sabato 19 settembre 2015

Temporale estivo, di Renzo Montagnoli



Temporale estivo
di Renzo Montagnoli

Aria ferma
nel caldo soffocante
che menti e corpi intorpidisce.
È un giorno d’estate
d’afa e d’arsura.
Ma ecco che lontano s’ode un brontolio
che lesto s’avvicina
e s’alza un vento di  fuoco
che il sereno spazza via.
A ondate arrivano le nubi
prima bianche
poi scure fumiganti
e radi goccioloni inchiodano la polvere.
È ormai tutto un rimbombo di cannoni
di scoppi fragorosi
di lampi e di saette
che si rincorrono nel cielo
mentre un vento impetuoso
percuote le esili cime del susino
ormai prone nella resa.
Gli scarsi goccioloni
di colpo s’infittiscono
e ormai scroscia la pioggia
che avanza come una marea.
È un muro d’acqua mugghiante,
sembra giorno da giudizio universale,
anzi meglio ancora da diluvio universale,
pare notte ma non è ancora sera
e invano la campana chiama al vespro
perché nello strepitio del cielo
nessuno la può udire.
Solo una vecchina s’affaccia sulla porta
per apprestarsi alla funzione
guarda in su e lenta s’avvia.
Già da dove è venuto il temporale
solo  nubi scarmigliate
e riluce il sole del tramonto
e un arco di colori
é il segnale
che la tempesta se n’è andata.
La vecchina affretta il passo
s’ode ora la campana
nell’attutito brontolio
del temporale che s’allontana.

Da Sensazioni ed emozioni
 



Endurance. L’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud, di Alfred Lansing



Endurance. L’incredibile viaggio di Shackleton al Polo Sud – Alfred Lansing -  TEA – Pagg. 299 – ISBN  9788850203932 - € 9,00

Nel 1914 apparve un annuncio sul Times: “Cercasi uomini per viaggio rischioso. Paga bassa, freddo glaciale, lunghe ore di completa oscurità. Incolumità e ritorno incerti”. Arrivarono migliaia di candidature. L’organizzatore della spedizione che aveva come obiettivo la traversata a piedi del continente Antartico, estremo sud del mondo, era Ernest Shackleton, esploratore polare con alle spalle due spedizioni, una in qualità di terzo luogotenente (1901- 1903), l’altra come comandante (1907- 1909), che lo vide arretrare a 96 miglia dal Polo Sud e rientrare in patria senza raggiungere l’obiettivo per non mettere in pericolo la vita dei suoi uomini.

Nella vastità dei materiali disponibili: libri, film, rappresentazioni teatrali, foto, video, (si rimanda per approfondimenti al sito www.circolopolare.com,) un posto importante spetta al lavoro di Alfred Lansing che mi presto a recensire.
Il libro è stato pubblicato per la prima volta negli U.S.A. nel 1959 ed è diventato nell’immediato un best seller e un long seller poi. Shackleton di Franco Battiato ( dall’album Gommalacca, 1998, video reperibile su youtube) rappresenta una sinossi, musicale, sicuramente più interessante di quella che potrei scrivere io. A me allora il compito di lasciare qualche impressione personale.
Lansing ci avverte di aver scritto il resoconto di questa splendida avventura utilizzando i diari scritti dai membri dell’equipaggio, le interviste e i documenti di prima mano. Si assume quindi l’onere di eventuali imprecisioni.

