e polsini, per stasera? Hai finito di piangere per quell’uomo che ti ha lasciata sola e senza soldi? E questa tua figlia dalla faccia di pagnotta non lievitata? Hai finito di piangere anche per lei? Così ripeteva al vento schiacciando i piedi con rabbia sui pedali mentre la bici aumentava la velocità, sobbalzava, e le luci del paese, all’orizzonte, si facevano sempre più nette.

Incontro le venivano le prime cascine, vecchie e abbandonate da tempo, con i muri scrostati e corrosi e in parte nascosti da rampicanti pietosi; ruderi in cui, negli squarci dell’intonaco, si intravedevano i mattoni marci e le travi annerite.

Allora una nuova angoscia, l’angoscia di arrivare e mostrare, nell’intimità della casa, i suoi pensieri scoperti e anneriti come quelle travi, le attanagliava il petto e lei rallentava volutamente la corsa, quasi a voler dilatare il tempo che ancora le restava prima che la sua giostra fatta di ombra e di vento si fermasse e le solite ore la ghermissero di nuovo.

Rallentava tanto che la bici, priva d’abbrivio, tendeva a scivolare da un lato, ingovernabile. Solo allora si decideva a riprendere a pedalare. E pedalava piano.

A volte si fermava. Poggiava un piede a terra, l’altro su un pedale, e restava così, a guardare i contorni neri dei cespugli e degli alberi, quei tronchi esili che sembravano curvarsi al peso dei rami palpitanti di foglie vive, appena smosse dall’aria tiepida. Poi, nel silenzio quasi totale, non più rotto dal rotolio delle ruote e della catena, tratteneva il respiro per poter udire, oltre il canneto, il leggero sciabordio dell’acqua dell’invisibile fiume e i piccoli rumori tra l’erba. Appena ferma, anche i grilli tacevano: avrebbero ricominciato a frinire nel ritrovato silenzio. E, quando ricominciavano, lei batteva e ribatteva le mani e gridava: “zitti, zitti!”, sentendosi invasa da una sorta di potere nuovo, un potere crudele, totale. Il gioco era suo e così pure il silenzio; sua la campagna e suo il fiume: cosa avevano da cantare quei grilli? Restava così, ansante, qualche minuto; restava in attesa finché anche il suo piccolo, dispettoso potere si affievoliva, cessava; i grilli ricominciavano il loro canto meccanico e lei, stizzita, sollevava il piede da terra, pigiava sui pedali e si avviava verso casa.

Anche quella sera Costanza si fermò. Scelse un posto in piano, subito dopo i leggeri dossi e i canneti che chiudono la vista del fiume. Qui, a destra, le siepi basse lasciano intravedere l’acqua sonnolente, nera con striature d’argento, leggermente increspata vicino agli argini, liscia come asfalto bagnato al centro. Anche la strada, quella sera, era umida e nera, con riflessi d’argento, quasi un nastro translucido sospeso nelle tenebre che, in quella luce strana e senza colori, appariva lunghissimo, perdendosi in lontananza.

I grilli tacevano. Fu in quella pausa di silenzio che una voce gutturale e nota scandì il suo nome mentre dalla siepe uscì, rassettandosi i calzoni, una figura bassa e dalla testa enorme, quasi calva.

Costanza non aveva avuto paura, o se l’aveva avuta era stata solo per un attimo, giusto il tempo di inquadrare, in quell’apparizione, il figlio sordo e un po’ mongoloide del panettiere del suo villaggio.

- Ecco Luigino - fece lei a voce alta - Ecco il mio Principe Azzurro! Mi aspettavi o hai fatto i bisognini dietro la siepe?

Luigino non rispose: sordo dalla nascita, quel ragazzo riusciva a stento a leggere le labbra. E qui c’era buio.

Disse solo: - Portami Costanza. Portami al paese, sono stanco.

Lei si sporse sul manubrio avvicinando le sue labbra agli occhi del ragazzo e scandì:

- E come ti porto? E’ una bici da donna, questa. La vedi? Non c’è la canna dritta.

Luigino si mosse a disagio e indicò la sella della bici.

- In due sulla sella, eh? Mi vuoi morta, Luigino? O vuoi che pedali in piedi? Anch’io sono stanca, sai?

- Sella, sì sella. – Fece Luigino.

- Sei proprio una lagna, Luigino. Perché ti allontani tanto dal paese?

