domenica 27 ottobre 2013

In mezzo scorre il fiume, di Renzo Montagnoli




In mezzo scorre il fiume

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Due file di salici, chinati sull’acqua,

canneti ondeggianti nel vento,

e in mezzo scorre lento il fiume.

Nell’ora che precede la sera,

solo il ronzio dei moscerini

s’accompagna al gracidio dei ranocchi.

Getto la rete, per il cibo della cena,

ma non c’è fretta a ritrarla.

E’ dolce lasciarsi accarezzare,

son come mani di fanciulla

gli aliti lievi della brezza

che risale dall’acqua

a ristorare i campi riarsi dal sole.

A notte le ninfe si specchieranno

alla luce di una luna prodiga

di enigmatici sorrisi.

Già dormirò, ma nel sogno

scivolerò su quest’acqua silente.

Magico incanto, tutto tace

e forte s’ode allora la voce della natura,

una melodia che solo il cuore

può ascoltare.

Ma è tempo di recuperar la rete,

di indovinare fra le maglie gocciolanti

gli argentei riflessi dei piccoli pesci.

Un ultimo sguardo prima di tornare a casa,

là dove di rosso s’accende il cielo

i voli dei gabbiani disegnano le strade

che gli dei del giorno percorrono

per andare al riposo della notte.

E così, sempre,

finché questi occhi vedranno,

fino a quando saremo figli rispettosi,

di questa madre che ci ospita per il breve tragitto

che ci condurrà alla casa del tempo infinito.

 

 

da Canti Celtici –Il Foglio, 2007

 

 

La colonna sonora, meravigliosa, è il Largo della Sinfonia dal Nuovo Mondo di Antonin Dvorak:

 


 

 

 

 

Tutti contenti, di Paolo Di Stefano




Tutti contenti

di Paolo Di Stefano

Giangiacomo Feltrinelli Editore


Narrativa romanzo

Collana Universale Economica Feltrinelli

Pagg. 324

ISBN 9788807819414

Prezzo € 8,50

 

 

 

Alla ricerca del proprio passato

 

 

Per poter vivere il presente e pensare anche a un futuro diverso è indispensabile conoscere il proprio passato, ritrovare quelle radici da cui veniamo, e in effetti l’ignorare le proprie origini, gli anni dell’infanzia e della pubertà, implica la mancata conoscenza di se stessi, conduce a una vita asfittica e senza senso.

È questo il caso di Nino Motta, tipografo milanese in pensione, coniugato, con due figli, che trascina un’esistenza del tutto insoddisfacente, una situazione che lo spinge un giorno a partire per la terra natale, la Sicilia, per ricostruire quell’infanzia di cui ha solo barlumi di conoscenza: la Fortezza, l’orfanotrofio che lo ha ospitato a lungo, padre Frasca, un sacerdote che ha fondato quest’istituzione e alcuni nomi di compagni  a cui presentarsi con uno pseudonimo e in veste di giornalista che intende scrivere un articolo appunto su la Fortezza. Il tutto con il timore che possa spalancarsi una porta su un qualche cosa che presenti anche aspetti negativi, ma vale la pena di rischiare per uno che del proprio padre ha solo il ricordo di un cappello americano appeso all’attaccapanni e della propria madre l’immagine di una donnina, avvolta in uno stretto cappotto, e che sale alla Fortezza.

Così inizia un percorso che piano piano porterà le tenebre a squarciarsi, rivelando anche aspetti spiacevoli, ma riportando alla luce un “io” che era piattamente omologato a un presente senza significati.

La conoscenza di se stesso, in un uomo di una sessantina d’anni, gli dimostrerà il vuoto di un’esistenza non vissuta e gli farà ritrovare la gioia di vivere, complice soprattutto una ragazza trentenne che si aggregherà a lui nelle ultime fasi della ricerca. Può sembrare che un amore sbocciato fra due individui con un divario di età così elevato possa sfiorare il ridicolo, ma non è così, perché se il corpo è da vecchio, lo spirito di Nino Motta è da giovane, proprio di chi si è risvegliato da un lungo sonno e per la prima volta sa che il suo giorno è appena cominciato.

