giovedì 28 agosto 2014

Tu, piccola ombra, di Franca Canapini

Ci ha provato Franca Canapini, imbastendo un’opera dalla struttura inconsueta, ma che non poco tempo fa era utilizzata assai più frequentemente: il poema.
Il suo, inevitabilmente, è in accordo con i tempi correnti, ma restano le chiare tipiche evidenze, che nel caso specifico coniugano i toni epici con quelli bucolici. 

Tu, piccola ombra
di Franca Canapini

Andremo al fiume
in un notturno di luna
quando il mondo
diviene irreale trasognato
e i pesci dormono
dopo tanto cantare
Le nostre mani si poseranno
lievi sui capelli e i visi
ci guarderemo negli occhi
imbiancati dalla luce.

Andremo al fiume
saremo soli nel silenzio
ci culleremo piano
riposeremo al suono
del lento sciacquiglio;
intorno, alberi ed erbe
allungheranno ombre stupite

Senza i corpi pesanti
saremo leggeri come fuochi
sussurreremo insieme:
tu, piccola ombra, che mi hai rivelato
tu, fiore ferito del mio cuore
tu che mi hai preso in braccio e mi hai curato
tu sei sempre con me
con il tuo sorriso
ed il tuo pianto di dolore

Da Viaggio nella Poesia (Helicon, 2014)


La colonna sonora è talmente famosa che ritengo superfluo indicarne il titolo. E’ una melodia struggente che penso ben si adatti con i versi.






Viaggio nella Poesia, di Franca Canapini



Viaggio nella Poesia
di Franca Canapini
Prefazione di Neuro Bonifazi
Edizioni Helicon
Poesia poema
Pagg. 133
ISBN 9788864662459
Prezzo: € 12,00

Un poema moderno

Tutto mi sarei aspettato da Franca Canapini, artista capace di percorrere una linea poetica autonoma, come dimostrato dalle eccellenti prove con Stagioni sovrapposte e confuse e, soprattutto, con Il senso del sempre, tutto ripeto mi sarei aspettato - e con quel tutto intendo una silloge di argomento piuttosto impegnativo - fuorché un poema.
Se si presenta arduo scrivere un poemetto, ancor più complessa è la realizzazione di un poema, perché si tratta di una composizione in versi di carattere narrativo, in cui si svolge un determinato tema. Tanto per intenderci poemi sono l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, con i quali sono narrate storie che in epoca moderna sarebbero più facilmente scritte come romanzi.
Nel caso specifico di Franca Canapini non c’è ovviamente la pretesa di gareggiare con Omero o con Virgilio, ma il tentativo di riproporre una forma oggi del tutto inusuale; e come le opere di questi maestri oggetto di studio scolastico la struttura di Viaggio nella Poesia è similare, con un’Invocazione, il corpo centrale e infine l’epilogo.
Da Invocazione” Dammi parole, Apollo / l’illuminazione grande / ché possa ricordarmi che c’ero / di simbolo in simbolo in simbolo; / restituiscimi la forza / per dare voce alle pietre di Carnac / a Michel d’oro sulla vetta / agli dei silenziosamente affranti / ai fiumi tumultuosi / delle foreste mute. /…”.
Si tratta del riconoscimento delle difficoltà per l’opera da intraprendere, uno sforzo immane impossibile senza l’aiuto di un’Entità superiore, a cui quindi ci si rivolge così come sovente si prega. E indubbiamente il compito è improbo perché, come dice il titolo, è un viaggio dentro la poesia, una sorta di discesa progressiva nel nerbo della stessa, alla ricerca di nuove conoscenze e, in particolare, per scoprirne e identificarne le origini. E se tale percorso comporta un ritorno al passato, alla rivisitazione dell’infanzia, il poema non è scevro da rapidi, a volte improvvisi ritorni a un presente in cui germoglia il seme del futuro. C’è una spiccata originalità, pur permeata a tratti da un istinto epico, e a volte da un riuscito afflato d’anima (…/ Ed ecco la neve /.- ancora la neve – / che smussa i colori / i vertici addolcisce e ricama. /…). Sono versi che, per certi aspetti, sembrerebbero ispirati da un Pascoli in un momento di rara felicità, ma la l’ispirazione è una cosa e la realizzazione è un’altra, così che prevale un’autonoma inclinazione che sintetizza dialetticamente il concetto e la situazione che si intendono esprimere, in forma moderna, gradevole e di non difficile interpretazione.
E’ lungo questo viaggio, che sostanzialmente si svolge nell’accostare idealmente il lontano passato e il presente, ed è così che al rapimento di Proserpina si affianca un auto rapimento per amore. Non manca poi una discesa agli Inferi, con una Euridice dei nostri tempi e con il capitolo finale non a caso intitolato I fiori di Proserpina.
Oserei dire che Franca Canapini, anziché scendere nel passato del mito ha preferito riportare questo all’epoca attuale, realizzando questo poema che è essenzialmente una grande storia di amore immaginato, un impulso improvviso che l’ha convinta a esaminarsi, a intraprendere questo viaggio, a volte tumultuoso, altre bucolico, dentro se stessa.
Non siamo più abituati a leggere poemi, perché ormai non se ne scrivono più, ma se uno c’è, ed è questo, se vogliamo riprovare il piacere, pur se accompagnato da una certa fatica, di perderci nelle pagine di un libro, vagando con la mente sul mormorio dei versi, ecco, il poema è servito e sarete accontentati, certo che alla fine sarete pure soddisfatti.
     

