martedì 23 luglio 2013

lunedì 22 luglio 2013

Castel Thun, di Renzo Montagnoli




Castel Thun

di Renzo Montagnoli

 

 

La valle in cui scorre il fiume Adige è sempre stata il percorso obbligato per per i traffici fra il Nord dell’Europa e l’Italia; in epoche passate si trattava di una strada appena accennata, bianca di polvere in estate e dello stesso colore nell’inverno quando nevicava; comunque, indipendentemente dalle stagioni, era molto trafficata, così come oggi, per quanto si disponga ora di una statale ben asfaltata affiancata da una bell’autostrada e in mezzo alle due di una linea ferroviaria su cui corrono treni che trasportano per lo più merci.

Come possibile comprendere questa valle ha sempre avuto una notevole importanza strategica e ciò spiega la presenza di numerosi castelli e rocche fortificate, sovente appollaiati su speroni di roccia per interdire passaggi indesiderati. La presenza di queste opere di difesa non è limitata al solo percorso principale, ma spesso si estende a valli laterali e intersecanti e ciò spiega l’esistenza di castelli come quello di Stenico o anche, benchè un po’ più defilato, dei Thun. Ed è di quest’ultimo che intendo parlare, iniziando con un breve profilo storico.




La costruzione risale alla metà del XIII secolo per opera della famiglia Tono e all’inizio si chiamò Castel Belvesino, dal nome del colle su cui fu eretto. In seguito, allorchè i proprietari germanizzarono il loro cognome, il castello ne assunse il nome, per l’appunto Castel Thun. Questa famiglia di nobili era una delle più potenti della regione, tanto da estendere il dominio all’intero territorio delle valli del fiume Noce. Come sempre capita si divise in numerosi rami, uno dei quali si trasferì in Boemia, dove nel 1629 ottenne, per l’intero casato, il predicato di Thun-Hohenstein e il titolo di conti dell’impero.

Nonostante la natura di fortezza, per quanto ci è dato di sapere non fu mai soggetta ad assedi, ma fu più volte danneggiata da incendi, che comportarono parziali ricostruzioni, in stili tra loro diversi.

La struttura militare resta comunque imponente, è tipicamente gotica ed è costituita da un palazzo patrizio circondato da un vasto e complesso sistema di fortificazioni, che comprendono torri, bastioni, un fossato e un cammino di ronda.

Considerato l’insieme e tenuto conto dell’epoca medioevale si può affermare, senza ombra di dubbio, che questa fortezza era pressochè impossibile da conquistare.

Del resto, la posizione elevata sulla valle di Non, non solo consentiva di controllarla, ma rendeva arduo anche l’avvicinamento al baluardo, stante la presenza di numerosi contrafforti naturali.

Nel 1926 Castel Thun passò di proprietà al ramo di Boemia e da questo alla provincia di Trento nel 1992.

Si avviarono lunghi e complessi lavori di restauro che, ultimati dopo diversi anni, portarono all’apertura al pubblico solo dal 17 aprile 2010.

E’ curioso rilevare che il castello si trova nella frazione Vigo del comune di Ton che, a differenza degli antichi proprietari, non si germanizzò.



Oltre alle opere murarie, di grande bellezza, un ulteriore motivo di attrazione è costituito dagli arredi, sapientemente disposti nelle varie camere e che danno un’idea della vita in un maniero dal medioevo fino alla metà del secolo scorso, un veloce viaggio nella storia, fra tavoli, letti, dipinti, vasellame, oggetti che richiamano l’attenzione del visitatore che, con un po’ di fantasia, si immerge così nelle diverse epoche. Fra tanto pregio e bellezza spicca la famosa stanza del vescovo, interamente rivestita di legno di cimolo, con il soffitto a cassettoni e una porta a dir poco, monumentale, abitata dal principe-Vescovo Sigismondo Alfonso Thun.



Camera dopo camera, come ci si immerge in un’epoca, se ne esce rapidamente per approdare alla successiva. Ecco, lì su un tavolo c’è un liuto e non è difficile immaginare una piccola corte riunita per ascoltare qualche cantore, al fuoco di un immenso camino che fatica a riscaldare un ambiente troppo vasto; si esce, si va in altre stanze, e ora c’è una bella sala con un pianoforte e dei ritratti di ufficiali asburgici e di nobili signore nelle loro vesti da gala che sembrano muoversi, uscire dalle tele per congiungersi in una danza sulle note di un bel valzer viennese.



