giovedì 27 febbraio 2014

Cercasi lettrice appassionata, di massimolegnani

Un racconto non certo breve, anzi lungo, ma che mano mano che si procede nella lettura non solo non stanca, ma affascina ancora di più. Una vicenda tesa come un cavo d’acciaio su cui l’autore procede in perfetto equilibrio. Trovo che questo brano sia di notevole valore, uno dei migliori fra i tanti che ho letto.
Le fotografie che accompagnano il resto ritraggono La lettrice, scultura di Andrea Jori di Mantova, e di mia proprietà.



Cercasi lettrice appassionata
di massimolegnani




Siediti qui tranquilla che è una storia lunga quella che ti voglio raccontare. Non mi va che mentre parlo tu vada e venga da una stanza all’altra costringendomi a ripetere le frasi e ad alzare la voce per vincere il rumore della lavatrice. Piuttosto se hai camicie da stirare, questo sarebbe il momento. Meglio però sarebbe una poltrona comoda dove tu ti lasciassi vincere dal torpore provocato dalla mia voce un po’ cantilenante.
Ma, prima di entrare in quella specie di coma che è l’ascolto attento di un racconto, ti chiedo se hai presente Erminio  Galeazzi, quel signore magro, dall’aria fin troppo austera, che vive nella villa tardo-ottocento, in fondo al Viale delle Mimose. Sì, lo ricordi? Beh, da qualche tempo è diventato cieco, poveretto lui.
Ancora una cosa prima di procedere: di lui qualcosa ho saputo in giro, altro, i vuoti, l’ho aggiunto a fantasia, la mia. Ma tu ascolta tutto come vero, che non c’è niente di più vero di una vita immaginata.


La cecità, sai, non l’aveva colto di sorpresa.
Erminio sapeva da tempo che i suoi occhi presto l’avrebbero tradito. Ma il saperlo non lo aveva aiutato ad accettare con serenità la menomazione ormai prossima. Negli ultimi mesi lo aveva preso una smania di lettura, la frenesia di divorare quanti più libri, prima che scadesse il tempo. Una corsa assurda la sua, contro un tempo davvero maligno, che quanto più leggeva, con le pagine attaccate al naso, tanto più rapidamente la sua vista andava declinando.
Così venne presto il breve tempo delle ombre e poi quello del nulla.

Di non poter più guardare in faccia la gente poco gli importava, anzi era come se a quella stessa gente addebitasse la propria cecità. Un rancore incessante, che aveva peggiorato il suo carattere, da sempre poco malleabile. Erminio non usciva mai di casa ed era capace di stare intere giornate senza rivolgere parola nè alla moglie nè al figlio, colpevoli di troppe premure.
Passava le ore in biblioteca, infossato in una poltrona, il volto verso gli scaffali colmi di libri e le mani a tormentare il pomello d’argento del bastone da passeggio che usava per muoversi al posto della più pratica, ma più umiliante, canna bianca di plastica leggera. S’incontrava con il resto della famiglia ai pasti e, dopo cena, ascoltava con sua moglie Gloria la televisione. Una sofferenza insopportabile quelle idiozie che, a non vederle, gli risultavano ancora più indigeste. E una sera, sentendo il ronfare regolare di Gloria, si era alzato dal divano, si era avvicinato al televisore, lo aveva tastato con cura e aveva poi distrutto lo schermo con colpi ben assestati di bastone.
La moglie a quel punto comprese che l’unico aiuto che poteva dare a suo marito era starsene in disparte, con la speranza che prima o poi Erminio si sarebbe adattato alla nuova condizione. Così, con la scusa delle bronchiti ricorrenti del bambino, si trasferì per soggiorni sempre più lunghi nella loro casa di Sanremo, lasciando che su Erminio vigilasse la vecchia domestica.
Armida, la domestica, gli faceva trovare al mattino i vestiti giusti da indossare e gli preparava i pasti che poi serviva nel silenzio. Per il resto della giornata era un’ombra con le pantofole di feltro.
Erminio passeggiava per le stanze vuote, si avvicinava alle finestre a sentire il tepore del sole, spalancava qualche vetro a cogliere i rumori della strada, ma soprattutto si rintanava in biblioteca. Prendeva un libro, lo accarezzava lungo il dorso, ma non sempre era in grado di riconoscerlo. Allora chiamava a gran voce Armida e si faceva dire il titolo. Quindi si sedeva in poltrona, sfogliando le pagine, come leggesse. Cercava di rivivere a memoria l’emozione, ma la memoria non bastava a ripercorrere le parole esatte, una dopo l’altra.
I libri stavano diventando uno struggimento quotidiano. Doveva fare qualcosa, trovare una soluzione, che non fosse quella più logica di staccarsi dal suo mondo di carta.

L’annuncio comparve simultaneamente sui principali quotidiani nazionali e su due testate locali.
“Cercasi lettrice appassionata”.
Quella breve frase, studiata con cura, finì col riempirgli le giornate.
Avevano risposto in molte, ma poche superarono il primo contatto telefonico. Voci squillanti o troppo roche, un parlare sciatto o troppo rotondo, cadenze dialettali e dizioni troppo impostate, furono tutte scartate inesorabilmente. Alla fine selezionò una decina di candidate da incontrare di persona. Non più di un colloquio al giorno.
Con tutte seguì lo schema che si era prefissato: una stretta di mano, pochi convenevoli e subito l’ammissione della propria cecità, del resto evidente, per studiare la reazione delle donne. Poi prendeva un libro, già pronto sul tavolino, ed invitava la candidata a leggerne un paragrafo.
Alcune le fermò dopo poche righe e con una che leggeva con voce sensuale come se gli si stesse strusciando addosso, sbottò:
- Ma che cosa ha capito? Lettrice appassionata vuol dire appassionata della lettura, non che mostri una passione da zoccola nei miei confronti! E poi lei legge da cani.

Poche poterono arrivare al fondo del paragrafo e solo con Iris il colloquio si protrasse più di quanto Erminio avesse programmato.
Una mano grassoccia, una voce pacata, una risposta spiazzante a quel “io sono cieco”:
- Non si perde molto.
- So benissimo cosa mi perdo. Fino a un anno fa ci vedevo perfettamente.
- Mi riferivo al nostro colloquio. Non si perde molto a non vedermi.
- Ma lei non è qui per farsi vedere, ma per farsi ascoltare.
- Appunto.
- Perché ha risposto al mio annuncio?
- Ho bisogno di lavorare e la lettura è il mio unico passatempo. Ho pensato che fosse una buona occasione per conciliare l’utile al dilettevole.
- Non sarò molto dilettevole, l’avviso subito. Lei dovrà leggere con i miei occhi, assecondare il mio passo, scorrere veloce nei punti per me noiosi, rallentare fino a scandire le parole, dove le parole sono per me emozione. Senza che io debba intervenire a suggerire il ritmo. Lei dovrà essere me.
- Perché non ha scelto un lettore? Per un uomo sarebbe stato più semplice calarsi nei suoi panni.
- Mai preso in considerazione. E poi mio padre non mi lesse mai una fiaba.
- E sua mamma?
- Non la riguarda. Legga dove ho lasciato il segnalibro.