Franca Canapini è nata, il 17 ottobre 1951, a Chianciano Terme (Si). Dal 1977 vive, con la sua famiglia, ad Arezzo, dove ha svolto l’attività di insegnante di Lettere. è membro del Consiglio direttivo dell’Associazione Tagete (Associazione degli Scrittori Aretini) e nel 2013 ha fatto parte della giuria del Premio Tagete per la Poesia.
Nel 2010, essendo risultata vincitrice del Premio Internazionale di Poesia Jacques Prévert2009, le è stata pubblicata dalla casa editrice Montedit la silloge poetica Stagioni sovrapposte e confuse, che ha ottenuto il Terzo premio ex-aequo Tagete 2010.
Nel dicembre 2011 ha pubblicato la sua seconda raccolta di poesie Tra i solstizi – Aletti editore, che ha ricevuto una Menzione d’onore al XXXVIII Premio Letterario Casentino di poesia, narrativa e saggistica, 2013.
Sempre nel 2013 ha pubblicato per la Casa Editrice Helicon la raccolta di poesie Il senso del sempre (prefazione di Neuro Bonifazi) che ha ottenuto il Primo premio al Premio Nazionale di Poesia Aeclanum 2013, si è classificata Quinta ex-aequo al Concorso Internazionale di Arti letterarie Thesaurus 2013, è stata presentata alla Fiera della piccola e media editoria di Roma e, nel 2014, è risultata Quinta al Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Percorsi Letterari dalle Cinque Terre al Golfo dei Poeti.
Suoi lavori si trovano in diverse antologie e riviste di poesia, in vari siti e blog culturali e nel suo blog personale: www.lieve2011.wordpress.com.
e-mail: franca.canapini@alice.it



Recensione di Renzo Montagnoli

MondoBlog del 28 agosto 2014

MondoBlog

Le segnalazioni odierne:

sabato 16 agosto 2014

La Camera degli Sposi, di Renzo Montagnoli




La Camera degli Sposi
di Renzo Montagnoli


Mantova è una città d’arte, un piccolo gioiello che viene visitato ogni giorno da migliaia di turisti. Le sue ricchezze presentano il vantaggio di essere poco distanti l’una dall’altra, tanto che è possibile andare a Piedi da Piazza Sordello al Palazzo Te in circa 45 minuti, l’occasione per una salutare passeggiata e per poter vedere lungo il percorso tanti monumenti di grande pregio.
Sì affacciano così agli occhi del turista la Basilica Palatina di Santa Barbara, il Duomo, il Palazzo Bonacolsi, il Palazzo della Ragione con la torre dell’orologio, la Basilica di Sant’Andrea, il Museo Diocesano, il Palazzo d’Arco, la casa del Mantegna, il Palazzo San Sebastiano. Alla fine di questo percorso ideale si trova lo splendido Palazzo Te, mentre agli inizi c’è l’altrettanto splendido Palazzo Ducale con il contiguo castello di San Giorgio. Quadri, affreschi, arazzi, armature sono ospitati in questi edifici di gran pregio architettonico e in particolare c’è un’opera famosa in tutto il mondo, unica nel suo genere, talmente di richiamo che l’impossibilità di poterla vedere dal giugno 2012 a seguito di danneggiamenti provocati dal sisma che ha colpito l’Emilia e parte del mantovano ha causato una contrazione del flusso turistico stimata in circa il 20%. Ma ora, anzi il 19 luglio si potrà tornare ad ammirare questa meraviglia e già so che le prenotazioni (occorre prenotarsi) sono numerosissime.
Ma di che stiamo parlando? Stiamo parlando della Camera degli Sposi, uno dei capolavori di Andrea Mantegna. Questo grande pittore veneto (nacque a Isola di Carturo in Provincia di Padova nel 1431) è già un grande, conteso da tutte le corti, quando nel 1460, dopo una lunga trattativa con il marchese Ludovico Gonzaga, si trasferisce a Mantova, con tutta la famiglia. È giovane, ma già ha fatto parlare di sé con opere che ancor oggi stupiscono, ha lavorato con altri, imponendo il suo stile, per affrescare a Padova la cappella della famiglia Ovetari nella Chiesa degli Eremitani, edificio purtroppo andato parzialmente distrutto nella seconda guerra mondiale a seguito di un bombardamento; ha dipinto il polittico di San Luca per la Cappella di San Luca nella basilica di Santa Giustina a Padova; pure sua è la pala di San Zeno per l’omonima chiesa di Verona; e fra il 1457 e il 1459 ha realizzato il San Sebastiano, un quadro di grande effetto in cui è raffigurato il martirio del Santo, opera particolarmente riuscita tanto che nel corso del suo soggiorno mantovano ne dipingerà un’altra sostanzialmente identica.
Ora Andrea Mantegna è pittore di corte, riverito, acclamato, ben pagato, con una casa tutta sua di particolare pregio architettonico. E’ il momento, quindi, di contraccambiare e all’inizio sono quadri, ritratti, come quello del cardinale Ludovico Trevisan e di Francesco Gonzaga. Sono solo, però, per quanto bellissimi, esercizi in vista dell’incarico assai più impegnativo che gli è stato conferito dal marchese Ludovico in persona: affrescare una camera che si trova al primo piano della torre di Nord-Est del Castello di San Giorgio, camera adibita a sala delle udienze, nonché a locale di ritrovo di tutta la famiglia Gonzaga. Ed è proprio questo gruppo familiare, i suoi successi, i suoi trionfi che il pittore padovano dovrà rappresentare. Tuttavia la dimensione della stanza è modesta, poco idonea quindi a una celebrazione grandiosa e allora Andrea Mantegna studia il modo di ampliarla, pur lasciandola intatta. Compito arduo, quasi impossibile, ma lui è un genio della prospettiva e ci riesce.


Il soffitto è troppo basso, toglie aria all’ambiente? Basta alzarlo con una illusione ottica, e allora la volta viene divisa in vele e pennacchi dipinti, che sembrano lontani, ma non basta perché in questo gioco di elementi decorativi piazza al centro un oculo, cioè un’apertura come quella che effettivamente c’è nel celebre Pantheonn a Roma. E per accrescere il senso di profondità dipinge in questo tondo un cielo azzurro, con delle belle nuvolette, sì da sembrare vero. Ma non basta ancora perché l’illusione sia perfetta, anzi occorre qualche cosa di più, servono delle figure sul contorno dell’oculo che si affacciano e guardano giù. Così c’è una dama con la sua serva nera, un pavone e diversi putti, alcuni dei quali sono in bilico e sembrano lì lì per cadere. L’effetto è stupefacente e lascia sbigottiti; il lavoro è frutto dei lunghi studi a suo tempo fatti per la Cappella Ovetari, esperimenti che qui si concretizzano in modo assolutamente mirabile.


Per le pareti, di cui due poco utilizzabili, perché una comprende la porta e l’altra il grande camino, fa ancora una volta ricorso alle sue grandi capacità nel campo della prospettiva, e così per quelle a sud e a est si limita a dipingere dei tendaggi, in un gioco di chiari e di scuri, di pieghe che danno l’impressione che dietro ci sia molto e invece non ci sono che i mattoni.


Agli altri due muri riserba ben altro. In particolare una parete è dedicata alla famiglia del marchese Ludovico, rappresentato seduto su un trono e attorniato dalla moglie Barbara di Brandenburgo, dal suo segretario Marsilio Andreasi, dal terzogenito Gianfrancesco, dal precettore dei figli Vittorino da Feltre e da altri dignitari. Tutti non sono in posa come per una fotografia, ma sembrano colti in una delle abituali riunioni indette dal marchese. C’è una certa solennità, ma anche la semplicità di chi non sa di essere ritratto e sembra esser lì per discutere degli argomenti più vari. Questa parete, come l’altra, pare sfondata, grazie a un gioco prospettico, ma vi è di più. Pur nella immobilità delle figure i loro sguardi sembrano rincorrere gli occhi del visitatore come, se, anziché immagini fissate al muro, fossero soggetti fermi, ma vitali. La stessa sensazione si prova con i personaggi dell’altra parete, in cui spiccano il marchese e il figlio Francesco, in un incontro a cui partecipano anche i figli di Federico I Gonzaga, Francesco e Sigismondo, oltre ad altri personaggi come Cristiano I di Danimarca e Federico III d’Asburgo. Questo incontro è per strada, prima di Mantova, lungo il percorso che riporta a casa  Francesco, fresco di nomina cardinalizia e quindi di gran onore e prestigio per la famiglia. Sullo sfondo, su un colle, c’è una città, che non è Mantova, che come si sa si trova in pianura, ma con ogni probabilità è Roma, qui in questo modo rappresentata come segno della riconoscenza del casato e della fedeltà verso il Papa.  L’accostamento dei colori è  frutto di un accurato studio che ha portato a evitare marcati contrasti, anzi ha contribuito a un generale senso di leggerezza e di serenità dell’insieme. La camera picta, così la si chiamò, già all’epoca era motivo d’interesse, per quanto la possibilità di vederla fosse limitata a incontri di rappresentanza. Già da tempo è conosciuta come Camera degli Sposi, proprio perché le figure di Ludovico Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, che belli non dovevano essere nonostante qualche trucco del pittore, spiccano nel ritratto, uniti in un matrimonio combinato per ragion di Stato, ma la loro si diceva fosse un’unione felice, che i due si volevano bene e che al di là dell’ufficialità del vincolo fra loro c’era vero amore.
Ecco, essi sono lì, immortalati da Andrea Mantegna, in un’immagine serena, come serena deve essere stata la loro vita, se effettivamente furono sempre innamorati l’uno dell’altro.
Il Museo di Palazzo Ducale è aperto da martedì a domenica dalle 8,15 alle 19,15 (ultimo ingresso ore 18,20) e il prezzo del biglietto è di € 6,50 (ridotto € 3,25).
Il percorso museale che conduce alla Camera degli Sposi sarà riaperto al pubblico dal 19 luglio al 5 ottobre 2014.
In seguito il complesso del Castello chiuderà nuovamente per consentire l'ultimazione dei lavori di ripristino del piano nobile per la riapertura definitiva. 
PRENOTAZIONI
Per la visita alla Camera degli Sposi la prenotazione è obbligatoria, poiché l'ingresso è contingentato a 1.200 ingressi al giorno.
Sarà possibile l'ingresso senza prenotazione per i singoli solo in base alla disponibilità giornaliera. Per i gruppi la prenotazione è sempre obbligatoria.
La permanenza nella Camera Picta è di 5 minuti.