- Sul sellino - Ripeté il ragazzo.

- Ho capito, vuoi montare sul sellino. Devo portare il mio Principe Azzurro sul sellino. Monta, dai.

E Luigino montò, agile e leggero, lasciando uno spazio minuscolo sulla sella, in punta, dove Costanza tentò di appoggiare le natiche.

Le prime pedalate diventarono pesanti e Costanza doveva alzarsi sui pedali per superare i dossi. Poi si avvide che Luigino era arretrato, le faceva spazio come poteva. Ora che poteva poggiarsi un poco sul sellino e pigiare meglio sui pedali la bici sembrò più leggera, la corsa proseguì mentre Luigino si teneva in bilico artigliandole le spalle con le sue minuscole mani.

Ecco il mio incontro galante - disse a mezza voce. - Lo vedi Antonia? Guardalo Giusy. E a te Luigia, come pare? Non è uno zuccherino? Guardatelo pure, care le mie compagne. Guardatelo bene! Lo vedete come è bello con quel testone, le orecchie a sventola e quei quattro peli rossi? Ed è tutto mio, Luigino. Mio come il vento, come le ombre, come il fiume; mio come l’aria che respiro. Mio…

Le compagne della sua linea stavano tutte davanti a lei. Tutte senza il grembiale di lavoro, anzi con il vestito buono impreziosito dagli orecchini e dalle collane che immaginava indossassero la sera del sabato. Ed erano illuminate da sorrisi che conosceva bene. I loro sorrisi non erano sorrisi rassegnati, come i suoi, utili solo per superare le chine della vita: erano sorrisi veri che spuntavano dal cuore, nati nei loro domani immaginati, sognati.

- Sì, il domani, care mie. Il domani… – sussurrò, mentre la strada, appena visibile alla luce falsa del faro e della luna, le sembrò improvvisamente invasa dall’acqua e lacrime calde le riempirono gli occhi serpeggiando indietro sulle guance e sul collo, sospinte dal vento.

- Stupida! Stupida! Stupida! – gridò ad un tratto – Piango come una stupida, proprio la sera che incontro il mio Principe Azzurro! E tu, Luigino, attento a non cadere! Tienila ben stretta la tua strega prima che voli via. O forse non ci sono ancora streghe nella tua vita. Solo fatine dei boschi, scommetto. Ecco: io posso essere la tua fatina o meglio la tua ninfa del fiume. Magari malmessa, squinternata, ma pur sempre la tua ninfa del fiume. E tu chi sei? Oh, sì che lo so! Tu sei il mio fauno, un fauno giovane, forte, sporco di farina e profumato di pane appena sfornato! Chissà quanti elfi, nani, folletti ci sono nei boschi e sul fiume, la notte. Stasera a me è toccato un fauno dei boschi, sceso apposta per me sul fiume, sporco di farina e con addosso il profumo del pane! Tieniti forte Luigino, ch’è ancora lunga la strada. E tieni in alto gli zoccoli, mi raccomando, ché rischiamo di cadere tutt’e due.

E Luigino si tenne forte, quasi sentisse davvero quei sussurri e quelle grida. Per tenersi meglio, le sue piccole mani scivolarono dalle spalle al petto di Costanza, cingendola in un abbraccio che aveva un sapore speciale, caldo e tenero, un abbraccio vigoroso e dolce che sapeva di bambino e di uomo insieme. E lei pedalava e piangeva: quell’abbraccio le rimandava alla mente i sogni impossibili, le fantasie e i timori; le ore perdute e le mille e mille speranze naufragate in uno specchio annerito dall’umido.

Ora non parlava più neppure con se stessa, né con Luigino né con i fantasmi delle sue compagne. Anche i pensieri stavano annegando nelle lacrime, come le parole.

Quando le prime luci del paese arrossarono l’asfalto, Costanza smise di piangere: pedalava senza pensieri e senza parole, lasciando che solo il vento della corsa le asciugasse il viso.