La lettura, per me inizialmente stentata, è stata una gradevole sorpresa. Lo stile è scorrevole ma puntiglioso, vengono presentati i ventotto membri dell’equipaggio e io fatico, generalmente, a inquadrarne le singole personalità. La prima parte di sette totali scorre dunque lenta presentando già la situazione dell’abbandono della nave e dell’impresa per poi, a ritroso, raccontare i nove mesi nei quali, l’Endurance, sopportò insieme ai suoi uomini lo stritolamento costante dei ghiacci che l’avevano circondata. Superata questa prima empasse, si entra poi in una narrazione che assume i tratti del romanzo d’avventura e allora diventa difficile lasciare le pagine o gli uomini in balia di spezzoni di banchisa galleggianti in una lenta deriva o peggio, in seguito , in mare aperto col rischio di perdersi per sempre.
La lettura è interessante sotto diversi punti di vista. Si può conoscere una parte di quello spirito che animò la gara tra potenze in un colonialismo meno noto di quello che concorse ad alterare i delicati equilibri imperialistici sfocianti poi nello scoppio del primo conflitto mondiale. Shackleton rispondeva certo a necessità individuali cavalcando un interesse nazionalistico, ma non si deve dimenticare che gli estremi del mondo furono teatro di una gara fra nazioni come poi successe con gli spazi interplanetari. Fa riflettere il fatto che la partenza coincise con lo scoppio della prima guerra mondiale, mettendo a repentaglio la spedizione faticosamente allestita con fondi di diversa provenienza, ma che l’Inghilterra preferì non rinunciarvi. Gli altri aspetti che potrebbero interessare il lettore sono le descrizioni degli ambienti estremi e delle condizioni di vita che può sopportare il corpo umano. Bella è anche la mitizzazione che secondo me opera Lansing della figura diShackleton; viene rappresentato come il leader assoluto del gruppo, l’irreprensibile comandante, l’autorevole uomo capace di riportare i suoi ragazzi a casa. Anche il lettore può ritrovarsi dunque ad apprezzare le qualità dell’uomo che non cede mai e vigila notte e dì comprendendo e gestendo tutte le dinamiche di gruppo onde evitare scompensi micidiali. La narrazione avvincente e mitizzata non si abbandona mai ad alcun giudizio morale assumendo quindi i tratti di una vera e propria cronaca come solo un giornale di bordo avrebbe potuto restituire. Interessante lettura di una delle ultime grandi avventure che animano anche lo spirito più pacato in questo scorcio di estate rovente capace di far sognare temperature decisamente meno calde.

Recensione di Siti


La righe nere della vendetta, di Tiziana Silvestrin



Le righe nere della vendetta
di Tiziana Silvestrin
Scrittura & Scritture Edizioni
Narrativa romanzo
Pagg. 292
ISBN 9788889682395
Prezzo € 14,50


Non solo veleni

Oreste Vannucci, il prefetto delle fabbriche dei Gonzaga, viene rinvenuto morto nel suo appartamento senza segni apparenti di violenza. Si scoprirà ben presto che è stato assassinato per mezzo di una camicia intrisa di un potente veleno; le indagini, per scoprire il movente e l’omicida, .sono avviate dal capitano di giustizia Biagio dell’Orso, un uomo tenace e mai domo.
Inizia così il giallo storico scritto da Tiziana Silvestrin, una narratrice mantovana, appassionata di storia e in particolare di quella dei Gonzaga.
Fra colpi di scena, tra personaggi esistiti realmente e con una storia parallela che vede protagonisti contrapposti Lucilla, una bella ragazza con vocazione da medico e il domenicano Giulio Doffi, capo della locale Santa Inquisizione. si sviluppa una trama quanto mai avvincente, capace di tenere il lettore con il fiato sospeso dall’inizio alla fine.
Lo stile non ridondante, ma nemmeno scarno e che definirei sobrio, l’esatta descrizione dei protagonisti, sia quelli esistiti veramente, sia quelli di fantasia, l’atmosfera di tensione sono innegabili qualità di questo romanzo, a cui in verità mi sono accostato con un po’ di titubanza, forse perché temevo fosse uno di quei prodotti in cui, a fronte di una vicenda intricata, si trascurava tutto il resto.   E invece ho dovuto ricredermi, perché non si tratta di un’opera marginale, ma di un lavoro di eccellente qualità, come non se ne trovano tanti in giro, e credo che alcuni scrittori, immeritatamente blasonati, proverebbero invidia, solo se avessero l’umiltà e la compiacenza di leggerlo.  Quel che intendo dire èche Le righe nere della vendetta meriterebbe un successo e una notorietà ben superiori. Dopo questo breve inciso, che tende a dimostrare che l’essere bravi autori sovente non è sufficiente per entrare nelle grazie di un numero rilevante di lettori, ritorno al romanzo della Silvestrin.
Il capitano di giustizia, il nostro eroe, arriverà alla soluzione del caso, seguendo un filo logico che non fa una grinza, tanto che chi legge perverrà insieme a lui a scoprire il movente e l’assassino.  Biagio dell’Orso è il Maigret dell’epoca e oltre a destare una immediata simpatia, ne ha anche alcune caratteristiche, come quello di essere sì intransigente nell’esercizio delle sue funziono, ma anche di essere dotato di una forte carica umana.
In questo giallo storico ho molto apprezzato le splendide descrizioni di Mantova nel XVI secolo e così palazzi, piazze, vie e chiese si materializzano davanti agli occhi, tanto da non sembrare antiche e immote vestigia, bensì vive, come le genti che vi si trovano, una sensazione particolarmente piacevole e realistica che é un valido “di più” nel contesto dell’opera.
Sono 292 pagine, che ho letto in pochissimo tempo, teso sempre a seguire quel filo logico per arrivare alla verità, un’impazienza che contrastava con il nascosto desiderio che la lettura non avesse termine. E, invece, per quanto ampiamente soddisfatto, sono purtroppo giunto alla conclusione, ma questo naturale rammarico è attenuato dal fatto che Tiziana Silvestrin ha scritto altri due romanzi con protagonista Biagio dell’Orso, libri che mi sono ripromesso di leggere quanto prima.