- “Credo di dover analizzare ancora una volta il momento in cui fui informato della sua morte.
Un mattino d’estate, il cielo pulito, giugno, gli ultimi giorni di scuola. Mi alzo in ritardo, un po’ confuso, in pieno sole. Non accendo la radio, né guardo il giornale. In un primo tempo è come se avessi perso il senso del tempo. Arrivo a scuo..”
- Ferma. Conosce questo racconto?
- No.
- Bene. Si porti il libro a casa, lo legga e domani me lo rende.
- Cosa significa, sono assunta?
- No. Ma voglio riascoltarla domani. C’è qualche mia sottolineatura nel testo. Forse potrà aiutarla.

Iris quella sera rilesse il racconto come una partitura, seguendo il filo originale delle parole, ma anche le note a margine e i segni a matita sotto alcune frasi.
Il mattino seguente si presentò alla villa piuttosto incerta:
- Non so se le sue note mi hanno aiutato a capire.
- È un racconto semplice.
- È vero, non è lì la difficoltà. Difficile è capire come lei lo abbia sentito e come io dovrei adattare la mia voce.
- Non se ne preoccupi. Non pretendo granchè da lei, oggi, se non l’impegno. Su, legga.
La donna riprese la lettura dall’inizio. Pagine e pagine, senza che Erminio la interrompesse o desse almeno cenno di ascoltare.
- “Riapre la scuola. E io arrivo al mattino con tutti gli altri, una borsa di libri e un pezzo di gesso, pronto per insegnare. Mi scoprì vicino alla sala-professori e chiese che ci facevo lì, che io ormai dovevo essere in pensione, ma io non gli risposi, non lo guardai nemmeno. E io intanto seguivo con gli occhi il nuovo insegnante….”
- Rallenti qui,…il nuovo insegnante, un giovane magro e pallido in volto…
- “…per poi andargli dietro. Lui entra in classe, io entro dietro di lui. Scusa, gli dico accennando un sorriso, certo ti stai sbagliando, questa non è la tua classe, e lui rimase confuso, mentre io sono già salito in cattedra. Lui balbetta delle scuse ed esce, e agli studenti stupefatti, non lasciai nemmeno la possibilità di aprire bocca.”
- Che ne dice? Da restare meravigliati.
- Di cosa? Non capisco. Non mi sembra una scena cruciale.
- Ha notato l’uso dei tempi?
- Sì, terribile: passato remoto, presente, passato prossimo, per descrivere azioni che si svolgono nello stesso momento. Un caos.
- Già. Un caos, che però rasenta la perfezione stilistica. Fa comprendere la concitazione della scena e, dato che il professore narra in prima persona, ci aiuta a capire la sua personalità disturbata, caotica. Lo rilegga, ora, mentalmente, come se io non ci fossi.
Iris rilesse il paragrafo ed è un peccato che Erminio fosse cieco perché avrebbe visto una piccola meraviglia illuminare gli occhi della lettrice.
- Sì, è vero. Una perfezione questa anarchia, ora la colgo anch’io.

Iris riprese a leggere, senza che lui glielo avesse chiesto e senza che lui la fermasse. Lesse, appassionatamente, per tre ore di fila. Divorò a voce alta le cinquanta pagine restanti, come fosse una sua urgenza arrivare al termine. Strano, il racconto l’aveva letto appena ieri, che cosa le importava? E ancora più strano, alla fine del racconto Erminio per la prima volta dopo molti mesi sorrise.
- Perchè sorride? Ho fatto qualche errore?
- No. Ho i miei buoni motivi per essere soddisfatto, mi creda. L’aspetto domani per le dieci. Arrivederci Iris.

                                            .........pausa………………

Vedo che ormai stai dando segni d’impazienza. Forse devi riprendere un lavoro lasciato a metà o devi andartene a dormire o semplicemente la lunghezza del racconto ti annoia. È che Erminio ha una storia lunga, una lunga marcia per il ritorno alla vi(s)ta. Ma ora che sai come si sono messe le cose, il resto forse lo puoi immaginare da sola. Mi verrebbe voglia di fermarmi qua, con Iris che lascia la casa soddisfatta per l’incarico ottenuto ed Erminio che già aspetta il suo ritorno. No, non riesco a fermarmi, ho voglia di raccontarti ancora. Io sono come quelli affetti dal Parkinson: se devono camminare, stentano a partire, ma poi per loro è ancora più difficile il fermarsi. Facciamo così, tu dormi ed io ti fingerò in ascolto. Tanto, non è la fantasia che mi manca.

                                                    .................

“Dire che Iris ha una bella voce è un’esagerazione; in effetti ha quella tonalità aspra che la rende quasi sgradevole. Occorre entrare in confidenza, abituarsi al suono, in certi momenti assomiglia al vetro graffiato. Solo così, con l’abitudine, ti accorgi che l’asprezza della voce non è espressione di un carattere scontroso ma è come un dito che disegna su un vetro appannato dove a volte l’unghia ha il sopravvento.”
Più o meno questi erano i pensieri di Erminio mentre ascoltava la lettrice. E fu colto da un moto di soddisfazione per non aver ceduto alla sensazione iniziale di sconforto quando aveva sentito per la prima volta la sua voce, per telefono, “Ho letto il suo annuncio. Forse sono la persona adatta a quel lavoro.” Considerando che il lavoro offerto si fondava sulla voce, sarebbe stato più logico chiudere con un laconico “non credo” e cercare un’altra candidata. Qualcosa, però, gli si era acceso in testa e lo aveva spinto a rispondere “Va bene, venga domani per un colloquio.”
E ora Erminio sorrideva ripensando a quel colloquio.
Iris interruppe la lettura:
- Melville la fa sorridere?
- No, no. Non badi a me, anzi, non mi guardi proprio. Faccia conto di essere lei la cieca. E vada avanti.
- Ma se sono cieca come faccio a leggere?
- Via, non sia stupida. Ha capito benissimo che cosa intendevo dire.
La donna riprese a leggere, ma dopo poche frasi Erminio la fermò:
- Sia gentile, Iris, si sfili le scarpe e appoggi i piedi sul pavimento, dove non c’è il tappeto.
- Mah..
- Per cortesia, faccia come le ho chiesto. Deve sentire il freddo, come fosse su quella nave.
La lettrice era rimasta qualche istante perplessa, poi mormorò un “va bene” distratto mentre cercava il punto della pagina lasciato in sospeso:
- “Se il gabbiere si fosse reso..”
Bahamm!
Il bastone da passeggio di Erminio si era abbattuto a casaccio sul tavolino, mandando in frantumi una teiera.
- Non tollero di essere imbrogliato. Avrebbe potuto opporsi, addurre una scusa qualunque, i piedi non lavati, le calze smagliate, che d’altronde non avrei potuto vedere. Invece mi ha detto “va bene”, convinta che un cieco si potesse ingannare come un bambino. Ma ciechi e bambini si accorgono di tutto, solo che di solito tacciono. Io no.
- Mi scusi, non volevo offenderla. È che mi sembrava una stravaganza.
- Doveva dirmelo. Doveva dirmelo, per Dio. E in ogni caso era un tentativo di farla immedesimare in quanto stava leggendo.
- Sì, avrei dovuto dirglielo, ma..
- Lasci perdere. Vada via adesso. Se ne vada. Non ho più bisogno di lei, non ho voglia di sentirla leggere.
Erminio era seduto sulla poltrona, lo sguardo dritto avanti a sè, dove non c’era nulla da guardare. Iris osservò le narici che fremevano e capì che non era il caso di ribattere. Raccattò borsetta e giaccone e lasciò il salotto. Quando Erminio sentì scattare la porta di casa, si chinò a cercare a tentoni il bastone. Trovatolo, si risedette, di nuovo immobile. Aveva gli occhi umidi.