Tutti contenti è scritto in modo pregevole da Paolo Di Stefano, autore che ho conosciuto e apprezzato per il recente Giallo d’Avola; le pagine non sono poche, ma scorrono veloci e si desidererebbe che non finissero mai, in un intreccio a incastri propri di un giallo, anche se giallo non è, un’ autentica lezione di stile, con tanti personaggi, ognuno con la propria personalità, alcuni dei quali indimenticabili, in una narrazione che nulla lascia al caso, sapiente nel ricreare l’atmosfera del passato, inserendola in quella del presente, enigmatica senza essere astrusa, proposta al lettore e non imposta, così che ognuno può farsi un’idea autonoma di ogni protagonista. Pur se il linguaggio è asciutto, da giornalista, Di Stefano non manca di un’attitudine poetica, che si esprime non solo con azzeccate descrizioni dei panorami siciliani, ma che in sordina, senza forzature, porta a momenti di intensa e rara commozione in un romanzo che avvince in ogni momento e che svela anche quanto immensa sia la forza dell’amore.

Leggetelo, andate insieme a Nino Motta alla ricerca del suo passato: sarà un’esperienza indimenticabile. 

 

 

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, inviato del "Corriere della Sera" è stato capo delle pagine culturali. Laureato con Cesare Segre all'Università di Pavia, ha debuttato nel giornalismo come responsabile del ‟Corriere del Ticino” di Lugano. Ha lavorato per l'Einaudi, e per il quotidiano ‟La Repubblica”. Attualmente è giornalista culturale del "Corriere della Sera".

Ha scritto, fra l’altro:

Minuti contati (Scheiwiller, Milano 1990, Premio Sinisgalli), Baci da non ripetere (Feltrinelli 1994, Premio Comisso); Azzurro troppo azzurro (Feltrinelli 1996, Premio Grinzane Cavour); Tutti contenti (Feltrinelli 2003, Superpremio Vittorini, Superpremio Flaiano, Premio Letterario Chianti), Aiutami tu (Feltrinelli 2005, SuperMondello), Nel cuore che ti cerca (Rizzoli 2008, Premio Campiello e Premio Brancati),   Per più amore (Manni Editore), La catastròfa (Sellerio 2011, Premio Volponi), Giallo d'Avola (Sellerio 2013, Premio Viareggio-Rèpaci 2013).

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 27 ottobre 2013


MondoBlog

 

 

 


 


 


 


 

sabato 12 ottobre 2013

La dimora del tempo perduto, di Renzo Montagnoli


                                                                      Foto da web

La dimora del tempo perduto

di Renzo Montagnoli

 

 

Gracchiano stanchi orologi

trascinano il tempo

con sghembe lancette

senza albe e tramonti

né notti né giorni

 

Son mura scrostate

mattoni sbrecciati

ragnatele ogni dove

nella dimora del tempo perduto

 

Lì assopiti,

inermi e sconfitti,

stanno quei sogni

che fulgidi e gioiosi

sono pian piano intristiti

compagni di giorni di luce

sprofondati nel grigio

d’una vita oscura

e senza bagliori

 

Non son morti

sono ombre fugaci

che stan lì a ricordare

fallimenti e sconfitte

ideali spezzati

tutto quel che resta

d’un sogno più grande

di vincer la morte

lasciando dei segni

negli anni a venire.

 

Da Lungo il cammino

 

 

La colonna sonora:

 

 


 

 

Il maestro di Regalpetra, di Matteo Collura




Il maestro di Regalpetra

Vita di Leonardo Sciascia

di Matteo Collura

TEA Edizioni

Biografia

Pagg. 390

ISBN 9788878187658

Prezzo € 9,00

 

 

 

Una biografia avvincente come un romanzo

 

 

 