Tiziana Silvestrin
Inventare storie le è sempre piaciuto molto.  Intendiamoci, non le solite  favole  che si raccontano ai genitori o agli insegnanti per marinare le scuola, ma  creava personaggi  che vivevano nelle giungle  descritte da Salgari, da Burroughs  o da Kipling. Un giorno queste storie che sognava ha cominciato a scriverle, racconti brevi, da far leggere agli amici, che ovviamente apprezzavano. I complimenti  costano solo la fatica di farli e  chi vuol perdere un amico per così poco?
Questo lo sapeva  anche Tiziana che intanto si era messa a recitare. Entrata a far parte di una compagnia di teatro amatoriale  aveva iniziato  a scrivere commedie.
All’università scoprì  di avere un grande   passione per l’arte e   per la  storia  e dato che sui libri compaiono sempre i grandi personaggi, le loro conquiste, i loro delitti e le loro passioni, mentre  mai si descrive la gente qualunque, si è chiesta come Bertold Brecht: quando Giulio Cesare conquistò la Gallia, non aveva con sé neanche un cuoco?
Curiosa di quell’umanità che non ha lasciato traccia di sé nei Codici, ha cominciato a fare ricerche  sulla vita quotidiana delle epoche passate. Consultando testi e mangiando polvere, letteralmente, negli archivi, ha scoperto come vivevano, cosa mangiavano, come si vestivano e lavoravano le persone nelle  epoche passate.
Quando vinse un premio con un racconto le venne il sospetto che forse poteva cominciare a scrivere sul serio e così iniziò a scrivere gialli storici. Unendo  passione e curiosità, Tiziana nei suoi romanzi parte da fatti realmente accaduti ai potenti delle epoche passate, ma  molti dei personaggi sono persone comuni che hanno con la loro vita fatto la storia, ma dalla storia non sono ricordati.
Ha scritto i seguenti romanzi, tutti editi da Scrittura & Scritture Edizioni:
I leoni d’Europa (2009), Le righe nere della vendetta (2011), Un sicario alla corte dei Gonzaga (2014).