Si va ancora per scale alla scoperta di nuovi locali, come la cucina, così diversa dalle nostre, ma non per questo meno pratica, poi ci si imbatte in una sala delle armi che espone alcuni rari reperti.

Ma già il percorrere il cammino di ronda, con la vista stupenda sulla valle di Non, ripaga delle fatiche della visita, per quanto non manchi un punto di ristoro, all’interno della cinta muraria, dove si può pranzare a un prezzo non esorbitante, scegliendo in un menù che privilegia la cucina veloce, senza che tuttavia il gusto venga troppo penalizzato.



La visita del palazzo richiede all’incirca un’ora per chi ha gambe buone e ha recuperato la fatica del percorso per accedere al castello, e in questo senso ragguaglio di seguito sull’itinerario per raggiungere questa autentica meraviglia.

Normalmente si esce al Casello di San Michele all’Adige dell’autostrada A22 del Brennero, si prende la statale 43 della Val di Non, fino alle indicazioni appunto del castello. La strada, prima ampia e abbastanza veloce, si inerpica lungo la montagna, restringendosi poco a poco, soprattutto dopo la frazione di Vigo di Ton. Si passa in mezzo ai meleti su quello che un tempo era un viottolo di campagna e, a parte l’asfaltatura, tale è rimasto. Sono un paio di chilometri in cui è difficile l’incrocio con un altro veicolo, impossibile addirittura qualora ci si imbatta in uno dei numerosi autobus di turisti. C’è da dire, però, che ogni tanto si trovano degli slarghi, piccoli, ma sufficienti per ospitare un’auto, e che in fondo ci si accorge per tempo di un altro veicolo da incrociare, essendo la strada pressochè rettilinea.

Alla fine del percorso c’è un grande parcheggio, da cui partire per la salita, vera e propria, al castello; è un po’ ripida, ma per fortuna breve e arrivati in cima non si saprà dove guardare: se a sinistra con l’idilliaca visione della val di Non, o a destra, con queste mura possenti che quasi intimoriscono.

Si entra dalla porta del ponte levatoio e si trova quasi subito a sinistra la biglietteria; l’ingresso costa 6 Euro, poi ci sono riduzioni per l’età e per i gruppi.

Di seguito si vedano gli orari e i periodi di apertura:

periodo invernale apertura 9.30 - 17.00
periodo estivo apertura 10.00 - 18.00

aperto il 26 dicembre e il 6 gennaio

Possibilità di variazione tariffe ed orari per mostre temporanee.
Fotografie e riprese video per uso editoriale pubblicitario e commerciale sono consentite solo previa autorizzazione.

Ad ogni buon conto fate riferimento a questo sito:


 

E se dopo aver tanto scarpinato avete voglia ancora di visitare la bella val di Non, riprendete l’auto e dirigetevi verso la Val di Sole fino a San Zeno, da cui parte un’escursione di grande fascino: la visita al Santuario di San Romedio, oggetto di un mio prossimo articolo.

Note:

- le fotografie dell’articolo sono state reperite sul web.

 

Il trono d’oro, di Marco Salvador





Il trono d’oro

di Marco Salvador

Edizioni Piemme


Narrativa romanzo

Pagg. 265

ISBN 9788856633214

Prezzo € 16,50

 

 

La riunificazione di due Principati

 

 

Non basta gridare contro le tenebre, bisogna accendere una luce.” (S.Nilo)

 

 

Marco Salvador, dopo tre romanzi storici, tutti editi da Piemme (La palude degli eroi, L’erede degli Dei e Il sentiero dell’onore), in cui ha narrato splendidamente della dinastia con capostipite Ezzelino da Romano, con questo libro ritorna ai suoi Longobardi, di cui ha scritto una riuscitissima e apprezzata trilogia, pure pubblicata da Piemme (Il Longobardo, La vendetta del Longobardo, L’ultimo Longobardo). Appare quindi evidente che lo scrittore pordenonese ha una spiccata preferenza per questo popolo di origine germanica che, fra il VI e l’VIII secolo occupò gran parte dell’Italia fino a quando non fu sconfitto da Carlo Magno che finì con il porre fine al loro dominio, almeno nell’Italia settentrionale, perché in quella meridionale, in quella che fu chiamata la Langobardia  Minor, restarono indipendenti il Principato di Salerno e quello di Capua.