Costo delle prenotazioni:
gruppi € 20,00;
gruppi scolastici € 10,00;
singoli € 1,00.

Recapiti telefonici:
Prenotazioni: 041-2411897
Informazioni (Biglietteria museo): 0376-224832
Informazioni (Capo servizio museo): 0376-352100

É stato attivato il sistema di prenotazioni on-line.



Fonti:
Andrea Mantegna. Gli sposi nella Camera dipinta, di Giovannui Reale, Rodolfo Signorini, Vittorio Sgarbi – Bompiani Editore;
Mantegna, di Claudia Cleri Via – Giunti Editore

Nota:  Le fotografie a corredo dell’articolo (per ognuna spiegazione di ciò che rappresentano e sito di reperimento):
-      Il particolare oculo – www.guideturistichemantova.it;
-      Prospetto – www.thais.it;
-      Altro prospetto – www.myartprints.com
-      La famiglia Gonzaga – www.strangeart.it
-       


Nome di battaglia: Diavolo, di Frediano Sessi




Nome di battaglia: Diavolo
L’omicidio don Pessina e la persecuzione giudiziaria contro il partigiano Germano Nicolini
di Frediano Sessi
Marsilio Editori
Storia
Pagg. 256
ISBN 9788831774659
Prezzo € 14,46