 

Il sentiero dell’onore, di Marco Salvador




Il sentiero dell’onore

di Marco Salvador

Edizioni Piemme


Narrativa romanzo

Pagg. 448

ISBN 978-88-566-1992-8

Prezzo € 18,50

 

 

L’arduo sentiero dell’onore

 

 

Marco Salvador mi ha abituato troppo bene, perché quando ho voglia di leggere un libro che possa essere sicuramente avvincente non ho da far altro che acquistare uno dei suoi romanzi storici, veri e propri affreschi di certe epoche, che non solo risultano estremamente piacevoli, ma che hanno anche il pregio di evidenziare chiaramente quelle che dovrebbero essere le caratteristiche nobilitanti di ogni essere umano: la coerenza con i propri principi, il ripudio di ogni vanità nell’interesse di un’idea che elevi sé e gli altri, la consapevolezza dei propri limiti e perciò l’umiltà, un’umiltà che è grandezza, superiore a ogni effimero successo basato solo sul tornaconto personale e sulla brama di potere.

Così è stato nel bellissimo trittico sui Longobardi (Il Longobardo, La vendetta del Longobardo, L’ultimo Longobardo) e così è nell’ultimo stupendo trittico su Ezzelino da Romano e i suoi successori, vale a dire La palude degli eroi, L’erede degli dei e questo Il sentiero dell’onore, così diverso dagli altri, pur nella loro inconfondibile scia.

Nelle storie di Guido, figlio di Corrado, generato da altro Corrado, a sua volta figlio di Alberico, ultimo discendente di Ezzelino da Romano, e di Nicolò, esposte da un io narrante che poi diventerà lui stesso protagonista, si raccoglie un arco di tempo piuttosto lungo (dall’ultimo periodo del Medioevo a larga parte del Rinascimento), con le convulse vicende della Patria, di quelle terre friulane contese da Impero e Serenissima, pronti ad alimentare, per i propri interessi, le numerose faide che contrappongono i potenti di quello che un tempo fu uno stato forte, il Patriarcato di Aquileia.

Divorato da lotte intestine, da nobili e borghesi continuamente tesi a impadronirsi del potere, fra alleanze che si sciolgono in tradimenti, che si rinnovano, che chiedono soccorso all’esterno, la fine di un’indipendenza è descritta in modo mirabile. Si respira l’aria putrescente della continua slealtà, di chi ignora il senso dell’onore, in convulse e drammatiche vicende che, per quanto in altre vesti, richiamano tanto l’attuale situazione del nostro paese.

C’è, però, chi antepone ai propri gli interessi comuni (e oggi sarebbe considerato un utopista), c’è chi percorre l’angusto e ripido sentiero dell’onore, alla fine del quale non troverà mai la gloria, se non quella del proprio sacrificio, l’unica ricompensa per chi nell’umiltà ha cercato un altro senso della vita, una ricongiunzione con la natura in un appagamento derivante dal tentativo di dare un volto umano a un’esistenza altrimenti propria dell’homo homini lupus.

Che si tratti di Guido o di Nicolò poco importa, e non è tanto perché sono i semi generati da Ezzelino da Romano, bensì perché sono stati allevati nel rispetto per se stessi, che consiste prima di tutto nell’obbligo non solo di non venir mai meno alla parola data, ma di perseguire senza cedimenti quegli ideali di giustizia che da soli possono giustificare un’esistenza e anche la sua fine.

Tradimenti, sottili ambiguità del potere animano così queste pagine, nefasti segni di una decadenza a cui l’autentica nobiltà di Guido e di Nicolò non potrà trovare rimedio; eppure, in questo marciume essi sono due fiori che indicano la strada per una possibile futura redenzione, così come Ambrosia, della cui breve vita fa cenno l’io narrante nell’introduzione, è il simbolo di una purezza d’animo che ai più può apparire incomprensibile. Questa fanciulla un po’ strana cerca rifugio sotto un letto per non udire i lamenti dell’erba recisa dalla falce o il dolore degli alberi quando vengono tagliati, e proprio per questo quando la Serenissima procederà al taglio di un intero bosco in cui Ambrosia trova spesso rifugio, questa preferirà darsi la morte per annegamento.

Si tratta di pazzia, direte senz’altro. Certamente, ma il confine fra la follia e l’eroismo è talmente labile e sottile che è difficile cogliere le sostanziali differenze, anche perché in questo caso permane quella coerenza di comportamento che porterà questa stramba ragazza di paese alla sua tragica fine, propria di chi, grande o piccolo che sia, in silenzio ha saputo percorrere il sentiero dell’onore.

Questo libro, come tutti gli altri di Salvador, è semplicemente stupendo.

  

Marco Salvador è nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione, con un interesse particolare per il Medioevo, ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto sei romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L’ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007), La palude degli eroi (Piemme, 2009) e L’Erede degli Dei (Piemme, 2010).