Recensione di Renzo Montagnoli








MondoBlog del 19 settembre 2015

MondoBlog
Le segnalazioni odierne:

mercoledì 2 settembre 2015

Compagni di classe, di Renzo Montagnoli

                                                                  Foto da web
                                                       


Compagni di classe
di Renzo Montagnoli



Non c’è che dire: fa caldo, anche troppo, ma ho promesso, anzi ho manifestato la speranza al Guercio di tornare a fargli visita anche questa sera e avverto come una minaccia incombente di un tempo che sta per finire e che mi sprona ad andare.
Appena fuori casa, lontano dal refrigerio del climatizzatore, sbatto contro il muro del caldo. Ossessivo, asfissiante, magmatico. È sera, ma la temperatura non accenna a scendere e in giro non c’è quasi nessuno, fatta eccezione per un paio di vecchine sull’uscio di casa a farsi aria con i ventagli, con ai piedi gli zampironi accesi. Loro forse non saranno tormentate dalle zanzare che invece si precipitano su di me, scendono in picchiata dritte come Stukas e mi punzecchiano indifferenti alle mie smanacciate. L’asfalto è ribollente, sembra quasi sciogliersi e sotto i miei piedi avverto un che di spugnoso che mi induce ad affrettare il passo. Ecco finalmente la porta del Guercio, socchiusa, segno che conta sulla mia visita. Entro e nella penombra lo scorgo intento a osservare alcune fotografie.
- Ciao. Vecchi ricordi?
Si volta e noto il suo viso sempre più scarno, in cui tuttavia l’unico occhio brilla vivo e attento.
- Ciao. Sì, immagini di tanto tempo fa. Sai, da vecchi si dimenticano i fatti recenti e si ha una memoria considerevole di quelli accaduti magari una cinquantina di anni prima.
- È vero. Ma dimmi che cosa guardi, se non è di disturbo.
Ripone la foto che ha in mano in uno scatolone di cartone, da cui ne prende un’altra, la osserva e gli si accende un sorriso.
. Vedi questa fotografia è quella della quinta classe delle elementari. Vieni vicino, guardala con me.
Gli sono al fianco e sorrido anch’io nel guardare quell’immagine color seppia: un gruppo di bambini vestiti da Balilla e un’arcigna maestra, una zitella nata, che sembra raccoglierli sotto di sé come una chioccia con i suoi pulcini.
- L’hai notata anche tu la maestra Zambretti, una donna severissima, ma non cattiva, e anche se ha l’aspetto di una zitella per vocazione, non lo era. Sì, non era sposata, ma era stata a lungo fidanzata con un geometra di Cremona , e per quel che so, avevano tutta l’intenzione di sposarsi, ma poi venne la guerra, la Grande Guerra, e si dovette rimandare a miglior epoca. Lui infatti partì per il fronte e non fece più ritorno, ucciso in una delle tante battaglie dell’Isonzo. Lei lo doveva veramente amare e anche se intorno le ronzava più di un moscone, si negò sempre, fedele a quella promessa di matrimonio che si erano scambiati. È un po’ triste e forse un certo carattere acido che mostrava a scuola .- ma c’è da dire che noi eravamo dei birbanti – era dovuto alla sua condizione, a quell’amarezza per una storia d’amore tragicamente interrotta.
- Dimmi degli altri, dei tuoi compagni di classe.
- Li ricordo bene e quasi tutti hanno già finito i loro giorni, chi prima, chi dopo.
- Magari visto che siete disposti su due file, con la seconda probabilmente su una panca, comincia magari da questa.
- Va  bene. Il primo da sinistra mi sembra si chiamasse Landini, forse Landrini, ma era conosciuto come “parsut”, e in effetti era cicciottello, tanto da assomigliare a un prosciutto. L’ho perso di vista, non so più nulla di lui, perché dopo le elementari si è trasferito con la famiglia in Abruzzo, dove il padre, brigadiere dei carabinieri, promosso maresciallo, era stato destinato a una Stazione dell’arma.
Il secondo, beh il secondo, guarda bene che lo conosci anche tu.
- Non dirmi che sei tu. Ma sì, sei proprio tu, con una faccia da birichino che non mi sarei aspettato.
- Te l’avevo detto che eravamo dei birbanti, cresciuti non allo sbando, ma in grande libertà e, diciamolo francamente, un po’ insofferenti a certe regole.
- E quello alla tua sinistra?