In Il trono d’oro si narra appunto di questi due stati longobardi e della loro riunificazione nell’unico signore Pandolfo Capodiferro. La vicenda di per sé sarebbe intricata, fra guerre con i bizantini, tradimenti, colpi di mano e se raccontata in prima persona da Pandolfo, principe di Capua, potrebbe forse risultare meno interessante, ma Salvador ha avuto un’idea felicissima, inventando un personaggio, Teofilo, greco di Palermo fuggito dagli arabi per non essere giustiziato, salvato dai longobardi e che in breve diventerà un consigliere onesto e fidato e che tanto contribuirà con la sua opera alla riunificazione.

Tuttavia, il predetto Teofilo non è un personaggio di comodo, non è solo un artificio per narrare la storia, perché - e qui è tanto il merito dell’autore pordenonese -  assume una veste propria nel non breve passaggio dalla condizione  di fuggiasco a quella di elemento di spicco della corte di Capua, in un processo di maturazione e di formazione che finisce con il diventare un’altra storia nella storia.

La mano di Salvador non è mai greve, ma segue passo passo la sua creatura, di cui svela poco a poco i tanti pregi e i pochi difetti, e in questa ascesa sociale è costante la presenza di una virtù a cui Salvador, a ragione, tiene tanto: l’onore.

E non è un onore retorico, è l’impegno con tutte le proprie forze per mantener fede alla parola data, per mai venir meno, costi quel che costi, a un’onestà intellettuale che si sposa con una ferma coerenza. Teofilo ha questa virtù e saprà sempre dimostrarla, anche in un gioco complesso e pericoloso quale è il tentativo di riunire due stati sotto un unico scettro.

Scritto, come al solito, in un italiano più che corretto, con una perfetta definizione dei personaggi e con un’ambientazione in cui volentieri ci si immerge, Il trono d’oro è un romanzo a dir poco stupendo.

 

 

Marco Salvador è nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione, con un interesse particolare per il Medioevo, ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto i romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L’ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007), La palude degli eroi (Piemme, 2009), L’Erede degli Dei (Piemme, 2010) e Il sentiero dell’onore (Piemme, 2012).

 

Recensione di Renzo Montagnoli

 

MondoBlog del 22 luglio 2013


MondoBlog

 

 

Segnalazioni estive ( ma non tutti son partiti…):

 

 


 


 


 


 

giovedì 11 luglio 2013

I segni del tempo, di Renzo Montagnoli


 
 
I segni del tempo

di Renzo Montagnoli

 

 

Di strade tracciate nel tempo che fu

restano immote pietre,

segni di un passato

che l’oblio dell’uomo non degna di sguardo.

Lì sono le radici,

quello che l’oggi non sarebbe senza il lavorio dei secoli,

lo scandire di Crono

in un’unica infinita storia dell’umanità.

Non è più tempo di dei, il tempo non esiste più.

Corre l’uomo senza avvedersi del presente,

dimentico del passato, orfano del futuro.

Ma quelle pietre restano

e sole testimoniano

le lontane civiltà,

avi che nacquero, vissero e morirono

perché nel dopo qualche cosa di loro rimanesse.

E invece ora

sono solo inerti sassi

che un giorno qualcuno getterà.

 

 

Da Canti celtici – Il Foglio, 2007   

 

 

Credo che questa colonna sonora si adatti perfettamente al tema:

 

 


 

 

Il seminarista, di Luisito Bianchi


 
 
Il seminarista

di Luisito Bianchi

Sironi Editore


Narrativa romanzo

Collana Indicativo presente

Pagg. 224

ISBN 978-88-518-0220-2

Prezzo € 16,00

 

La vocazione e la Resistenza



“ La sofferenza del mondo stava identificandosi con la sua sottana e la sua sottana con Dio e Dio con la sofferenza del mondo. Il cerchio si chiudeva, senza possibilità di scappatoie. Lui non sapeva chi era Dio ma non c’erano dubbi che Dio lo poteva trovare solo nella sofferenza del mondo. Lui non sapeva che significasse farsi prete, ma era altrettanto certo che, senza la sofferenza del mondo, non c’era nessuna ragione per farsi prete.”

 

Scritto nella prima metà degli anni ’70, come testimoniano le agende che riportano la prima stesura, e fino a poco tempo fa inedito, Il seminarista è pubblicato, in accordo con il “Fondo Luisito Bianchi” della Fondazione Dominato Leonense, dall’editore Sironi, senza che siano state apportate modifiche, così com’è nell’ultima versione dattiloscritta e letta da Luisito Bianchi, purtroppo scomparso agli inizi dello scorso anno.

Dall’autore di quel capolavoro che è La messa dell’uomo disarmato non mi sarei aspettato un’opera di così elevato valore, proprio perché i capolavori, in quanto tali, sono quasi sempre unici nella produzione letteraria di un autore.