Tre giorni dopo la donna si ripresentò, senza essere stata chiamata. Erminio era alla solita poltrona, le mani attorno al pomo del bastone. Non si alzò per salutarla.
- Non ho voglia di libri, oggi. Ha fatto il viaggio a vuoto.
- Ho piedi orrendi. Piccoli e tozzi.
Silenzio.
- Lei non li avrebbe visti, ma io sì.
- Dunque, la cecità offre qualche vantaggio.
- Sì.- sorrise lei, rinfrancata- Glielo dissi la prima volta. Con me non si perde niente a non vedere.
- Mi perdo qualcosa quando non la sento. Ma di questo lei non deve approfittare. Non sopporto di essere vulnerabile.
Iris gli sfiorò una guancia con dita incerte.
- Non succederà più.
- Ha belle mani, tiepide.
La donna si guardò le mani, tozze e grassocce come i piedi.
- Sì.- rispose con convinzione. Poi prese un libro da uno scaffale:
- La testa perduta di Damasceno Monteiro-
E iniziò la lettura con la voce un po’ aspra, molto gradevole.

............

Stai dormendo, vero? Mi sembra di sentire il tuo respiro regolare. Eppure credo che le parole in qualche modo ti penetrino dentro, si mescolino ai sogni, si sostituiscano al sogno in corso. Un po’ di confusione forse all’inizio, qualche sovrapposizione poi Erminio ed Iris si sono imposti alla tua attenzione onirica. Così continuo a parlare, come fossi un esperto d’ipnosi, convinto che una parte di te ascolti. Che tipi strani, questi due, vero?
Pensa che di soldi avevano parlato una sola volta. Poi, stabilita la tariffa oraria e le modalità di pagamento, non erano più tornati sull’argomento. Il pagamento stesso avveniva quasi inavvertito, una busta passava silenziosa di mano e subito spariva nella borsetta, senza essere nemmeno aperta. All’inizio era pudore, poi fu il fastidio di ricordarsi ogni quindici giorni che il loro, in fondo, era un rapporto commerciale, una voce venduta e comprata per otto euro all’ora. Sembrava a entrambi, ed anche a me, che fosse uno sminuire quel loro leggere e ascoltare acceso.

................ 



Iris arrivava a metà mattina. Erminio dissimulava l’impazienza dell’attesa guardando la strada dai vetri del soggiorno. A chi non sapeva, sembrava che seguisse con lo sguardo i passanti frettolosi e fissasse con curiosità i commercianti fuori dai negozi in attesa di clienti. Ma erano sguardi di memoria, Erminio aveva occhi luminosi e spenti.
Quando la lettrice entrava, lui restava ancora qualche istante assorto alla finestra e la donna salutandolo cercava di interpretare, in quel suo finto guardare, il tono dell’umore, che non sempre era gradevole.
Poi, senza altri convenevoli, si sedevano su due poltrone poste una di fronte all’altra. Iris prendeva il libro che trovava sul tavolino, non sempre era quello interrotto il giorno prima, ed iniziava la lettura, come un film. Sì, perché la cosa straordinaria era che Erminio vedeva più che ascoltare la lettura. La vicenda gli scorreva nitida davanti agli occhi e forse per questo lentamente il suo sguardo saliva un po’ più in alto rispetto a chi aveva di fronte, come ci fosse in quel punto preciso, sospeso alla parete, il telo dello schermo.
Ma quel mattino l’uomo aveva altri progetti. Sentendo che Iris si era seduta, disse:
- No, niente lettura per ora. Stamattina usciamo.
- Non sapevo le piacesse passeggiare.
- Non mi piace, infatti. Praticamente è un anno che non esco di casa. Ma mi è venuta voglia di libri nuovi.
Iris guardò gli scaffali stipati fino al soffitto.
- E’ quasi un peccato trascurare quelli che ha già.
Erminio sorrise imbarazzato, come un bambino colto in fallo.
- Ho bisogno di una lettura vergine, voglio che la sua voce mi racconti qualcosa che non conosco. Devo capire.
- Capire cosa?
- Se è la sua voce a essere così comunicativa, o semplicemente io rivedo ciò che lessi e immaginai un tempo.
- Mah, dicono che non ho una bella voce.
- Hanno ragione.
- Beh, grazie.
- Ahah, che bambina sciocca, Iris. Se avessi voluto una “bella” voce, avrei cercato una hostess come lettrice, quelle voci flautate che escono dagli altoparlanti e si spandono come un gas per l’aereo, non sai da dove vengano e nemmeno gli attribuisci un corpo a quelle voci, perché poi anche quando le vedi, le hostess, hanno timbri e intonazioni tutte uguali.
- E allora cosa cercava nella voce?
- Un carattere ed un corpo, la consistenza da vedere.
- Pensare che io sono felice di questo lavoro proprio perché lei non mi vede. Con lei non ho bisogno di proteggere il mio corpo da sguardi di riprovazione per la scarsa avvenenza, se vogliamo usare un eufemismo.
- Stiamo dicendo la stessa cosa. Io ho il privilegio di vedere oltre, vedo il corpo dell’anima, attraverso la sua voce. E presto anche lei si abituerà a non vedere più il suo corpo come l’ha visto finora. Ma adesso basta, andiamo.
Con un gesto elegante Erminio lanciò il bastone sul divano e prese Iris sottobraccio.
In libreria adottarono un metodo veloce, Iris pescava un libro attratta dalla copertina o dal nome dell’autore, leggeva una frase a caso ed Erminio dava il suo assenso o bocciava l’acquisto. Tornarono a casa carichi di libri e con una strana eccitazione addosso.
- Accidenti, è già mezzogiorno. Non so resistere fino a domani senza ascoltare almeno un brano tra i nuovi acquisti. La posso invitare a pranzo così poi legge per un’oretta?
- No, grazie, mi lasci andare a casa. Le prometto che stasera la vengo a trovare.