- Franco, Franco Festucci, un buon bambino e da grande una brava persona.  Ti ho già detto di lui, anzi di suo padre, che per non poco tempo stava a lungo in stazione nella speranza di vederlo ritornare con un treno. Il suo povero figlio finì disperso in Russia, ma che vuol dire disperso? Che è morto o che magari è vivo?
No, Franco è uno dei tanti che , o nel corso della ritirata, sfinito, si è lasciato andare sulla neve, oppure è morto di fame, di fatica in un gulag staliniano. Non sapere che fine ha fatto tuo figlio è un dramma, perché si finisce con l’aggrapparsi a un’improbabile speranza.
Si asciuga una lacrima, ricordando anche probabilmente il suo infruttuoso interessamento per avere notizie più certe.
- Passiamo all’altro.
-m Questo, un po’ strabico, è Benito Vessoni, un bambino sempre malaticcio, pargolo di genitori tisici,e infatti anche lui contrasse la tubercolosi, che se lo portò all’altro mondo che non aveva ancora vent’anni.
Di fianco a lui, questo con i capelli corti corti, è Gino d’la bugandera, soprannome dato a Gino Avisani per distinguerlo dall’altro Gino che avevano in classe. Come puoi ben comprendere sua madre faceva la lavandaia e fra un lenzuolo e l’altro, ben insaponato e poi sciacquato, trovava anche il tempo per fare un figlio, sempre da uomini diversi, e in questo modo la famiglia era ben allargata e Gino poteva contare su quattro fratelli e tre sorelle. È perfino superfluo che ti dica che vivevano in condizioni disagiate, con poco cibo e una fame atavica che riuscì a calmare solo nel dopoguerra quando riuscì a metter su un negozio di generi alimentari. Lì, fra coppe, salami e prosciutti, era rifiorito; ormai calmato lo stomaco, passava ore ed ore ad annusare i profumi dei salumi, quei profumi che da bambino erano solo nei suoi sogni. Dopo le prime abbuffate, con il rischio di sguarnire la bottega, gli era arrivata una pace dei sensi in cui non aveva mai sperato; inoltre l’armonia familiare (era sposato con una brava donna che gli aveva dato due bei figli) lo hanno condotto a una serena vecchiaia. No, non è morto, ma non abita più in paese, bensì in città.
L’altro Gino della classe è quello che gli sta di fianco e, come noterai, ha una faccia da birbante che è unica. Quante ne abbiamo combinate io e Gino Cucconi, quanti nidi di uccelli abbiamo tirato giù; è stata una frenesia di giovinezza, sempre a correre durante le vacanze e a combinarne di continuo. Poi, con la guerra, ci siamo persi di vista, soprattutto dopo l’8 settembre del 1943: io con i partigiani, lui con i repubblichini. Chi l’avrebbe mai detto che Gino si sarebbe messo a sparare contro gli italiani, lui che sì era un po’ birbante, ma era anche un buon diavolo. E il bello che entrambi eravamo a conoscenza di essere su opposti fronti e mi auguro che anche lui sperasse di non doverci incontrare in battaglia.
Io sono tornato, lui no, caduto in un’imboscata in Val Pelice. Riposa nel nostro camposanto e, quando ero più in forze, ogni tanto lo andavo a trovare e ogni volta mi veniva la voglia di chiedergli: perché? Dalla foto incorniciata sembrava guardarmi con l’espressione di uno che non conosceva la risposta.
- E penso che non fosse l’unico fra i repubblichini a non conoscere la risposta, vero Guercio?
- Sì, ma non la conoscevano perché non si erano mai posti la domanda.
- Proseguiamo su questa fila. Vicino a Gino Cucconi  questo dall’aria mite, quasi bovina, è Cosimo Gasparini. Un tipo un po’ imbranato, ma buono, buono come il pane. Te n’ho già parlato: è stato il mio compagno di iniziazione sessuale, abortita almeno nel mio caso.
- Non ho presente.
- Dai, non ti ricordi della visita che ho fatto con lui al casino?
- Sì, è vero, è anche divertente.
- Sì, a pensarci adesso è divertente.
Si alza, a fatica, prende il bicchiere che ha sul tavolo e beve l’acqua a piccoli sorsi, come se deglutire quel liquido fosse già uno sforzo.
- Andiamo avanti. Qui ce ne sono due che non ricordo, non erano del paese e probabilmente li ho avuti compagni di scuola solo in quella classe. Non ti so dire altro.
Questo, invece, che ride a bocca aperta tanto da mostrare la mancanza di qualche dente, ha una storia particolare.
Fredin, vale a dire Alfredo Taraschi, bambino vivace e intelligente, era il migliore della classe; amava la vita, nonostante fosse povero tanto che quando tornava da scuolaandava a lavorare fino a sera nel negozio di un ciabattino. Eppure, la felicità sembrava appartenergli e sprizzava da tutti i pori, come testimonia anche questa sua risata al flash del fotografo. Non era il mio compagno di giochi durante le vacanze, che passava sgobbando a risuolare scarpe, ma, essendo del paese, ogni tanto ci si vedeva. Quello fu il suo ultimo anno scolastico e dopo ci fu solo lavoro; faticava, certo, ma era sempre contento. Piano piano mise da parte un gruzzoletto con cui rilevò la bottega; passavo di là e lui ribatteva i chiodi nelle suole, ma aveva sempre pronta una battuta scherzosa, insomma era un piacere fargli visita. Durante la guerra non fece il militare, perché soffriva di cuore, il che non gli impedì però di condurre una vita normale. Si sposò durante il conflitto con una bella ragazza, da cui ebbe un figlio. Era innamoratissimo e me lo diceva tutte le volte che lo vedevo  e la sua felicità mi era di conforto, perché vedere uno che è pienamente contento della vita non è frequente. Poi, si era nel 1954, una mattina non aprì bottega. Lo cercarono, per prima la moglie, senza trovarlo, ma quando si aprì il negozio lui era dentro, penzolante da una corda legata a una trave.
Fu un colpo per tutti e non avremmo mai saputo il motivo di quel gesto estremo se la moglie, in lacrime, non avesse parlato alla mia Tilde.
- Cos’era accaduto di tanto grave?
- Alfredo era tornato improvvisamente a casa dal negozio, o perché aveva dimenticato qualche cosa, o perché sospettava, e aveva trovato la moglie a letto con un uomo. Non disse nulla, rimase un attimo fermo sulla porta della camera da letto, poi ritornò sui suoi passi, ma prima di uscire esplose in una risata sguaiata, quasi agghiacciante.  
Guardo, più che altro per abitudine, l’orologio: segna le 21,30.
- Devi andare?
No – mi affretto a rispondere – posso restare ancora un bel po’, anche perché mi interessano i personaggi di questa fotografia.
- Bene, allora vado avanti perché adesso dovrebbe venire il meglio. Passiamo a quelli in piedi non sulla panca, insomma a quelli in prima fila.
Il primo da sinistra, con quell’aria un po’ arrabbiata, e già allora sembrava che l’avesse a morte con tutti, è Aldo Marchetti.
- Questo nome l’ho già sentito.
- Appunto, quello a cui ho dato un pugno il 9 settembre 1943, quello chiamato “Gerarchetto”. Già da bambino era un essere viscido, un compagno di cui mai fidarsi e per questo isolato da tutti. Privo di una propria personalità e di mediocri capacità pareva destinato a un avvenire in ombra, ma prima il fascismo, poi la guerra e l’armistizio badogliano gli vennero prontamente in soccorso. Erano tutte occasioni per lui  di mettersi in luce grazie a un minimo di potere che gli derivava dalla divisa e, finito il conflitto, dopo essere stato ben nascosto in una paesino di montagna, calmatesi le acque, riapparve, dedicandosi a una nuova e più proficua attività: la politica, in cui ne combinò di cotte e di crude. Con questo curriculum si presentò poi al Creatore, essendo arrivato al capolinea, e credo che Dio, nel giudicarlo, abbia fatto fatica a restare calmo. E’ un po’ che è morto, ma credo che se fosse ancora vivo farebbe parte della cerchia di amici ossequianti di quel piccoletto di Arcore che si crede una divinità e che invece è una nullità.
- Comunque anche lui è arrivato al capolinea, magari un po’ tardi, se su considerano le sue malefatte. Andiamo avanti.
- A essere sinceri mi sento un po’ affaticato e forse è meglio che proseguiamo un’altra sera.
Lo guardo: il respiro si è fatto affannoso, le mani gli tremano.
- Sì, Guercio, ci vediamo alla stessa ora e tu riposati, perché ci sono ancora un bel po’ di compagni di classe; buona notte, vecchio mio.
Gli esce un sibilo dalla bocca e comprendo che è il suo commiato; mi prende le mani e cerca di stringerle, ma non c’è più forza.
Vai – sospira.
Ed esco con il cuore in tumulto, sperando che lui ancora ci sia domani sera. 