Pertanto, dubitare, prima di aprire il libro, della sua elevata valenza mi era apparso quasi logico, addirittura scontato, perché mai e poi mai avrei pensato che un romanzo antecedente a quello stupendo sulla Resistenza potesse essere così bello, travalicando le normali attese per un testo che, dal titolo, avrebbe potuto solo far pensare alla descrizione della vita in un seminario.

Invece, per quanto l’ambientazione sia proprio in una scuola per preti, si va ben oltre il significato di una semplice vocazione, si corre incontro al dilemma che sorge nel protagonista dopo l’8 settembre del 1943 fra la fedeltà a una chiamata spirituale e l’impellente necessità di essere partecipi dell’evento storico e unico della Resistenza dalla parte di coloro che lottano per alti ideali di giustizia.

Nel personaggio principale si colgono i riflessi dell’autore, dell’esperienza maturata nel periodo, ma il romanzo non può essere considerato autobiografico (il protagonista è di fantasia, il paese natale e di residenza non è Vescovato, la vicenda stessa e la sua conclusione sono frutto di creatività), bensì il risultato di una scelta travagliata che in coerenza a essa segnerà il percorso terreno di Don Luisito Bianchi fino alla morte.

Vi può essere una giustizia divina, nel “dopo”, senza che esista anche una giustizia terrena? Un sacerdote può conciliare la dedizione spirituale, astraendosi dal mondo, come un pastore che non corre a difendere il suo gregge quando questo viene assalito dal lupo?

E così un ingresso in seminario di un ragazzino, avvenuto senza ponderazione, quasi per gioco, è l’occasione per la ricerca di un’autentica vocazione costellata da dubbi, da ripensamenti, e questo in uno dei periodi più tragici della nostra storia, quello che va dalla vigilia della seconda guerra mondiale fino alla Liberazione.

La descrizione della vita in seminario è quella di una scuola militare, dove la forma prevale sulla sostanza, ma l’ironia dell’autore tende a smussare gli spigoli, a  non rendere monotematica e arida la narrazione, con una levità encomiabile. E ai tempi bui, quali quelli della guerra, prima incombente e che poi esplode in tutta la sua drammaticità,  l’autore contrappone splendide descrizioni della natura, con pagine di autentica elevata prosa poetica. Non c’è un personaggio fuori posto e per tutti, nessuno escluso, si respira una vena di commossa simpatia.

Non mancano i turbamenti dell’età adolescenziale, che appaiono del tutto naturali come sono l’attrazione per il bianco collo delle ragazze, per i capelli, per il loro modo di parlare, non molti accenni, ma tali da non passare inosservati, pur se trattati in punta di penna.

Così, pagina dopo pagina, assistiamo alla maturazione del protagonista, al suo atroce travaglio interiore fra dedicarsi solo a Dio o imbracciare un’arma andando fra i partigiani, e come in una sinfonia, il crescendo, soprattutto finale, rende in modo splendido la tensione che corre sotto quella veste nera, fino a quando, più per reazione istintiva a un atto di violenza gratuita che per completa convinzione, prenderà la decisione, e qui la narrazione è così intensa e sublime che ho ultimato la lettura con le lacrime agli occhi.

Non aggiungo altro, perché cosa si può dire ancora di un’opera d’arte che parla di per se stessa, che scende poco a poco nell’animo e si trova un angolino, piccolo, ma strategico, accanto al cuore?  

Ci mancherà Luisito Bianchi, e a me mancherà moltissimo, ma resta il ricordo e, soprattutto, oltre a un esempio di vita basata sulla gratuità, rimarranno le pagine dei suoi libri, di cui questo è l’ultimo, ma solo in ordine di tempo, perché quanto a qualità, a contenuti e a piacevolezza non è certo inferiore a La messa dell’uomo disarmato, e per chi ha apprezzato questo capolavoro dico solo che queste due opere sono fra le poche, in ambito letterario, capaci di scuotere le coscienze infondendo tuttavia un senso di profonda serenità.

 

Luisito Bianchi è nato a Vescovato (Cremona) nel 1927, è stato ordinato sacerdote nel 1950 ed è morto nel 2012. Con Sironi ha pubblicato il capolavoro La messa dell’uomo disarmato (2002), Come un atomo sulla bilancia (2005), I miei amici. Diari (2008), Le quattro stagioni di un vecchio lunario (2010).

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog dell'11 luglio 2013


MondoBlog

 

 

Segnalazioni estive, e quindi poche, ma che dico…pochissime: