mercoledì 22 maggio 2013

Castellaro Lagusello, di Renzo Montagnoli





Castellaro Lagusello

di Renzo Montagnoli

 

 

In Italia, il paese che vanta il più consistente patrimonio artistico del mondo, peraltro mai adeguatamente conservato, esistono anche tante piccole realtà, sovente meno interessanti per le opere d’arte che vi si trovano, ma che hanno caratteristiche tali da costituire dei veri e propri gioielli. Si tratta dei cosiddetti borghi, località che sono riuscite a mantenere pressoché intatte le loro caratteristiche nel corso dei secoli, un piccolo agglomerato di case antiche, spesso cinte da difese murarie, con torri merlate, camminamenti, chiese che hanno ancora il profumo di una religiosità semplice e popolare. Queste entità - spesso site in cima a un colle più che per dominare la pianura circostante a difesa invece dai pericoli che dalla stessa un tempo provenivano - sono sparse un po’ dappertutto sul suolo nazionale, con maggior presenza in alcune zone geografiche dell’Italia centrale, specialmente in Toscana, in Umbria e nelle Marche. Al riguardo, tanto per citare solo alcuni nomi fra i più famosi, rammento Gradara, Mondavio, Norcia, Spello, San Gimignano, Buonconvento. Al Nord ce ne sono soprattutto due di estremo interesse, Borghetto sul Mincio, al confine fra le province di Mantova e Verona, considerato il più bel borgo d’Italia e di cui ho già scritto qui, e Castellaro Lagusello, poco distante, in provincia di Mantova, sulle colline moreniche. E a proposito di questi rilievi, invero di modesta altezza (fra i 90 e i 110 metri sul livello del mare) mi corre l’obbligo di spiegare come si sono formati. Milioni di anni fa, ove adesso troviamo il lago di Garda, c’era un gigantesco ghiacciaio che, erodendo le montagne in cui era incassato, trasportava a valle, sul suo fronte, massi di varie dimensioni. Quando avvenne il disgelo e si formò appunto il lago di Garda, i detriti accumulati rimasero al loro posto e con l’azione dei vari eventi atmosferici si compattarono nelle attuali colline.



Castellaro Lagusello sorge su uno di questi rilievi e ha origini antichissime, tanto che i primi insediamenti su palafitte intorno al laghetto risalgono all’età del bronzo. Fu abitato anche in età romana, ma è solo nell’XI secolo che diventa un borgo fortificato. Già di proprietà dei Visconti, passò varie volte di mano in mano, prima ai Gonzaga, poi ritornò ai Visconti, di nuovo ai Gonzaga, indi alla Repubblica Serenissima nel 1441, che lo tenne fino al 1637 quando, messo all’asta, diventò di proprietà dei conti Arrighi. Infine, nel 1815 entrò a far parte del Regno del Lombardo-Veneto.
E’ ammirevole come si sia riusciti a conservarlo nella sua struttura e forma originaria, con l’idilliaca visione del borgo che si specchia nelle acque del laghetto, che è a forma di cuore.
Pressoché intatte sono rimaste le mura, così come la pavimentazione delle vie in pietre di fiume e gli scenografici sassi a vista delle case; la villa patrizia, inoltre, è la stessa, senza modifiche architettoniche, da quanto fu eretta, cioè nel XIV secolo, salvo alcuni restauri nel XIX e XX secolo effettuati senza alterarne la struttura armonica e conservando le preesistenze.
Il paesino è invero minuscolo e la visita abbastanza breve, salvo soffermarsi con attenzione sulle sue caratteristiche. Vi si può accedere solo da Nord, attraverso una porta abbastanza larga, che fino al 1700 era dotata di ponte levatoio. A protezione dell’entrata c’è una torre piuttosto alta, chiamata dell’orologio.
Fatti pochi passi s’incontra una chiesa barocca dedicata a San Nicola, in cui è conservata una Madonna in legno del Quattrocento. Si prosegue, trascurando per il momento i vicoletti laterali, in cui il silenzio regna sovrano, benché le case siano abitate, e dopo un centinaio di metri ci si trova di fronte a Villa Arrighi, oggi di proprietà dei conti Tacoli e visitabile solo dietro richiesta. Dentro il perimetro della residenza nobiliare c’è un fortilizio con mura di cinta, dai cui merli guelfi e dalle cui bifore è possibile vedere il famoso laghetto, che peraltro si scorge anche da un piccolo cancello esterno alla proprietà.
Oggi villa Arrighi è diventata un luogo ove si organizzano eventi, cerimonie varie, fra cui matrimoni, e meeting.