Quando di un autore si è letta la pressoché totalità della sua produzione viene del tutto naturale sapere quanto più possibile di lui, perché è evidente che le sue opere costituiscono, direttamente o indirettamente, un riflesso della sua vita. Se poi questo scrittore si chiama Leonardo Sciascia, la curiosità si accentua, perché in fin dei conti il suo essere borghese e intellettuale a tutto campo, la sua maniacale ricerca della verità  e la preveggenza dimostrata in tanti suoi lavori sono dati che connotano un artista di elevato valore riscontrabile in ogni suo libro. L’ideale sarebbe poterlo conoscere direttamente, instaurare con lui un’assidua frequentazione, ma ciò non è quasi mai possibile, e a maggior ragione per Sciascia, da tempo scomparso. Certo, dall’attenta lettura delle sue opere è possibile ritrarre un’immagine di lui, almeno per quanto concerne un suo essere intellettuale del tutto libero e indipendente, impegnato con i suoi lavori e anche direttamente, come testimoniato dal breve periodo di consigliere comunale di Palermo e di quello più ampio come deputato eletto nelle liste del Partito Radicale. Personalmente ho cominciato a interessarmi di questo grande letterato dopo la visione del film Il giorno della civetta, tratto dall’omonimo romanzo. Pagina dopo pagina delle sue opere di narrativa e saggistica si è formata in me un’immagine di Sciascia che tuttavia mancava di un riscontro autorevole ed è perciò con estremo interesse che ho preso in mano Il maestro di Regalpetra, sottotitolato Vita di Leonardo Sciascia, una corposa biografia scritta da Matteo Collura. Trattasi di una lettura che presuppone la conoscenza di almeno quelli che sono i maggiori libri del narratore di Racalmuto (Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo Modo, L’affaire Moro e Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia), tutte opere che, per i più diversi motivi, evidenziano la specificità della produzione letteraria di Leonardo Sciascia. E’ evidente che sarebbe meglio aver letto anche i suoi saggi storici, tutti, nessuno escluso, di estremo interesse, ma per poter comprendere il valore di questo artista sono dell’opinione che i libri che ho citato prima possano essere sufficienti.

Matteo Collura mi ha stupito, poiché, abituato a lunghe biografie, sovente grevi e riportanti fatti ed eventi che poco hanno a che fare con la produzione letteraria di un autore, è riuscito nella difficilissima impresa di fornirci un ritratto vivo, anzi direi vitale, di Leonardo Sciascia, riportando tutto quanto – e solo quello – il necessario per avere una completa cognizione di un’esistenza, tutto sommato normale, ma non avulsa da un impegno costante teso alla ricerca della verità.

E se questo libro inizia con lo scrittore, appena morto, ricomposto nel suo letto d’agonia, il che potrebbe far temere una narrazione al passato, invece con questa introduzione si delinea subito il carattere del defunto e nelle pagine successive – e sono molte – lo spazio è dedicato a una figura che già dall’infanzia dimostrava una spiccata propensione per le lettere, pur in un contesto di arretratezza economica, ma non certo culturale. Collura prende per mano Sciascia, quasi fosse presente con lui, e così la biografia diventa avvincente come un romanzo di grande qualità. Sono pagine e pagine di vicende, di riflessioni, spesso sconosciute, con frequenti ricorsi a incisi tratti dalle opere (soprattutto quelle che ho prima citato) in correlazione con i comportamenti civili tenuti da Leonardo Sciascia. Sembra di vederlo, in quella che può essere definita una battaglia, intento a sostenere l’esistenza della mafia, quando ufficialmente la si negava, a indicare in modo inequivocabile la collusione fra questa criminalità e la politica, in particolar modo con la Democrazia Cristiana, vista come un partito di grassatori e corrotti, a richiamare ancora una volta l’attenzione sugli intrecci  subdoli e delittuosi che sono alla base del sequestro e del successivo omicidio di Aldo Moro, il segretario di quel partito da lui tanto avversato, ma che ora vittima di qualcosa di potentemente tenebroso gli fa insorgere un senso di autentica pietà. Non è tenero nemmeno con i comunisti, quel partito con cui si realizzerà uno scellerato compromesso storico con i democristiani, compromesso con il potere di turno a cui sarà sempre disponibile, come confermato anche dall’attuale governo, un intreccio fra maggioranza e opposizione che viene a saldarsi in un'unica negativa figura, giacché sarà il segno di una sottomissione volta a beneficiare delle opportunità offerte da una reggenza corrotta e avulsa dalle esigenze dei cittadini.

È possibile inoltre scoprire la religiosità di Sciascia, uno Sciascia notoriamente razionale e seguace degli illuministi, ma che, pur tuttavia, ha un modo suo di credere, di avere un sentore di qualche cosa che regge il mondo come la sua vita. Se sorprende il funerale con rito religioso, vista una sua quasi continua avversione per la Chiesa (ma nei suoi scritti ha parlato anche di ecclesiastici stimabili e meritevoli della massima considerazione), vi è da dire che il tutto rientra in una tipica visione borghese, volta a non allontanarsi in modo drastico dalle consuetudini, più per un riguardo nei confronti dei parenti che rimangono, che per l’effettiva convinzione che un rito religioso debba suggellare la traslazione di una salma da un luogo a un altro, dalla propria casa al camposanto.

Quanto allo Sciascia scrittore emergono le sue caratteristiche peculiari, quali la limpidezza della sua scrittura, la grande capacità di non fermarsi all’apparenza, alla versione ufficiale dei fatti, anzi di diffidarne sempre, la sua analisi attenta e perspicace degli eventi, da cui trarre anche vaticini, preveggenze che poi ebbero sempre puntuale riscontro. Ma questi sono elementi che già ben conoscevo e che hanno trovato puntuale e circostanziato riscontro in questa attenta e ben strutturata biografia. 

Si comprende, quindi, perché Leonardo Sciascia sia unico e sia grande, ma grande lo è anche Matteo Collura, con una prosa non enfatica, e nemmeno scarna, con quel che si potrebbe definire il giusto per appassionare il lettore senza frastornarlo e senza stancarlo.

Mi sembra superfluo il mio consiglio di leggere questa biografia, la cui importanza e le cui qualità trovano rari riscontri in campo letterario, tanto sono elevate da poter quasi parlare di un vero e proprio capolavoro.         

 

 

Matteo Collura è nato ad Agrigento nel 1945. Autore del bestseller Sicilia sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale del romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il Corriere della Sera e vive a Milano.

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 12 ottobre 2013


MondoBlog

 

 

 


 


 

domenica 6 ottobre 2013

In una calda sera d'estate, di Renzo Montagnoli


                                                                    Foto da web


In una calda sera d’estate

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Al ritorno dal lavoro, oggi più faticoso del solito, perché è lunedì ed è sempre così l’inizio di ogni settimana, dopo il riposo del sabato e della domenica, ho trovato sull’autobus Graziano, un vecchio amico, vecchio perché ci conosciamo ormai da molti anni e vecchio anche perché è in quell’età in cui nulla più si attende, se non la fine del proprio ciclo.

Dopo le inevitabili domande e risposte sulla salute e sugli eventi che nel frattempo sono accaduti (non lo vedevo da quasi sei mesi), lui si è fatto serio, fissandomi negli occhi.

- Ieri sera sono venuto in paese per la festa del patrono, ma tutto quel rumore, quelle luci, quei suoni che quando ero giovane mi incantavano, mi disturbavano e allora sono andato a trovare il Guercio.

- Come sta?

- Non è messo bene, il cuore, l’età ormai sono diventati un peso insopportabile; respirava a fatica, eppure ha gridato il mio nome, vedendomi, e si è anche commosso. La nostra è un’amicizia che, anche per motivi anagrafici, è ben più lunga della tua con me e con lui. Abbiamo parlato un po’ del tempo andato, con quel rimpianto che è proprio dei vecchi, abbiamo anche fatto i nomi dei comuni amici, di chi ci è ancora, e sono pochi, e di chi non c’è più, cioè quasi tutti.

Mi chiedeva di Tizio e di Caio, e mi ascoltava, rattristandosi quando apprendeva che qualcuno ci aveva lasciato. La lista non era poi così lunga e l’ultimo nome era il tuo. Gli tremava la voce, quando lo ha fatto, perché è da tanto che non ti vede e temeva per te.   

- E tu che gli hai detto?

- Gli ho detto che, per quanto ne sapevo, soprattutto da altri perché anche noi due è da un po’ che non ci vediamo, che la tua vita procede tranquilla: casa e lavoro, lavoro e casa.

Sembrava rincuorato, ma al momento di accomiatarmi mi ha preso il braccio e mi ha quasi pregato di dirti, qualora ti avessi incontrato, che ti pensa sempre e che sarebbe lieto di una tua visita.

- Povero Guercio, l’ho un po’ trascurato e mi dispiace.

- Vacci, ma alla svelta, perché ho il timore che ne abbia per poco.

- Ci andrò, anzi ci vado questa sera stessa, dopo cena.

 

 

Anche se è sera inoltrata fa un caldo terribile, con un’umidità che toglie il respiro, ma ho promesso e vado. Finita la festa, il paese è ridiventato silenzioso e, se non fosse per la luce che trapela dalle imposte delle case, si direbbe disabitato.

Non c’è un’anima in giro e anche il bar appare desolato, con un paio di vecchi seduti fuori a contar le stelle.

Il tragitto è breve, ma sono in un bagno di sudore quando suono il campanello.

- Avanti, è aperto.