Una vicenda allucinante


Nei quattro anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, in un paese come il nostro che era stato dilaniato da una lotta fratricida e che vedeva contrapporsi ora i filoamericani ai filosovietici, non pochi furono gli atti di violenza, frutto spesso da un insano desiderio di vendetta. In particolare, nell’Emilia  vi  fu una zona, ricompresa fra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara  che venne chiamata Triangolo della morte o anche Triangolo rosso, in cui partigiani e militanti di formazioni comuniste uccisero all’incirca 4.500 persone.
Il tale contesto il 18 giugno 1946 viene assassinato con un colpo di pistola Don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo, in provincia di Reggio Emilia.
A prima vista può sembrare uno dei tanti atti di violenza che funestano la zona ed è così, ma ciò che lo differenzia da altri tragici analoghi episodi è la reazione nelle gerarchie ecclesiastiche, perché la Chiesa e il Vaticano colgono l’occasione per cercare in qualsiasi modo un colpevole, ma non il colpevole o un colpevole qualunque, bensì uno che serva a sostenere la campagna anticomunista così cara a Pio XII. Allo scopo un grande inquisitore viene trovato in monsignor Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia, che, con l’aiuto non certo disinteressato dell’investigatore capitano Vesce (in seguito diventerà generale dei carabinieri, ottenendo anche un’altissima onorificenza vaticana) e in presenza di un sistema giudiziario che ancora risente della dipendenza politica propria del fascismo, ha per le mani il capro espiatorio ideale. E non è un personaggio sconosciuto, ma un valoroso comandante partigiano (nome di battaglia Diavolo),  sindaco comunista di Correggio, stimato anche dagli avversari per la sua rettitudine e lealtà.  Viene imbastita così una tela di ragno per accusare del delitto Germano Nicolini, perché così si chiama quest’uomo di grandi qualità, un comunista non ortodosso, cioè non privo di idee liberali, un buon cristiano, ma non deferente verso una chiesa che troppo ha spartito con il fascismo, un abile stratega militare, ma anche un pacificatore, visto che in quei difficili anni, in cui la maggior parte della gente faceva la fame, istituisce una mensa che possa garantire un pasto al giorno a tanti ex partigiani disoccupati e poveri, e non solo a loro, ma anche agli ex nemici, pesci piccoli che mai si erano macchiati di nefandezze.
Così fra false testimonianze, verbali di interrogatori contraffatti, testimonianze vere (come quelle di due dei tre colpevoli), ma che vengono dichiarate false nonostante l’evidenza dei fatti, il povero Nicolini viene incarcerato, insieme ad altri due disgraziati. La condanna, in tutti i gradi, era scontata, perché nessun elemento probatorio a discarico, benché inoppugnabile, venne accolto, mentre invece le prove di colpevolezza, evidentemente artefatte,  furono sempre sostenute e considerate vere. I tre vennero condannati a 22 anni di reclusione, di cui ne furono scontati per fortuna solamente dieci. Oltre al teorema accusatorio del tutto infondato, vi è da rilevare lo strano silenzio del Partito Comunista, che preferì lasciar condannare degli innocenti invece di fare i nomi dei veri colpevoli che ben conosceva.  Del resto Nicolini, per quanto famoso, era troppo democratico per essere considerato un autentico comunista staliniano e troppo rivolto a sinistra per classificarlo come un uomo di centro, tutte circostanze che giocarono a suo sfavore. Non fecero però i conti con un essere umano che,  più di ogni altra cosa al mondo, desiderava dimostrare la sua innocenza. Con l’evoluzione politica che portò prima alla fine dello stalinismo, poi a quella dell’Unione Sovietica, e con il consolidarsi della democrazia nel nostro paese che condusse a un’autentica autonomia dell’apparato giudiziario si vennero così a creare i presupposti per pervenire a una seria ricerca della verità. . Si dovrà attendere tuttavia il 1994, allorché alla luce di nuove prove e anche della confessione di uno dei tre veri colpevoli il caso venne riaperto, ci fu un nuovo processo e la piena assoluzione per non aver commesso il fatto.
Frediano Sessi ha saputo porre mano alla vicenda assai intricata, riuscendo a delineare un quadro della situazione e di tutto ciò che accadde con encomiabile completezza, dando luogo a un libro che è sì un saggio storico, ma che si svolge incalzante come un romanzo, punteggiato dalle puntuali e condivisibili osservazioni dell’autore che ha il pregio nelle prime pagine, più introduzione che capitolo, di saper ben delineare la situazione dell’Italia nel primo dopo guerra, documento indispensabile per comprendere il perché di tante violenze.
Scorrevole, per nulla greve, Nome di battaglia: Diavolo è uno di quei libri che si leggono con piacere, anche se poi rimane dentro una sorta di rabbia per tanta ingiustizia che nemmeno la piena assoluzione dell’ultimo processo riesce a mitigare.


Frediano Sessi vive e lavora a Mantova. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il ragazzo Celeste (1991),Ritorno a Berlino (1993), L’ultimo giorno (1995), Alba di nebbia (1998), Nome di battaglia: Diavolo (2000), Prigionieri della memoria (2006, due edizioni), Foibe Rosse (2007, due edizioni), Il segreto di Barbiana(2009) e con Carlo Saletti Visitare Auschwitz (2011, due edizioni) tutti editi da Marsilio. Sempre per Marsilio ha curato il saggio di Michel Mazor La città scomparsa(1992). È autore inoltre dei romanzi per ragazzi Ultima fermata: Auschwitz (1996), Sotto il cielo d’Europa (1998) e Il mio nome è Anne Frank (2010), editi da Einaudi, per cui ha curato anche l’edizione italiana definitiva del Diario di Anne Frank (1993) e il Dizionario della Resistenza (2000). Nel 1999 è stato pubblicato il suo saggio La vita quotidiana ad Auschwitz (Rizzoli, tredici edizioni).

Recensione di Renzo Montagnoli


MondoBlog del 16 agosto 2014

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