L’edificio incorpora anche una chiesetta del XVIII secolo, dedicata a San Giuseppe.
Purtroppo il laghetto è accessibile solo ai proprietari ai quali tuttavia si può chiedere il permesso di scendere alle rive lungo una scalinata, rive che presentano ormeggiate alcune barche in legno di fattura artigianale.
 
 

Per quanto concerne le viuzze laterali, meritano di essere visitate per la straordinaria atmosfera che lì è possibile respirare: il silenzio, i muri con i sassi a vista, gli antichi lampioni fanno sognare, ad occhi aperti, di un’epoca passata, di antiche glorie e di nobildonne e popolane che un tempo posarono i loro piedi sullo stesso selciato che è ora sotto i nostri.
Ecco, Castellaro Lagusello, minuscolo, ma sostanzialmente intatto, è il testimone di un’epoca lontana che, nella sua ovattata atmosfera, ci piace far rivivere nella mente.
Il borgo è visitabile tutto l’anno, anche se a mio parere i periodi migliori sono la primavera, il mese di settembre e la prima metà dell’autunno, specialmente quest’ultimo, quando la natura si colora d’oro e di rosso scuro delle foglie degli alberi che, sebbene non fitti, punteggiano le colline a gruppi, quasi sentinelle lasciate dal ridondante rigoglio dei mesi precedenti ad attendere l’inverno e a vegliare su scorci panoramici che inteneriscono il cuore, in un ondeggiare di rilievi che dalla più alta sommità sembra un mare d’erba mosso da un refolo di vento.
Castellaro Lagusello è inserito in una Riserva Naturale di 139 ettari gestita dal Parco del Mincio. Numerose sono le specie animali presenti, fra le quali la folaga, il martin pescatore, il tarabusino, l’airone, il falco di palude; ma anche l’aspetto botanico è di tutto rilievo, con boschi di salici, ontani e roverelle, solo per citare le specie più diffuse.

Come arrivare?

L’autostrada Bergamo – Brescia – Verona è piuttosto vicina e dall’uscita di Peschiera del Garda sono in tutto 11 Km..

L’occasione può essere buona per visitare anche altri luoghi limitrofi, come Borghetto sul Mincio (a 10 Km.), Custoza (a 18 Km.), Solferino (a 8 km.), San Martino della Battaglia (a 10 Km.), queste ultime tre località teatri di grandiose battaglie nella nostra storia risorgimentale, Verona (a 41 Km.), Mantova (a 33 Km.).

Dove alloggiare?

Prevalgono gli agriturismi, non mancando tuttavia altre sistemazioni:









Dove mangiare?

Premetto che in zona la cucina è ottima e che vi sono numerosi ristoranti e trattorie. Ripeto si mangia bene ovunque, con specialità prettamente locali, quali gli agnolini mantovani, i tortelli di zucca, il risotto con la salsiccia, le tagliatelle al sugo di piccione, il cappone farcito, il luccio in salsa, la sella di maiale con mele e noci, la torta di tagliatelle, la torta sbrisolona.

Chiedete dove alloggiate e, a meno che lì non sia prevista la ristorazione, i consigli che riceverete saranno sicuramente di vostra soddisfazione.

Sui colli morenici si beve anche bene; c’è una produzione locale, limitata, ma di grandissima qualità, con vini assai pregiati, come i DOC “Colli Morenici Mantovani del Garda” Bianco, Rubino e Chiaretto, quest’ultimo fra i migliori al mondo.

Come al solito, più sotto, a corredo, vi sono alcune fotografie di questa località e rappresentano, nell’ordine dall’alto in basso:

- veduta aerea di Castellaro Lagusello;

- l’accesso a Nord;

- Villa Arrighi;

- La scalinata che scende al laghetto.

Nota: La prima fotografia è stata reperita sul sito del Parco del Mincio, le altre sono state scattate da me.

 

Viaggio in V Classe, di Aurelio Zucchi




Viaggio in V Classe

di Aurelio Zucchi

Nota dell’autore

Prefazione di Pietro Zullino

In copertina foto di Aurelio e Luigi Zucchi

Gruppo Albatros Il Filo


Narrativa romanzo

Pagg. 264

ISBN 9788878425767

Prezzo € 14,00

 

 

 

Ritorno al passato

 

 

 

 

Non ci si lasci ingannare dal titolo, in quanto non si tratta di un viaggio in treno, le cui carrozze, come noto, prevedono solo due classi, bensì siamo di fronte a un romanzo autobiografico in cui l’autore racconta di una parte della sua gioventù, limitatamente a quella che lo vede allievo, prima della IV, poi della V classe, dell’Istituto Tecnico per Geometri.

Premetto che non ci troviamo di fronte a vicende rocambolesche o picaresche, ma a una banale esperienza scolastica inserita in un preciso contesto sociale (quello del Mezzogiorno) che più incide per le prospettive successive al diploma che per una condotta di vita nel corso degli studi.

Il tutto trae origine dalla decisione improvvisa del padre dell’autore di ottenere un trasferimento della propria attività (è un bigliettaio della locale Azienda Municipale Autobus)  a Roma, nell’ottica che nella capitale ai figli siano riservate quelle possibilità e opportunità di lavoro che la città di attuale residenza (Reggio Calabria) non è in grado di offrire. Così tutta la famiglia, piuttosto numerosa, si trasferisce nella capitale, tranne Aurelio, che per motivi scolastici, resta in loco, ospite di una zia, per completare gli studi con il conseguimento del diploma.

Ripeto che la vicenda è del tutto banale, ma la capacità dell’autore riesce a trarne elementi utili per una narrazione che è in grado di interessare e coinvolgere il lettore, soprattutto quello di una certa età, simile a quella dello scrittore, in quanto ritrova certi spunti e momenti di un vissuto che li accomuna, come i primi benefici effetti del miracolo economico italiano e un certo desiderio di autonomia e di libertà che all’epoca andava sempre più affermandosi.

L’abilità di Zucchi sta nel raccontare cose normalissime con una grazia che gli deriva dalla sua naturale tendenza alla poesia, con un occhio di riguardo a tutti i personaggi, che sono tanti ( basti pensare ai compagni di classe).

Si constata così che esistevano legami assai forti, cementati in anni di comuni studi, tanti compagni di viaggio, di un viaggio ovviamente metaforico, poiché si tratta del percorso in un itinerario affrancante dagli obblighi della minore età e proiettato 

all’ingresso completo nella vita e nel mondo degli adulti.

Si è trattato indubbiamente del periodo più bello per Aurelio, ma anche per tutti, lettori compresi, poiché la gioventù è un

irripetibile sogno di libertà che non avrà più uguali successivamente.

Le passeggiate lungo il mare, le prime uscite in auto, che erano per lo più catorci, la fidanzatina, le feste, gli scambi d’opinione, gli entusiasmi improvvisi, ma anche le cocenti delusioni, che pur tuttavia non lasciavano segni, sono la riscoperta di un passato che tanto prometteva di quello che poi non si sarebbe ottenuto, e giunti a una certa età il solo ripensarvi muove a una malinconica commozione, alla mestizia di un paradiso perduto.

Ecco, Zucchi, nel ricordare quel suo periodo, ha fatto di più di una testimonianza storica, anche se personale; ha infatti fatto riemergere un comune sogno a cui, nei giorni non più verdi, anzi sempre più grigi, è piacevole abbandonarsi.

Da leggere, senza dubbio.    

 

Aurelio Zucchi è nato il 7 febbraio del 1951 a Reggio Calabria, città in cui ha vissuto fino al 1970, quando con la famiglia si è trasferito a Roma, dove tuttora risiede e svolge la professione di agente di commercio nel settore industriale. Poeta per indole naturale, ha pubblicato nel 2010 la silloge Appena finirà di piovere (Global Press Italia), mentre Viaggio in V classe ha segnato il suo esordio come narratore.

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 22 Maggio 2013


MondoBlog

 

 

Vediamo che c’è oggi:

 


 


 


 


 

giovedì 9 maggio 2013

L'amore, di Renzo Montagnoli


Tutti, chi più chi meno, l’hanno provato, ma che cos’è veramente?

 


 

 

 

L’amore

di Renzo Montagnoli

 

 

Lenta veniva lungo il sentiero

e i fiori di campo chinavano il capo

al suo passaggio di ninfa terrena.

Più s’appressava meno vedevo

i colori del cielo e dell’erba

solo notavo l’incedere flessuoso

del suo corpo ancora acerbo.

Andava con gli occhi bassi

ma nel passarmi accanto

sollevò lo sguardo

incontrando il mio

e fu come se all’improvviso

la primavera piombasse

sul nostro lungo inverno

a cacciare dal corpo

il freddo di giorni di solitudine

ad avvamparmi dentro

un fuoco che non brucia

ad accelerare i battiti del cuore.

Già era passata e i miei occhi

scintillanti la seguivano

incerti fra l’ondeggiare

armonico delle anche

e il candido collo

che adornava una testa

dai lunghi crini dorati.

La guardai fino alla curva del sentiero,

là dove piega a destra

ed entra nel bosco del villaggio.

Or la vedevo con la mente

immaginavo il suo passaggio

fra le foglie garrule al vento

e poi il guado del torrente

e infine la casa sua che l’attendeva.

Fu solo quasi un momento

pochi istanti di tempo

per aprire uno squarcio dentro di me

per gioire e soffrire

per sperare e patire.

Fu allora che seppi

che cos’era l’amore:

un lampo di luce

imprigionato nel cuore.

 

Da Canti celtici II

 

 

La voce di Massimo Ranieri risalta nella colonna sonora:


 

 

 

 

 

 

 

La strana giornata di Alexandre Dumas, di Rita Charbonnier


 
 
La strana giornata di Alexandre Dumas

di Rita Charbonnier

In copertina: Jean Baptiste Greuze,

Il cappello bianco, © Bridgeman / Archivi Alinari

Edizioni Piemme


Narrativa romanzo storico

Pagg. 378

ISBN 978-88-566-0176-3

Prezzo € 18,50

 

 

Chiappini o d’Orleans?

 

 

 

Dopo aver scritto di Nannerl Mozart, sorella del ben più noto Amadeus, nel suo riuscitissimo La sorella di Mozart, Rita Charbonnier ha pensato di cimentarsi con un altro personaggio realmente esistito, tale Maria Stella Petronilla Chiappini (Modigliana, 16 aprile 1773 – Parigi, 23 dicembre 1843).

Ma se Nannerl era ed è tutto sommato un personaggio conosciuto, chi è mai questa signora romagnola? 

Premetto subito che coloro che ne sanno qualcosa si dividono immancabilmente in convinti assertori della sua storia, oppure in fieri avversari, o anche, come nel mio caso, in scettici.

Questa signora non sarebbe stata la figlia dello sbirro Lorenzo Chiappini e di Vincenza Diligenti, coniugi di umili condizioni, bensì di Louis Philippe Joseph d’Orleans e di Louise Marie Adélaide de Bourbon Penthièvre, di cui il primo era un discendente di Anna d’Austria e la seconda di Luigi XIV, insomma il famoso re Sole. Infatti, per ragioni dinastiche e proprietarie, Louis Phlippe aveva bisogno di un figlio maschio, che la consorte, ancora una volta incinta, non riusciva a dargli; dopo laborioso ricerche si trovò a Modigliana, grazie alla collaborazione della contessa Camilla Borghi-Biancoli, una gestante, così quando i due parti avvennero pressoché in contemporanea (una vera e propria stranezza), il maschio nato da Vincenza Diligenti fu sostituito con la femmina di Louise Marie Adélaide, operazione effettuata dietro un generoso compenso al Chiappini.

Poi, le vicende della vita fecero sì che il neonato, a cui fu attribuito il nome di Luigi Filippo I, duca d’Orleans, diventasse re dei francesi, e che invece la femmina, Maria Stella Petronilla diventasse anch’ella nobile, grazie al matrimonio con un lord inglese, e, morto questi, a un’altra unione nuziale con un barone russo. Fra l’altro, la fanciulla, diventata donna e in età non più giovane, appreso di questo scambio, cercò inutilmente di farsi riconoscere la reale paternità.

Come è possibile rilevare è una storia del tutto particolare, anche se non infrequente (già nel 1850 circolavano voci che Vittorio Emanuele II non fosse il figlio di Carlo Alberto, ma di un macellaio fiorentino, a cui peraltro assomigliava in modo strabiliante). Sono vicende che non possono che appassionare il popolino e che se tradotte su carta nel 1800 costituivano quel genere di romanzi chiamati feuilleton, di cui Alexandre Dumas padre era fra i più acclamati autori.

E infatti, molto opportunamente, Rita Charbonnier non ha voluto scendere in questo genere, diciamo pure francamente inferiore alla sua produzione, ma, attratta dalla storia e, a quanto mi sembra di aver capito, convinta delle ragioni della protagonista, ha voluto parlarne con un’invenzione letteraria estremamente efficace. In pratica ha creato un incontro fra Dumas e Maria Stella, con la scusa dell’astrologia di cui la donna è una cultrice, portando i due personaggi a colloquiare, in particolare lei, tesa a raccontare la sua straordinaria vita affinché il grande narratore francese la trasponesse in un romanzo.

L’idea è geniale anche perché da un lato c’è chi è convinto assertore delle sue rivendicazioni nobiliari (lei) e dall’altro uno scettico (lui) altalenante fra il credere e non credere, risoluto poi alla fine a non scrivere il romanzo.

Aggiungo, subito, che il libro consta di 368 pagine, ma scritte in modo così avvincente e per nulla greve, al punto che si leggono quasi tutte d’un fiato. E questo è uno dei tanti aspetti positivi dell’opera, perché ve ne sono anche altri e ben più importanti. Considerata la capacità di Rita Charbonnier di analizzare l’animo umano, di portare alla luce anche le caratteristiche più nascoste, è semplicemente splendida nel delineare i personaggi, i cui due principali non sono come si potrebbe supporre Maria Stella e Luigi Filippo I, bensì la prima e Vincenza Diligenti, quella che può essere definita la madre adottiva. Da un iniziale rapporto di conflittualità – benché la prima non sappia ancora di non essere la sua vera figlia – si arriva, attraverso un percorso, anche doloroso, a un riconoscimento di amor filiale, privilegiato rispetto a quello che nasce dalla legittimazione di una nascita, perché il genitore è chi ti alleva, chi si prende cura di te, chi è capace di confortarti, di riprenderti, di esserti vicino anche da lontano. E’ veramente ricreata bene la trasformazione di Maria Stella, dall’odio verso Vincenza, alla riconoscenza, all’affetto che, se anche forse non è ancora amore, è comunque un sentimento talmente forte e coinvolgente da riassumersi nel pianto sincero della figlia alla morte di quella madre che, se anche non l’ha generata, si è comunque comportata come tale, nonostante che Vincenza non avesse mai goduto dell’amore materno, in quanto allevata in un ospizio di trovatelli.

E un particolare significato ha pure quello dell’astrologia, degli oroscopi fatti a Dumas, dei vaticini, di cui comunque precisa Maria Stella non ci può esser certezza. Indubbiamente gli astri hanno il loro influsso, ma per ognuno di noi esiste un destino che solo in parte crediamo di modificare; è quel fato che ci accompagna dall’alba al tramonto della vita, che riserva alla protagonista gioie e anche immensi dolori, ma che le riserverà la soddisfazione nel suo ultimo periodo di esistenza di scoprire che un genitore adottivo non è diverso da uno naturale e che in fondo Vincenza, se non era nobile per origini, lo era senz’altro d’animo.

La strana giornata di Alexandre Dumas è un libro che resta nel cuore. 

 

Rita Charbonnier,nata a Vicenza, ha vissuto a Matera, Mantova, Genova, Trieste, per poi stabilirsi a Roma. Ha fatto studi musicali e ha frequentato la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa. È stata attrice e cantante in teatro, recitando al fianco di celebri artisti. In seguito si è dedicata alla scrittura e, dopo aver collaborato come giornalista con riviste di spettacolo, ha iniziato a scrivere sceneggiature e infine romanzi, La sorella di Mozart, La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa, tutti molto apprezzati dai lettori.

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 9 maggio 2013


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