 

Recensione di Renzo Montagnoli

 

 

 

 

 

 

 

 

MondoBlog del 19 settembre 2012


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I miei consigli odierni:

 


 


 


 


 

Da ragazzo ne avevo anch’io (di bachi da seta) che mangiano solo foglie di gelso, ma al riguardo qual’è il punto di vista del gelso?

 


 


 

mercoledì 12 settembre 2012

Penombra, di Aurelio Zucchi

                                                              Foto da web


Tra magici contrasti la

 

 

Penombra

di Aurelio Zucchi

 

 

Ma quale malinconico ostentare

emerge adesso ch’ogni luce affonda?

E che tristezza prendermi vorrebbe

solo perché distratto è ora il sole?

 

Penombra voglio solo a regolare

contrasti e toni a crescer troppo in fretta,

a rischiararmi dentro negli anfratti

del divenir compagno dei miei anni.

 

Penombra arrivi ad acquietare il giorno,

a renderlo una prova di livello

così che nella sporta poi finisca

per fare parte di quel mio fluire.

 

Se l’alba e il dì non sono sufficienti

a dirozzare i dubbi e le paure,

l’arrivo necessario della sera

ridesta ben la consapevolezza.

 

Penombra voglio ad addolcire il plasma

per decantar le facili tossine

così che ingenua presunzion mi prenda

del navigare i più puliti mari.

 

Penombra arrivi a frantumare il prisma

ed indagar da dove parte il raggio.

Da lì, seguir le mille direzioni

e poi, al sonno, ricompor cristalli.

 

 

 

*

Poesia composta nel 2009

Poesia Tratta da “Appena finirà di piovere” (Global Press Italia 06/2010 – Prefazione di Angela Ambrosoli)

Fiorino d’oro alla XXVII Ed. del Premio Firenze (05/12/2009)

Medaglia d’Argento alla XIV Ed. del Premio Letterario Internazionale Ida Baruzzi Bertozzi (2010)

Antologia Versi Diversi XII Ed. a cura del Centro Culturale Studi Storici Il Saggio

 

La colonna sonora composta da Lizst:


 

 

 

 

Armance, di Stendhal




Armance

di Stendhal

Introduzione di Piergiorgio Bellocchio

Traduzione di Franco Cordelli

In copertina David Johnston di Pierre Paul Proud’hon (1808),

Washington, The National Gallery of Art

Garzanti Editore

Narrativa romanzo

Collana I grandi libri

Pagg. XXX-193

ISBN 9788811362166

Prezzo € 8,50

 

 

Il primo romanzo

 

 

Armance era una nipote molto povera delle signore de Bonnivet e de Malivert, quasi della stessa età di Octave, e poiché si erano reciprocamente indifferenti, i due si parlavano con assoluta franchezza. Dopo tre quarti d’ora trascorsi col cuore gonfio d’amarezza, Octave fu colpito da questa idea: Armance non mi fa moine, è la sola qui ad essere estranea a questo raddoppiamento d’interesse che devo a un poco di denaro, lei sola, qui dentro, ha una qualche nobiltà d’aqnimo. E l’unico motivo di consolazione fu di guardare Armance.”

 

 

Di certo Stendhal è conosciuto di più per Il Rosso e il Nero e per La Certosa di Parma, due romanzi che mantengono inalterato ancor oggi il loro grande valore letterario, due autentici classici che non risentono delle scorrere del tempo, indifferenti alle mode letterarie, sempre capaci di avvincere il lettore con la loro straordinaria attualità.

L’autore francese ha scritto anche altre opere, che si potrebbero definire, senza esagerazioni, di eccellenza; con l’abitudine che a volte si ha di procedere come i gamberi, fra queste mi sono imbattuto in Armance, il suo primo romanzo, dato alle stampe nel 1827.

Preciso subito che se agli occhi di chi già si è entusiasmato per Il Rosso e il Nero e per La Certosa di Parma questo racconto intriso di romanticismo può sembrare modesto, all’epoca invece trovò uno scarso successo per motivi del tutto opposti, legati allo stile di scrittura, non ridondante, scarno, che va soprattutto al sodo, per l’ambientazione, per la capacità di evidenziare i difetti di una nobiltà marcescente, per l’introduzione di un discorso politico e sociale del tutto rivoluzionario per quegli anni di Restaurazione.