Erminio passò un brutto pomeriggio. Si accorse quanto fosse cieco. Passava e ripassava con le dita i contorni dei nuovi libri senza capire se avesse tra le mani Tabucchi, Simenon o un altro ancora. Non aveva riferimenti, mentre con i “suoi” libri gli bastava lo spessore, o la consistenza della pagina piuttosto che i fregi della copertina, in rilievo sotto i polpastrelli, per comprendere di chi si trattasse. Ora dipendeva da Iris, come un cieco.
Iris arrivò col buio. Era la prima volta. Le venne ad aprire Erminio, anche questa una novità. La casa era avvolta nell’oscurità. La donna ebbe un sorriso comprensivo e mentre salutava cercò a tentoni l’interruttore della luce. Erminio sentì il click e capì:
- Che sbadato, le chiedo scusa. È Armida, la mia governante, che di solito provvede ad accendere le luci, ma stasera è fuori. Io naturalmente a queste cose non faccio molto caso.
- Potessi leggere al buio, non avrei acceso la luce. E saremmo stati pari.
- Potessi leggere al buio, il mio buio, non saremmo pari. Non saremmo proprio. Lei nascosta nella sua tana ed io qui a divorare libri in solitudine. Sconosciuti uno all’altra.
- Via signor Erminio, non facciamo discorsi malinconici. Siamo qui e abbiamo i libri nuovi che ci aspettano.
- Sì, ma non mi chiami “signore”, mi fa sentire ancora più lontano.
- Lontano da dove?
- Lontano.- e fece un gesto vago con la mano, mentre si avviavano alle poltrone. Iris lo prese sottobraccio, senza dare l’impressione di volerlo guidare.
- Quando acquisto dei libri, ho, avevo, l’abitudine, la prima sera, di assaggiarli tutti, un brano di uno, un pezzo di un altro, così, per pura golosità, senza la pretesa di voler già capire trama e personaggi.
- Nulla ci vieta di fare altrettanto questa sera. Leggerò dei brani a caso, senza dirle l’autore e il titolo.
- Va bene, incominci.
- Mi scusi, manca la bottiglia d’acqua. Posso andare in cucina a prenderla?
- No, ci penso io.
Erminio si avviò verso la cucina quasi baldanzoso, senza bastone, ma impiegò un tempo infinito. Iris lo sentì aprire e chiudere le ante, inciampare nelle sedie, tastare gli oggetti, rinunciare e poi provare con un altro stipo, ma non si alzò ad aiutarlo. Quando tornò aveva il volto teso e soddisfatto di chi è riuscito in una piccola impresa.
- Armida mi vizia troppo, con il risultato che quando non c’è io sono perso.
Ora non trovava il tavolino su cui appoggiare la bottiglia.
- Dia a me, per favore. Ho sete, ne bevo subito un bicchiere.
Erminio si girò verso la voce e attese che le mani grassocce della donna afferrassero i due oggetti.
- Lei ha la rara dote della discrezione ed io della gratitudine silenziosa.
Iris non rispose. Avrebbe contraddetto il complimento appena ricevuto e avrebbe costretto lui a ringraziarla apertamente per quei piccoli aiuti inapparenti.
Un breve silenzio solidale, poi ebbe inizio la lettura.
- “Un negro minuto dai denti guasti pronunciava velocemente una trentina di parole. Nel momento in cui le pagaie erano tutte sollevate, taceva di colpo ed era come se la vita della piroga si arrestasse: neppure una vibrazione. Poi mentre le pagaie s’immergevano due volte nell’acqua, dodici voci rispondevano al recitante, modulando un’aria vigorosa.”
Iris sollevò gli occhi dalla pagina e scrutò il volto che aveva di fronte: lo sguardo fermo, gli occhi inutilmente aperti, le guance magre e quei baffi curati. Chi gli curava i baffi, ora? La vecchia Armida? O quella moglie che lei non aveva mai incontrato, ma che da qualche parte doveva esistere? Improbabile che una donna così assente si prendesse cura di quel dettaglio. Che venisse un barbiere? Iris si cullò in quel piccolo mistero. E poi quei baffi neri, folti e ben tagliati, erano davvero belli.
- Non si fermi ora. Sto vedendo la piroga che scatta in avanti. Forza ne legga un altro pezzo.
- Ha capito chi è l’autore?
- Via, non mi tratti come un deficiente. Non stiamo facendo gli indovinelli. Non mi interessa chi sia, mi sforzo di non capire chi sia. Conrad piuttosto che Kapushinsky, in questo momento non cambierebbe nulla. Per ora voglio ascoltare la scrittura, voglio vedere la lettura. Vada avanti, la prego.
- “E di nuovo il primo negro attaccava in falsetto. Il ritmo corrispondeva esattamente a due colpi di pagaia. C’era sempre la stessa battuta d’arresto, e poi la stessa foga nella ripresa del coro....Era forse la cinquecentesima volta che quell’esercizio si ripeteva, eTimar, il collo teso e gli occhi strizzati, aspettava il momento in cui il solista avrebbe salmodiato per tentare di distinguere le sillabe: il negro pronunciava sempre le stesse parole, ne cambiava al massimo un paio. Recitava con distacco, ma sul viso dei suoi compagni passavano espressioni diverse a seconda delle strofe. Ridevano, manifestavano stupore, sorridevano, o si commuovevano. Ed ogni volta, nel momento esatto in cui le dodici pagaie erano sospese in aria, le dodici voci prorompevano con veemenza. A un tra...”
- Fermiamoci qui. Non potevamo iniziare la serata in modo migliore. Ho visto le schiene lucide, ho sentito il canto incomprensibile che dà il ritmo alla voga. Stupendo. Ma, possibile che lei abbia aperto il libro a caso? O forse lei..?
- Beh, io, - Iris arrossì vistosamente, ma nessuno potè vederla- io avevo già letto questo romanzo e ho pensato che questa pagina lei l’avrebbe apprezzata.
- Sì. Ma ora prenda un altro libro.
Iris sfogliò le pagine di un libricino in edizione economica e questa volta lesse davvero a caso.
- “Quando trovai la fogna fui felice, ma non potei sorridere. Il rischio di troppi giorni mi aveva indurito i nervi. Con il piccone aprii una breccia sulla parte superiore del collettore che avevo raggiunto e respirai quel tanfo come un profumo di vittoria. Non ero impazzito, ero in salvo. Da molti giorni era iniziato lo scavo.... Là sotto, a una profondità che ignoravamo avremmo trovato la fogna. Cominciammo in molti, poi, quando lo scavo divenne più profondo di un uomo in piedi, restammo solo in due. Era largo un metro, il minimo per rigirarsi, e alla fine era profondo sei..... Scavammo in due in quella fossa stretta per diversi giorni, ognuno dei quali era più buio del precedente. Entravamo all’alba, uscivamo, salvo la pausa di mezzogiorno, alle cinque. Anche chi non è del mestiere sa che una fossa del genere va rinforzata alle pareti, altrimenti è possibile che crolli. Il capomastro non volle provvedere. Perciò scavammo in due, faccia a faccia, sapendo in che trappola fossimo finiti. Chi eravamo? Perchè accettavamo quel rischio? Uno era un algerino di quarant’anni, l’ultimo assunto del cantiere e non poteva rifiutarsi, lo sapeva..... L’altro ero io, trentaduenne manovale italiano, assunto da mesi e mal tollerato dal capomastro francese..... Non ero elastico, anzi ero piuttosto rigido, indurito nei muscoli e nel sonno. Mi venivano perciò assegnati volentieri i lavori più faticosi e sporchi. Ero l’unico di pelle bianca a farli... Ecco perchè in quei giorni due uomini che non si conoscevano stettero faccia a faccia in una fossa, rischiando la pelle in cerca di una fogna. Ogni metro di quel buco stringeva il cielo a una striscia larga quanto il cunicolo in cui stavamo. Ogni metro di quel buco poteva crollarci addosso e tenerci sotto il tempo utile a essere sepolti vivi.”
Alzando gli occhi in una pausa, Iris vide che il volto di Erminio s’era fatto terreo.
- Non si sente bene?
- È una specie di claustrofobia. A volte sento che il mio buio si fa stretto, ne sento le pareti che mi premono addosso come terra che smotta, rischia di schiacciarmi, esattamente come questi due operai.
Erminio, mentre parlava, gesticolava con la mano ad indicare il buio minaccioso. Poteva sembrare ridicolo quest’uomo terrorizzato che indica l’aria piena di luce chiamandola buio. Ma Iris vide anche lei l’oscurità soffocante e arrivò a sfiorargli la mano che stringeva il pomo d’argento del bastone.
- Deve fare come il nostro manovale, puntellare le pareti.
- È quello che faccio: tocco gli oggetti vicini, i braccioli della poltrona, mi chino al pavimento o vado fino a una parete, cerco di dare dimensione allo spazio, lo allargo e lo puntello.
Strinse la mano che lo sfiorava, sentì le dita tozze, il palmo sudato, il dorso troppo paffuto, eppure percepì una mano dolce.
- E stasera è la sua bellissima mano che mi tira fuori dalla buca.
Se la portò alle labbra e la donna provò un brivido ad essere sfiorata dai baffi ispidi. Avrebbe voluto dirgli che lei non aveva belle mani, come non aveva un bel viso nè un bel corpo, ma non ci riuscì.
Di nuovo il bel silenzio.
Poi Erminio la invitò a un’altra lettura.
- Si sta facendo molto tardi, Erminio.
- La prego, non se ne vada ora. Legga ancora.
Iris non aveva avuto figli e poche occasioni per averne, ma sicuramente un bambino, un figlio, avrebbe usato lo stesso tono, tra l’implorante e l’imperioso, la sera quando lei alla sponda del letto accennava a richiudere il libro. Solo che le avrebbe dato del tu, suo figlio, leggi ancora, avrebbe protestato. Ma quel loro “lei” stava diventando così familiare, così intimo, che non vi avrebbe rinunciato. Sorrise e prese un altro libro.
- “Se solo lasciassimo la polvere posarsi, come un rispetto, sulle cose del non uso, una dimenticanza a formarsi lenta come una memoria, la cenere a Pompei, se solo lasciassimo la parvenza delle orme al pavimento come fosse neve che ci dice i movimenti della notte scorsa, la danza delle lepri nell'amore e la caccia disperata della volpe, se solo...”
Erminio si era alzato e a passi lenti era andato dietro la poltroncina di Iris. Lei non lo vedeva più, ma sentiva la sua presenza. Una mano le scivolò sul collo.
- Non si spaventi. Continui a leggere, per favore. Vorrei sentire le vibrazioni della sua voce.
- “..se solo lasciassimo le impronte alle maniglie di porte aperte agli altri e alle finestre da cui uscire..”
Non era facile leggere con quelle dita di seta alla gola, la sfioravano appena, ma lei si sentiva soffocare. Dita sensibili che sapevano riconoscere ogni suono che emetteva, oh, la sua voce così poco gradevole, niente velluti, una stoffa grezza, ordinaria, eppure a lui piaceva.
- “ se solo rispettassimo le forme dei corpi sui cuscini del divano, qui c’era tua madre, questa è stata la sua schiena, se solo lasciassimo le briciole sul tavolo..”
Le dita lentissime andavano leggere dal mento alla gola, un soffio, un’increspatura. Ogni tanto provavano a scendere più in basso fino alla camicetta chiusa e poi lievi risalivano a sfiorar la pelle e a far morire Iris.
- “..come parole appena smozzicate e ancora buone a dire, forse non mi spaventerebbe lo scricchiolio del collo quando ti guardo e non proverei l’orrore sordo del futuro.”
Erminio si chinò a baciarla sull’ultima parola. Appena un solletico dei baffi sulle labbra socchiuse. “Incantevole” le bisbigliò, poi tornò a sedersi.
- Si sta facendo sempre più tardi.- disse la lettrice con un filo di voce.
- E non è magnifico?
Una pausa interminabile, un turbinio di pensieri, poi finalmente Iris rispose:
- Sì, è magnifico.
E senza che le venisse chiesto, prese in mano l’ultimo libro rimasto.