Ed è la sua voce, non stentorea come un tempo, fioca come un lume che si spegne, lenta come la poca corrente di un fiume quasi in secca.

Entro e la camera è in penombra, illuminata solo da una lampada da tavolo, quella a due braccia che sta vicino alla poltrona, su cui il Guercio è sempre seduto unicamente per leggere.

Lo scorgo, ma non ha né un libro, né un giornale in mano, è un’ombra dai contorni quasi vaghi, ritratto di un vecchio non in buona salute.

- Ciao, Guercio. Scusa se non mi sono fatto vivo prima.

Il viso quasi non si nota con quella poca luce, ma mi pare di vedere un guizzo nell’unico occhio, un lampo, un riattaccamento improvviso alla vita.

- Amico mio, che tu sia il benvenuto.

La voce trema, ma è più forte.

- Non devi scusarti, perché so, per esperienza, cosa vuol dire lavorare e poi dedicare il poco tempo libero alla famiglia, ed è giusto che la moglie venga prima degli amici.

- Ho incontrato Graziano e mi ha detto…

- Sì, l’ho visto ieri sera, e allora l’ho pregato di portarti un’ambasceria. Ora sei qua ed è quel che conta. Siediti, dai, che parliamo un po’. Ho da dirti ancora tante cose prima che…

- Prima che?

- Prima che quest’unico occhio si chiuda per sempre.

- Non pensare a questo.

- Ci penso invece, perché alla mia età e nelle mie condizioni di salute è inevitabile scorgere il buio che si avvicina.

- Di che vogliamo parlare?

- Se mi permetti, parlerò soprattutto io, ma ti chiedo una cortesia.

- Di non interromperti?

- No, ma di trascrivere un giorno queste parole, queste riflessioni, utili per te e probabilmente anche per altri.

- Stai tranquillo, che sarà fatto.

Si sistema meglio sulla poltrona, beve un goccio d’acqua dal bicchiere che è accanto alla lampada e si schiarisce la gola.

 

- Ti ho sempre parlato del passato e lo farò anche questa sera. In fin dei conti si tratta di fatti e di personaggi che non hai potuto conoscere e che invece meritano di essere ricordati, non solo a te, ma anche alle future generazioni. Vedi, io non ho mai creduto che esistano uomini solo buoni e uomini solo cattivi. In noi ci sono entrambe, cattiveria e bontà, e per quanto non si possa negare una certa predisposizione per l’una o per l’altra, resta il fatto che sta a noi la scelta, così che a volte ci comportiamo bene e altre invece male. Perché ti dico questo? Perché sto per raccontarti una storia di tanto tempo fa, ma tanto che tu non eri ancora nato. Me ne sono ricordato domenica quando è venuto Graziano, perché lui ne è stato partecipe e me l’ha raccontata. Ti ripeterò quindi le sue parole, ma prima occorre una breve premessa.

Si fermò un attimo e bevve un sorso d’acqua.

- Prima della guerra, la seconda guerra mondiale, vicino al paese abitava un uomo molto ricco, grande proprietario terriero, un tipo collerico, tirchio, ma soprattutto avido, volto a impossessarsi di più roba possibile, non con la forza, ma con i suoi capitali. Giosué Menghini, si chiamava, ma da tutti soprannominato Tallero proprio per quella sua mania di accumulare ricchezza. Figlio di benestanti, grazie anche alla sua adesione fin dagli inizi al fascismo, in breve diventò un’autentica potenza. Scorbutico, violento anche con i suoi fittavoli, a cui imputava di rubargli il pane, era insomma un tipaccio, un essere dal cuore duro, un malvagio come veniva classificato. Di lui ho un ricordo che mi porto dietro, perché un giorno mi sorprese a rubare qualche pera da un suo frutteto e, anziché rimproverami, magari dandomi uno scapaccione (all’epoca avevo dodici anni), mi sparò una fucilata; sparò in basso, ma la rosa dei pallini fu tale che alcuni mi penetrarono nella natica e nella gamba destra. All’ospedale, dove fui portato per essere operato, vollero sapere com’era successo e lo denunciarono. Poiché era una fascista della prima ora e peraltro assai in vista tutto finì in una bolla di sapone e anzi fui io a essere minacciato dai carabinieri di essere rinchiuso in riformatorio.

Da allora lo evitai, disinteressandomi, ma non poteva essere così per Graziano, perché i suoi erano fittavoli di un fondo in cui Menghini aveva anche la villa di proprietà.

Ho finito la premessa e vengo alla narrazione fattami da Graziano.

Tallero era sposato, infelicemente, anche perché la moglie lo cornificava; l’unica sua gioia era il figlio, colui che avrebbe perpetuato il suo nome. Non che con il pargolo fosse molto affettuoso, anzi lo allevava con durezza, come a prepararlo più che a una vita a una battaglia. Poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale la moglie morì di tisi e il legame con il figlio si rafforzò ulteriormente; il giovane partì volontario e di ciò il padre fu orgoglioso, ma durante una delle prima battaglie in Africa Settentrionale rimase ucciso.

Menghini cambiò radicalmente, nel senso che finì con il disinteressarsi della vita, sempre cupo, silenzioso, lo sguardo assorto a chissà quali pensieri. Distrusse le numerose fotografie del duce che teneva in casa, la divisa nera da fascista fu bruciata e si separò di fatto dalla realtà, come se intorno a lui ci fosse solo il deserto e non gente che soffriva per una guerra scellerata e ingiusta.

Graziano, che allora era poco più di un ragazzo, notò questo cambiamento e ne provò compassione, mentre altri inevitabilmente ne gioirono per le male parole a suo tempo ricevute e che avevano aperto ferite apparentemente insanabili. 

La guerra continuava e continuò ancor più violenta dopo l’8 settembre 1943.

I tedeschi, con i loro sodali repubblichini, spadroneggiavano, sempre pronti a gesti violenti per sfogare il livore derivante dalla consapevolezza della prossima inevitabile sconfitta.

Accadde così che un giorno una pattuglia della Wermacht rinvenne nel fondo di Menghini il cadavere di un milite tedesco, ucciso a bruciapelo con una fucilata. Il corpo era a circa duecento metri dalla casa padronale, intorno alla quale sorgevano le abitazioni dei fittavoli e dei salariati.

Quello che comandava la pattuglia, con ineffabile logica teutonica, pensò subito che se il colpevole o i colpevoli non si trovavano in quelle case, però qualcosa dovevano sapere e che, non avendolo riferito alle autorità, erano da ritenersi in ogni caso colpevoli.

Vigeva allora quell’assurda rappresaglia che prevedeva per ogni tedesco ucciso l’eliminazione di dieci italiani, anche scelti a caso.

Si precipitarono, quindi, alla casa padronale e radunarono sull’aia dieci maschi, fra i quali Graziano. Le intenzioni erano evidenti, tanto che si andava già formando il plotone di esecuzione, quando arrivò sul suo calesse Menghini.

- Che succede?

Il tenente tedesco, che sapeva un po’ di italiano, rispose che a duecento metri da lì era stato rinvenuto, ucciso, un loro commilitone e che quindi, non avendo trovato il colpevole, come previsto dalle ordinanze, avrebbe fucilato quei dieci italiani.

Al che il Menghini disse, con assoluta tranquillità, di essere l’esecutore di quell’assassinio.

Adesso seguimi con attenzione, perché la cosa si fa interessante.

Il tedesco non sembrava convinto, al punto che gli domandò: - - - Come avere ucciso?

Menghini, che non era di certo il colpevole, sfuggì al tranello rispondendo:

- Non ho voglia di parlarne. L’ho ucciso e basta, e quindi lasci liberi questi uomini, miei lavoranti, brava gente e di certo non in contatto con i partigiani.

- Ma perché avere ucciso, soprattutto voi che mi dicono essere buon fascista?

Menghini ebbe la risposta pronta: - Mi stava rubando le pere; gli ho detto di smetterla e lui mi ha guardato sprezzante definendomi italiano traditore; sì, italiano traditore, io che per non tradire gli altri tradisco anche me stesso, astraendomi da questa assurda guerra che mi ha tolto l’unica ragione della mia vita.

Il tenente rimase perplesso, si grattò in testa come a cercare una soluzione e poi ebbe l’idea: - Mando una staffetta dai miei superiori, per esporre il caso e agirò come loro decideranno.

- I suoi superiori? Uomini assetati di sangue, convinti di essere unici al mondo, uomini che fra poco saranno coinvolti nel crollo del Reich. Mi fate pena, perché già si legge in voi l’epitaffio che verrà scritto sulle vostre tombe: Credemmo di essere degli dei e invece eravamo polvere.

- Staffetta, hai capito? Aggiungi anche quanto ha detto questo ex fascista. E tu mettiti con gli altri!

Menghini raggiunse gli altri e si posizionò di fianco a Graziano, chiedendogli subito: - E’ stato uno di voi?

- Macché, manco sapevamo che a duecento metri da qui c’era un tedesco morto. Ma allora non siete stato neppure voi?

Menghini rimase in silenzio per un paio di minuti, come a pensare a qualche cosa di lontano, poi sussurrò: - No, non sono stato io.

- Ma allora perché prendersi la colpa e avere così morte sicura?

- Dopo di me, che non ho eredi, ci sarà così ancora qualcuno che starà dietro a questa terra.

- Ma non potete, non dovete…

Menghini non parlò più, sempre più assorto nei suoi pensieri.

Ritornò la staffetta, parlottò con il tenente e questi fece uscire dal gruppo tutti e dieci gli originari ostaggi, invitandoli a posizionarsi sulla grande scala esterna della casa, dietro il plotone di esecuzione.

Menghini capì, rifiutò la benda, guardò fisso davanti a sé e lì incontrò gli occhi di Graziano.

Poco prima che il tenente gridasse “Feuer”, al mio buon amico parve di vedere in quelle pupille un sorriso e comunque né odio, né paura, ma quasi una profonda serenità.

Spararono, mirarono bene e non servì il colpo di grazia.

 

- Bello, sembra quasi un romanzo, anzi sembra inventato.

- E invece non lo è e chi avrebbe mai detto che in quella scorza dura potesse annidarsi una luce di bontà. Menghini, ormai finito come uomo, ha scelto di morire da uomo, salvando altri uomini.

Ha riabilitato così tutta la sua vita e io non posso che perdonarlo per quella fucilata che mi ha sparato.

L’essere umano è un miscuglio di bene e di male e sta solo a lui scegliere l’uno o l’altro.

- E come mai di questo eroico comportamento non si sa nulla, non viene commemorato?

- Graziano e i suoi, finita la guerra, riferirono il fatto alle autorità, ma non sortì nulla, perché le parti in causa avevano tutto l’interesse a tacere: i partigiani, perché Menghini non era uno di loro, i fascisti perché non era più un fascista.

- I soliti interessi di parte…

 -Beh, si è fatto tardi e ti lascio tornare a casa. Verrai anche domani sera?

- Spero.

- Buona notte.

- Altrettanto.

 

Esco rinfrancato, con un po’ di quella serenità provata da Menghini nel momento supremo, e nemmeno sento più così tanto il caldo; solo le zanzare, implacabili,  mi perseguitano fino a casa.

 

Da Storie di paese

 

 

 

 

 

Mai visti sole e luna, di Ferdinando Camon


 
 
Mai visti sole e luna

di Ferdinando Camon

Postfazione di Giorgio Bàrberi Squarotti

Garzanti Libri

Narrativa romanzo

Collana Gli elefanti Narrativa

Pagg. 149

ISBN 9788811668534

Prezzo € 7,23

 

 

Mai dimenticare!

 

 

 

Devo ammettere che la lettura dei libri di Ferdinando Camon riserva sempre grandi sorprese, e non solo per quanto concerne il tema trattato, ma anche per come esso viene esposto. Su quest’ultimo aspetto ritornerò in argomento approfonditamente più avanti, perché credo che ben più importanti siano i contenuti, tali da scuotere una naturale indolenza estiva che mi porta a cercare prose facili e meno impegnative. No, con Mai visti sole e luna, è d’obbligo leggere soffermandomi su svariati punti, lasciandomi trascinare dalle apparenti digressioni di cui è infarcito il racconto e con le quali l’autore conduce per mano a scoprire i reali e autentici significati di questa sua fatica.   

Ancora una volta lo scenario è quello agreste, il mondo è quello contadino, lontano mille miglia dalle visioni idilliache delle Bucoliche di Virgilio, una terra aspra su cui spezzare le reni per trarre il necessario per il proprio sostentamento, una civiltà sempre uguale nel tempo che l’industrialismo del dopo guerra ha spazzato via. Uomini e natura, natura e uomini, quasi un’identità che non lascia scampo: si viene al mondo sulla terra, alla terra si ritorna quando si muore, in una vita già scolpita nella pietra del tempo, fatta di poche gioie e di molti dolori. È un’esistenza dura e lo è ancora di più se si aggiungono alle tante difficoltà e privazioni quotidiane una guerra (la seconda) e la feroce occupazione tedesca. È il barbaro germanico che nell’assoluta condizione di essere superiore schiaccia, tortura, uccide i contadini, visti non come uomini, ma come paria, come individui inferiori, eguali ai loro animali. Mi sale un brivido lungo la schiena nel ricordarmi di certe nefandezze raccontate nel libro: sono massacri del tutto inconcepibili che non possono trovare giustificazione e le cui vittime gridano ancora giustizia, senza essere ascoltate. Anzi, il tempo smussa, sfuma, la resistenza nelle campagne diventa un evento lontano, talmente lontano che i figli dei figli dei figli di quei protagonisti ora possono perfino chiedersi se qualche cosa c’è stato, o ancor peggio non chiedono nulla, non gli interessa, meglio ignorare il passato per vivere sradicati senza uno scopo, succubi del presente.

E pur in questa tragedia, che si rincorre di pagina in pagina, e nonostante l’esperienza dell’autore, perché l’aspetto autobiografico non è per nulla secondario, le capacità narrative sono sorprendenti, accompagnate da un velo d’ironia che nel capitolo che dà il titolo all’intera opera (Mai visti sole e luna) si trasforma nella satira dell’alfabetizzazione serale.

Però il sipario si apre ogni volta sul mondo contadino e curiosa al riguardo è la parte della contrapposizione fra campagna e città, quest’ultima fonte di tanti guai, perfino della guerra, abitata da individui incapaci di integrarsi, a differenza dei contadini, che vivono nella natura e secondo i ritmi della stessa.

Convengo però con Giorgio Bàrberi Squarotti, autore della postfazione, che giustamente scrive che leggere Mai visti sole e luna come l’opera  dell’estrema nostalgia contadina, dell’ultima elegia di una cultura scomparsa, oppure come la rinarrazione, a tanta distanza di decenni, della guerra e della resistenza e anche degli anni che seguirono la guerra, significa ridurre alquanto il significato di un’opera che porta invece in sé un messaggio di universale portata. E quale è questo messaggio? La società moderna, in cui l’apparenza vela qualsiasi realtà, in cui tutti sembrano felici senza esserlo, in cui la ricchezza è la pietra di paragone per definire qualità che non sono tali, impedisce di vedere – a differenza di una civiltà contadina in quel tempo, nuda e scarna, che non impone visioni artefatte, ma si presenta tale e quale è - la vera tragica condizione umana, immutabile da epoche immemorabili: si nasce per poi morire e si paga il prezzo della morte vivendo.

Quindi, questo libro porta diversi messaggi, anche se forse ce n’è uno che all’autore interessa in modo particolare: l’importanza della memoria. E in questo senso Ferdinando Camon ha ben presente il concetto che, senza memoria, un fatto, per quanto aberrante e tragico, è come se non fosse mai accaduto. Non è quindi un caso se nella dedica ha riportato a penna queste parole: non c’è giustizia dopo le grandi stragi. E’ vero, la storia ce lo insegna, l’armadio della vergogna non è fantasia, ogni scusa è buona per seppellire il passato, quando scomodo. E questo è un ulteriore messaggio: il perdono interessato ai carnefici, senza pietà per le vittime, è un trionfo di quell’animalità che è in noi e che puntualmente, qualora le circostanze lo richiedano, si ripresenta.

E veniamo all’esposizione, a un italiano parlato che ha il grande pregio di essere corretto, bello ed efficace anche trascritto, con periodi lunghi che non stancano, anzi incollano il lettore alla pagina, con il ricorso non infrequente, ma esatto e insostituibile, al dialetto, in un contesto generale che sembra porgere una realtà in palmo di mano.

Camon deve aver voluto molto bene alla sua gente, a questi campagnoli, spesso ottusi e in lotta perenne con una natura indomita, un mondo ormai scomparso, sostituito da un’agricoltura industriale anonima, come anonimi sono gli attuali agricoltori, così diversi da quei contadini che nella loro umiltà non si sono mai nascosti il destino di ogni uomo.

Mai visti sole e luna è un romanzo stupendo, un vero e proprio capolavoro.

 

 

 

 

 

Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente, Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).

 Il suo sito è www.ferdinandocamon.it

 

 

 

Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 6 ottobre 2013


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Attenzione: una volta tanto La lebbra non è da evitare!