A una lettura più attenta, liberandosi dagli stilemi propri del romanticismo che danno alla vicenda amorosa di Armance e di Octave quei toni eccessivi che passano dalla disperazione alla felicità in continua alternanza, devo dire che questo primo romanzo è invece particolarmente affascinante, riuscendo gradualmente ad avvincere in un crescendo che poi si conclude in tre righe di una bellezza sconcertante, ma che sono ben significative di una classe (i nobili) in via di progressiva estinzione, perché hanno fatto il loro tempo.

La straordinaria capacità dell’autore di descrivere i personaggi di questa casta, chiusa in un mondo che si va spegnendo, i loro rapporti interpersonali, la loro vuota esistenza, mentre il mondo di fuori reclama di vivere in altro modo chiedendo il riconoscimento di una posizione di rilievo solo per capacità, e non per nascita, sono frutto di idee nate con la Rivoluzione francese, portate in parte avanti con Napoleone, di cui Stendhal era fervente ammiratore, e poi soffocate dopo Waterloo, come se con una battaglia si potesse fermare un progresso inarrestabile, agevolato, per di più, da una naturale decadenza che nessuna legge e nessun potere costituito poteva arrestare.

Penso, inoltre, che Stendhal sia riuscito a delineare due protagonisti perfettamente complementari, due vite che non avrebbero potuto che incrociarsi.

Infatti, Octave, nobile di grandi origini, e Armance, anch’essa blasonata, ma di più modesto lignaggio,  sono due giovani in cui sboccia un amore esclusivamente platonico, una sorta di affetto che trasforma l’amicizia in un sentimento più forte, rispettosi l’uno dell’altro, in particolare lei, sempre pronti a tormentarsi o a gioire al massimo livello, in un avvicendarsi di sole e di buio, di giorno e di notte, condizionati dal loro rango, ma al tempo stesso inconsapevolmente desiderosi di rompere le catene di una società gretta, fatua, senza domani.

Lui è turbato, ha momenti quasi di pazzia, altri di estasi, altri ancora di depressione, ma lei lo ama, perché l’amore è irrazionalità, è un sentimento che nasce all’improvviso e di cui solo in seguito si cercano eventualmente le motivazioni.

È tenera, dolce Armance, ma ha carattere, un carattere che le  permette di andare oltre  le stranezze di Octave, quasi pazzie si potrebbero definire, ingiustificabili agli occhi degli altri, ma una causa c’è, un orribile segreto che lui tiene tutto per sé, un fardello che grava come un macigno e di cui solo a volte riesce a dimenticarsi, ed è in quei momenti che si sente veramente felice, che assapora l’ebbrezza dell’amore.

Di che si tratti si arriverà a capirlo poco a poco ed è questa un’altra straordinaria abilità di Stendhal, con quel graduale coinvolgimento, con quel dubbio che sorge al lettore all’improvviso, che ricaccia, perché gli appare impossibile, ma che poi ritorna, tanti piccoli tasselli che vanno componendosi come in un mosaico e alla fine quell’ipotesi che poteva apparire insensata si rivela veritiera.

Il suo è un problema irresolubile, una disfunzione senza possibilità di cure, un dramma che lo perseguita.

Octave soffre d’impotenza e questa finisce con il diventare la metafora di una classe sociale senza nerbo, agonizzante e prossima alla fine. E così il protagonista maschile, naturalmente diverso, è portato a una progressiva drammatica autoemarginazione, dando vita a un personaggio indimenticabile, di forte spessore, come lo saranno, nei due più famosi romanzi successivi, Julien Sorel e Fabrizio del Dongo.

Armance è un’opera che si legge con passione e che resta dentro per sempre, un altro capolavoro di Stendhal.

 

 

Stendhal, pseudonimo di Marie-Henry Beyle nacque a Grenoble il 23 gennaio 1783 e morì a Parigi il 23 marzo 1842.

Ebbe una vita avventurosa e scrisse numerosi libri, molti dei quali di grande successo ancor oggi.

La sua produzione letteraria comprende, fra gli altri, La certosa di Parma, La Badessa di Castro, Il Rosso e il Nero, Vita di Napoleone, Armance, Lucien Leuwen, Ricordi d’egotismo,   Passeggiate romane, Vanina Vanini, Vita di Henry Brulard, L’amore.

 

 
Recensione di Renzo Montagnoli