Stavano viaggiando nella notte, intorpiditi e attenti. Aveva ragione Erminio, era magnifico, la notte non era come il giorno. I paesaggi scorrevano veloci, vividi, i volti precisi, le atmosfere luminose. Avevano attraversato l’Africa in piroga, erano stati in Francia, dentro la terra umida, pericolosa come il buio, e infine nella casa polverosa di un luogo senza nome, che lei aveva pensato Italia.
Ora li attendeva un’altra tappa, ma non si decidevano a partire. Iris rigirava il libro tra le mani senza aprirlo, come fosse l’ultima tanica piena di benzina, da non sprecare nèconsumare troppo in fretta.
Nemmeno Erminio sembrava avere fretta. Si trastullava col pomo d’argento del bastone e taceva.
Seduti, uno di fronte all’altra, si godevano il silenzio come una frescura della sera. Tra loro non c’era una scacchiera con le mosse da studiare, gli schemi di partita, i convenevoli precisi che arroccano in difesa e impediscono gli scambi. Tra loro c’era a malapena un mezzo metro d’aria, da riempire con le voci, se volevano, o da lasciare inalterato col silenzio, come ora.
Iris si sentì padrona del tempo. Si sarebbe mangiata l’orologino stupido che portava al polso, ma si limitò a toglierlo ed infilarlo nella borsetta. L’uomo sentì lo scatto metallico, capì da dove proveniva e si rabbuiò.
- Sta andando via? Speravo che sarebbe rimasta.
- Certo che rimango. Resterò qui finchè non mi si seccherà la gola o lei non si stancherà di sentirmi leggere.
- Non succederà. Sa, avevo sentito lo scatto della borsetta, temevo che...
- Ho ritirato l’orologio, non mi serve più. Anzi mi dà fastidio vedere le ore che girano con troppa fretta.
- Le ore della notte sono tante. Ma se dovessero finire prima del previsto, la aiuterò a fare un buio di persiane chiuse e luce spenta, simile al mio, e andremo avanti.
- Sa, Erminio, in questo momento mi pesa la mia mancata cecità. È come se fossi costretta a guardare lei dal di fuori.
- Lei sta diventando i miei occhi, non le sembra già molto?
- Sì, è vero. Certe volte mi sembra di leggere con la sua testa, ma poi la guardo e sento questo velo di luce che ci separa.
Erminio cercò a tentoni la sua mano, trovò un ginocchio coperto dal velluto, lo accarezzò delicatamente, con insistenza.
- Iris, accettiamo le nostre differenze. Lei mi penetra dentro con la voce. Non mi succede spesso di respirare la voce altrui. Mai.
- Allora respiri con me questo brano.
Iris iniziò a leggere, un lieve tremore nella voce. La mano era rimasta sul ginocchio. Erminio ascoltava, proteso in avanti.
- “Come posso descriverla? Dove cominciare? Dovrebbe essere semplice: il colore dei suoi occhi, dei suoi capelli, il suo modo di vestire, la sua statura, il tono del suo parlare, i suoi piedi. Dove cominciare? Mia moglie che io conosco così bene, Asya,...Ma come posso descriverla? Da dove cominciare? Dai suoi piedi: piedi delicati, da ragazzina, calzati di scarpe solide, dal tacco basso, magari comode, ma senza forma, scarpe un po’ scalcagnate...”
- Mi piace.- mormorò Erminio, senza specificare che cosa, se il racconto o il ginocchio. Lo accarezzava con lentezza, di continuo, come prima faceva con il pomo del bastone. E incontrava la medesima, eccessiva, rotondità. Ma quel ginocchio, così imperfetto, era comunque un punto di contatto.
- “....E allora, come posso descriverla? Da dove cominciare? Da quei suoi piedi piccoli e levigati, davanti ai quali mi sono inginocchiato una notte, dopo la disgrazia, stringendoli con forza, le facevo persino male. Li coprivo di baci, la supplicavo che facessimo un altro figlio, che non perdessimo la speranza, in un miscuglio di desiderio e di violenza, forse l’unica volta che ho perso la testa.”
- Ha notato come l’autore riesca in una pagina a comunicarci due elementi fondamentali della trama? L’enormità dell’amore che il protagonista prova per questa donna che ancora non è comparsa sulla scena e della quale sappiamo solo dei suoi piedi; e il dramma che deve aver sconvolto la vita dei due protagonisti. Per ora il dramma, quasi certamente la morte di un figlio, viene appena accennato, parlando appunto dei piedi della donna. Straordinario.
- Mi piace quest’uomo, ne sento la carica emotiva.
- E a me piace questa donna dai piedi stretti e le scarpe scalcagnate. Le confesso che nella descrizione ho riconosciuto il tratto avvolgente di un autore che amo. Ho letto molto di lui, ma non il suo romanzo di maggior successo. Ne avevo sempre rinviato l’acquisto, come una bottiglia d’annata che non è mai l’occasione propizia. E oggi in libreria quando lei ne ha letto una frase non ho compreso che fosse lui. Me lo sono portato a casa inconsapevolmente. Che bella sorpresa! Così la bottiglia preziosa viene stappata nella serata più adatta.
- Beviamone un altro bicchiere, vuole?
- Sì, leggiamo.
E Iris lesse un altro brano. Aveva netta l’impressione di leggere per due. “Leggiamo” le aveva detto lui ed ora i suoi occhi lavoravano per entrambi, erano di entrambi. Una sensazione di fusione, come mai le era capitato, una con-fusione, in tutti i sensi, di tutti i sensi.
- La sento affannata, la lettura la sta emozionando?
- Sì- rispose la donna arrossendo. Cercò un altro passo e s’impegnò a leggere con più concentrazione:
- “Faccio vita solitaria, ormai, la mia famiglia si sta sgretolando. Torno a casa e come al solito non trovo nessuno. Asya non c’è, come sempre, e non ha lasciato nemmeno tracce del suo passaggio. In queste ultime settimane la sua mania dell’ordine è diventata fanatismo. Qualche volta per sapere se ha mangiato devo frugare nella pattumiera, cercare i resti. Le tracce di Dafi sono più evidenti: la cartella buttata in salotto, un quaderno sul tavolo di cucina, una camicetta e un reggipetto in studio. Ma anche lei non c’è, ultimamente è sempre in giro.....Mi spoglio, almeno questo posso permettermelo nella casa vuota, faccio una doccia e resto nudo anche dopo, fa un tale caldo.... Entro in camera di Dafi alla ricerca del giornale e resto fulminato: la stanza è buia, le persiane abbassate, e sul letto c’è una ragazza che dorme. È un’amica di Dafi, la riconosco, ma non ricordo il nome. A vedere quelle gambe lunghe e affusolate posate sul giornale del mattino, mi si ferma il respiro. Mi ritiro in silenzio, sono molto eccitato....Mi aggiro in salotto senza riuscire a calmarmi, mi metto calzoncini e camicia, poi torno nella stanza....scusa potrei prendere il giornale, le dico, come fossi io l’estraneo che si deve scusare. Si sveglia, le sfilo il giornale e glielo mostro. Si mette seduta, i capelli le cadono sul viso. Attraverso la camiciola aperta vedo i suoi piccoli seni, un candore accecante. Lei crede che io voglia mandarla via e...”
- Sa i seni, erano il mio incanto. Guardavo le montagne di granito e le più morbide colline, le forme strane e le modeste ondulazioni, poco più dei mucchietti di terra accumulata dalle talpe, sì, i seni, tutti mi piacevano. Ci leggevo la vita, come una zingara la legge dalla mano. Ammiravo la loro perfezione quando erano perfetti, ma ancor di più mi commuoveva l’imperfezione, le troppe efelidi, la smagliatura, il neo, il serpeggiare bluastro di una vena. Amavo i seni pieni e impertinenti e quelli smunti di latte e polpa. Ho visto cicatrici che ho baciato con affetto. Sa, i seni mi mancano, più dei libri.

Ci fu un silenzio denso. Iris guardò il volto dell’uomo e ci vide una nostalgia infinita. Allora chiuse il libro e prese a sbottonarsi con calma la camicia che era chiusa fino al collo. Cavò dal robusto reggipetto un seno grosso e piuttosto flaccido. Poi prese la mano di Erminio ancora appoggiata sul ginocchio e ve la posò sopra.
Non arrossì, Iris, a quelle dita febbrili sulla pelle.
E si seppe bella.
Come un libro aperto, le pagine sgualcite ma le parole ancora vive.

                                ..........................................

Ecco, siamo arrivati al fondo della storia. Mi verrebbe da schioccar le dita e risvegliarti, ma un momento fa ti ho sentito gemere nel sonno, come partecipassi, appassionatamente, al sogno o al racconto. Che poi, tra i due, non c’è una grande differenza. No, non posso svegliarti ora, continua a dormire, poi magari più mi racconti.




[i brani citati sono tratti, rispettivamente, da:

“All’inizio delll’estate del 1970”  da “Tutti i racconti” di A.Yehoshua  ed. Einaudi
“Colpo di luna” di G. Simenon, ed. Adelphi
“In alto a sinistra” di Erri De Luca, ed. Feltrinelli
“Appena oltre la follia” di C. Calati ed. Ibiskos
“L’amante” di A. Yehoshua ed. Einaudi ]




Il flauto magico e la luna di neve, di Massimo Baldi




Il Flauto magico e la luna di neve 
di Massimo Baldi
Edizioni Creativa
Poesia
Collana versi creativi
Pagg. 58
ISBN  9788896824856
 Prezzo € 10,00


 Il fascino magico dell’estremo oriente


Ammetto che l’estremo oriente ha sempre rappresentato per me un mondo misterioso, con tradizioni così difformi dalle nostre, con stili di vita del tutto particolari e propri di civiltà millenarie che, pur in un rapido progresso, hanno saputo conservare quanto di buono era presente nel loro lontano passato. In ambito letterario anche le poesie hanno svolgimenti e tematiche del tutto peculiari e al riguardo basti pensare all’haiku, una forma tipicamente giapponese, diffusasi tuttavia rapidamente nel mondo occidentale.
Questo preambolo è solo per introdurre a questa raccolta di poesie che non è opera di un cinese o di un giapponese, bensì di un italianissimo autore, anche lui irresistibilmente attratto dalla magia di quel mondo lontano, ispirato ai grandi poeti cinesi dell’epoca T’ang, che fu un vero e proprio rinascimento artistico,  e ai grandi Maestri nipponici.
Per i temi affrontati e grazie alla particolare e notevole sensibilità di Massimo Baldi la lettura di queste liriche riveste un’esperienza indimenticabile, con una immersione in una realtà quasi onirica che porta gradualmente a uno stato di notevole serenità. È infatti impossibile restare indifferenti di fronte a versi i cui elementi tipici della natura si fondono mirabilmente con emozioni del tutto umane, in primis l’amore (Appoggiato alla finestra osservo pigramente /   il concerto chiassoso dei cormorani sulle rive fangose. / Un crisantemo rosso tra le mani che giro e rigiro / quasi volessi interrogarlo per saper di te. /…). Natura e uomo, quest’ultimo non come preteso padrone della prima, ma come elemento di una realtà che il supremo ordine delle cose ha saputo organizzare così bene affinché, in delicati equilibri e interdipendenze, lo svolgersi della vita, in un ritmo solare, sia foriero di un continuo tranquillo appagamento. Le passioni possono essere grandi, possono anche essere urlate, ma il suono si abbassa al cospetto di un mondo che ci circonda e di cui solo dobbiamo essere grati. In questo modo emerge silenzioso il fascino di un’esistenza in cui tutto appare naturale e non confezionato, in cui ogni cosa, essere umano compreso, appare per quello che effettivamente é. L’impressione è così di trovarsi di fronte a qualche cosa di magico e di irripetibile, di ritrovare un senso della vita che il nostro insano progresso ha soffocato ( Era magico quel ciliegio! /   Ricordi, era il nostroYu-Liang, / quanta neve ha imbiancato le mie tempie / quanti draghi ho combattuto e sconfitto. /…). L’amore finisce con l’essere avvolto dal tenue filo di seta di un tempo sospeso, un alone magico che fra i chiaroscuri svela e nasconde. È certamente necessaria una particolare sensibilità per scrivere queste poesie e l’autore ne è in possesso e, pur senza ostentarla, la dispiega a piene mani, dando vita a immagini che stupiscono per la loro riposante bellezza  ( Ondeggia l’erba come serica stoffa / e freme tutto il campo di papaveri; /  e intanto io mi specchio nel viola e nel bianco degli iris / mentre sui lunghi steli si placa il vento. /…).
Poi ci sono le poesie di ispirazione giapponese e si tratta di Haiku e di Keiryu (queste ultime differiscono dalle prime per lo schema metrico diverso 7 – 9 – 8 – 9 – 9 e per il tema esistenzialistico – filosofico). Le prime, pur nel necessario limitato numero di versi, ripropongono con sensibilità il rapporto inalienabile fra uomo e natura e mi sembrano anche in questo caso ben riuscite ( è crepuscolo - /  già trepida il suo cuore / appassionato.).
Completano la raccolta poesie d’ispirazione occidentale, di buona fattura e in cui emergono ancora sentimenti ed emozioni, ma ripiombare nel nostro mondo dopo una fuga dell’anima in un paradiso dei sensi non consente di apprezzarle per quanto invece meriterebbero. Non è un risveglio traumatico, ma è la semplice constatazione che il nostro volo nel magico estremo oriente è terminato e che siamo ritornati alla vita di tutti giorni, con il solo desiderio di conservare il più a lungo possibile quella serenità che quei versi e quel mondo ci hanno donato.


Massimo Baldi, nato a Torre del Greco (Napoli) nel 1966.
Ingegnere, poeta, favolista ed aforista.
Ha pubblicato cinque  libri di poesia: “Le quattro stagioni di un viaggiatore solitario” (Edizioni Creativa, 2009), “Il canto della felicità” (Lulupress, 2011), “Omaggio a Lucio Dalla” (Lulupress, 2012)”, “Il susino magico e il lago di giada” (Lulupress, 2013)” e  “Il flauto magico e la luna di neve” (Edizioni Creativa, 2013)”.
Con la scrittrice e poetessa Eufemia Griffo ha pubblicato tre raccolte di poesia in metrica giapponese: "Imperfette perfezioni, "Sulle rive del Nilo" e "Foglie d'autunno".
Come favolista ha pubblicato “Le favole di Zoolandia” (Edizioni Creativa, 2010) e “Nella mitica terra di Zoolandia” (Midgard Editrice, 2012) ed ha tenuto reading di favole presso la Biblioteca Civica “Vittoria Colonna” di Marino.
Molti racconti e poesie sono stati selezionati e pubblicati in Antologie.
Terzo Classificato al “Premio Nazionale Surrentum 2013 - X Edizione” nella sezione Poesia Haiku.
Terzo Classificato al “Premio Nazionale  Megaris 2013 - XXII Edizione ” nella sezione Poesia in lingua italiana.
Gestisce come co-Amministratore, assieme alla poetessa Maria Carmela Dettori, il Gruppo di haiku, poesie a verso libero e racconti “Il susino magico e la luna d’argento”.
Gestisce come Amministratore unico il Gruppo di aforismi “Aforismando”.
Sito WEB:
http://www.massimobaldi.sitiwebs.com/



Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 27 febbraio 2014

MondoBlog

Le segnalazioni:

venerdì 14 febbraio 2014

La fonte antica, di Renzo Montagnoli

                                             Foto da web


La fonte antica
di Renzo Montagnoli


Fresca fonte del bosco,
polla d’eterna acqua,
in cui il vecchio salice
piange foglie ormai vinte
da gelide tramontane.
Nelle notti di plenilunio
s’indovinano volti
riflessi tanti anni fa.
Sono timorosi ovali
di fanciulle nella speranza
di un amore,
candide madonne
a ricercar conferma di bellezza,
occhi rapiti in sogni estatici,
timorosi della realtà del giorno.
Ma anche irsuti visi
di uomini in arme
prima di giorni di sangue,
di acque trasparenti
divenute poi rosseggianti.
E infine,
dianzi che il gallo canti,
e il tremor dell’alba
metta in fuga i sogni,
si scorge sull’acqua,
appena increspata
dalla brezza del mattino,
l’immagine di un femmineo cigno,
la signora di questi incanti,
la magia di un momento,
l’illusione che assopisce la mente
e apre il mondo al cuore.


da Canti celtici – Il Foglio, 2007)


La colonna sonora, di Kitaro:




Un uomo che forse si chiamava Schulz, di Ugo Riccarelli



Un uomo che forse si chiamava Schulz
di Ugo Riccarelli
Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa
Romanzo
Pagg. 146
ISBN 9788804622611
Prezzo € 9,50


Bruno Schulz, un piccolo grande uomo


Da Pag. 128 “ Eravamo, invece, pesci alla mattanza e percorrevamo con diligenza i corridoi sempre più stretti della nostra tonnara. La nostra vita fu capovolta e catapultata in un’altra dimensione e lo spazio in cui muovevamo i nostri passi sempre più incerti si ridusse di giorno in giorno, asservito al trionfo dei regolamenti, consumato insieme alle nostre personalità. Non fummo più persone, ma classi, tipologie e numeri diligentemente trascritti sulle carte e i diagrammi, appesi nelle sale della vecchia casa comunale.
Noi, i reietti, fummo passati al setaccio come sabbia grezza da costruzione, vagliati e cerniti per lasciare in un mucchio gli unici mattoni che sarebbero serviti a costruire le gabbie per noi stessi.”

Bruno Schulz, nato a Drohobycz il 12 luglio 1892 ed ivi morto il 19 novembre 1942, fu un pittore e scrittore polacco, di famiglia ebrea. A quanto si sa era un uomo che eccelleva nel dipingere, ma era anche uno straordinario narratore, come testimoniato dal suo libro Le botteghe color cannella, una originale autobiografia trasformata in una fantasiosa leggenda dell’infanzia.
E proprio l’elemento fantastico colpì Italo Calvino, che non poco contribuì a far conoscere questo autore allorché presentando la traduzione italiana nel 1970 ebbe a dire: “Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più". Di certo Ugo Riccarelli fu fra coloro che lessero questo libro e anche lui ne fu colpito profondamente, al punto da scriverne un’autobiografia romanzata, appunto Un uomo che forse si chiamava Schulz. Se L’amore graffia il mondo, pur piacendomi, mi aveva indotto a ritenere che il romanziere torinese fosse uno scrittore del dolore, tanto ne sono pervase appunto le altre due sue opere che ho letto (Il dolore perfetto e appunto L’amore graffia il mondo), questo libro, che narra la vita di un essere umano dalla nascita alla sua tragica scomparsa, è invece solo pervaso e a tratti, soprattutto nelle ultime pagine, da un senso di malinconia. Bruno Schulz, inginocchiato nel ghetto ai piedi del capitano Gunther della Gestapo, che sta per premere il grilletto della pistola puntata sulla sua testa, rivive in quei pochi attimi quella che è stata la sua esistenza, fin dalla nascita descritta in modo del tutto originale e che crea subito con il lettore un rapporto di viva e interessata partecipazione. La sua vita non è stata monotona, anzi svariate vicende, anche drammatiche, hanno coinvolto la sua famiglia, ma lui si rinchiude in Drohobycz, questa piccola cittadina galiziana, prima parte dell’impero austro-ungarico, poi della Polonia e ora dell’Ucraina. Essa è per lui un ghetto volontario, un ambiente sicuro come la sua grande casa in cui poter dar sfogo alla sua immensa fantasia, dai primi tratti di gesso incerti dell’infanzia ai più considerevoli dipinti della maturità, e poi, consapevole della forza delle parole, arriva quel libro (Le botteghe color cannella) in cui c’è tutta la sua vita e indirettamente la storia di un secolo, il XX, di profondi sconvolgimenti, che tuttavia non turbano l’atmosfera tranquilla e rassicurante della cittadina fino all’invasione nazista, a quei prussiani dispotici, esaltati e criminali di cui aveva paventato anni prima la venuta il rabbino della comunità. La mano di Riccarelli è leggera, lascia parlare il suo personaggio, non ne forza l’espressività, ma è come se l’autore stesso fosse lo spettatore di un film che si proietta davanti ai suoi occhi. Non manca, però, come dicevo una malinconia di fondo, un senso di incertezza che né le mura di Drohobycz, né le fantasie di Bruno possono cancellare. E infatti, fra i tanti animali dei suoi sogni, poco a poco, unica superstite resta una renna ferita, come profonda è la ferita nell’animo di Schulz che vede il suo mondo disgregarsi progressivamente, fino a implodere con l’arrivo dei tedeschi.
Tanti libri hanno descritto l’Olocausto, ma, credetemi, come l’ha descritto Riccarelli negli ultimi capitoli di questo romanzo non c’è stato nessuno. Lì la sua narrazione, pur essendo distaccata, ci presenta una realtà tangibile, un’atmosfera opprimente e devastante e ciò senza che si parli di un campo di sterminio. Poco a poco le paure, le privazioni, la perdita di speranza rendono questi ebrei, e fra essi Bruno Schulz, degli esseri privi di volontà, degli uomini rassegnati e pronti ad andare, senza la minima opposizione, al macello, all’ultimo e definitivo sacrificio. Caduta l’illusione dell’arrivo del Messia che con la sua spada fiammeggiante distrugga l’orda nazista e salvi il suo popolo, non resta più nulla se non la morte.
Ecco, Riccarelli mi ha stupito nell’aver descritto cosi bene una condizione che a noi, comodamente seduti nelle nostre case, al caldo, ben saziati e sicuri risulterebbe altrimenti non del tutto comprensibile.
Ma non è l’unico merito del libro, perché i pregi sono moltissimi, fra cui i protagonisti descritti in modo meraviglioso; al riguardo basti pensare allo zingaro saggio e gobbo Emram, che tutte le primavere arriva con il suo orso ballerino e con gli altri del suo clan nella cittadina, portando una luce di allegria e di poesia, e che per Schulz sarà un grande amico; indimenticabili poi sono Hoffmann, il marito della sorella di Bruno, finito tragicamente, oppresso da debiti familiari che lui non aveva contratto; se il padre di Bruno, nella sua estrema originalità, può sembrare una drammatica macchietta, esemplare è la descrizione di Danuta, la domestica di famiglia, degna di farne parte e che sarà l’unica a salvarsi, perché deciderà di andare per tempo in America, liberandosi dalla inconscia costrizione di quella città, un tempo sicura nella statica tranquillità dell’impero asburgico, ma che gli eventi del nuovo secolo hanno privato della sua intima forza, rendendola un normale agglomerato di case, in balia dei venti di guerra.
Quando ho ultimato la lettura di questo libro ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte a un capolavoro e per quanto sia a conoscenza del fatto che il giudizio di altri sia piuttosto controverso, a una seconda rilettura la mia convinzione si è rafforzata. Contenuti, stile, misura nella narrazione, capacità di ricreare ambienti e atmosfere, piacevolezza sono tutti elementi che inducono a definire Un uomo che forse si chiamava Schulz il più bel romanzo scritto da Riccarelli, nonché un libro senza tempo, uno di quei testi, stupendi, che manterrà inalterato anche per gli anni a venire il suo valore.
Leggetelo, perché di opere così ne appaiono poche nell’immensa produzione letteraria di un secolo.    





Ugo Riccarelli (Ciriè, Torino, 1954 - Roma 2013), di famiglia toscana, ha pubblicato Le scarpe appese al cuore (Feltrinelli 1995, nuova edizione Oscar Mondadori 2003), Un uomo che forse si chiamava Schulz (Piemme 1998, premio Selezione Campiello, nuova edizione Oscar Mondadori 2012), Stramonio (Piemme 2000, nuova edizione Einaudi 2009), i racconti di Pensieri crudeli (Giulio Perrone 2006), Diletto (Voland 2009) e Garrincha (Giulio Perrone 2013), il saggio Ricucire la vita (Piemme 2011) e, per Mondadori, L'angelo di Coppi (2001), Il dolore perfetto (2004, premio Strega), Un mare di nulla (2006), Comallamore (2009), La repubblica di un solo giorno (2011) e L'amore graffia il mondo (2012, premio Selezione Campiello).



Recensione di Renzo Montagnoli