                                 -°-°-°-

Ritorno la sera dopo, con il conforto di sapere che è ancora lì ad aspettarmi.
- Ciao.
- Ciao. Vogliamo proseguire?
- Ma certo.
Mi siedo accanto a lui con la fotografia in mano e noto – prima non ci avevo fatto caso – un bambino dal volto malinconico che si regge sulle stampelle.
Glielo indico.
- Guercio, chi è questo?
Non mi risponde e una lacrima fa capolino dall’occhio sano.
- Ti dispiace parlarne?
- No, solo che è una storia molto lunga.
- Va bene, racconta, magari saltiamo gli altri.
- E perché non nominarli? Ci accorgiamo degli altri solo quando le nostre strade siincrociano e allora comprendiamo che la vita di ognuno di noi è unica e irripetibile, anche la più oscura.
Per loro comunque sarò breve: questo biondino con la frangetta è Aldo Mercanti; subito dopo la scuola si è trasferito con i suoi a Varese e da allora non ne so più nulla. Ricordo solo che era tutto casa, scuola e chiesa.
- E il suo vicino, questo ciccione un po’ strabico?
- Quello non è morto, abita da un po’ di tempo in città; si chiama Alberto Gradi, più conosciuto, anche successivamente, come Pancho, e puoi ben capire il perché: l’ho sempre considerato un po’ tonto, ma mi sbagliavo, perché ha studiato con profitto e si è addirittura laureato in lettere, insegnando a lungo italiano al liceo.
- E quello dopo?
- Ne ho un vago ricordo; mi pare si chiamasse Giorgio, ma non mi viene in mente il cognome. Una brava persona che la campagna di Albania si è portata via.
Osservo attentamente il bimbo con le grucce e mi sembra quasi fuori posto fra quei suoi coetanei che potevano correre e giocare.
- Hai notato anche tu, vero, quegli occhi malinconici’
- Sì, e posso anche immaginare che il peso della sua disgrazia, per quanto accettata, lo ponesse sempre di fronte alla sua diversità, a quanto avevano gli altri che a lui era precluso.
- Hai detto bene. Diego, si chiamava Diego Accorsi, era stato colpito ancora in fasce dalla poliomielite. Allora non c’era il vaccino e i casi erano abbastanza frequenti, e lui era uno di questi. Bambino sensibile e anche intelligente portava in silenzio il suo dolore; mai che abbia percepito, anche dopo, un minimo d’invidia per la mia più fortunata condizione. Era buono e avendo compreso che dalla vita avrebbe potuto avere ben poco, viveva in funzione del suo fratello maggiore Piero, che venerava per la sua franchezza e la sua decisione. E questi stava quasi sempre con lui e se usciva di casa se lo portava dietro, cercando di fargli vivere la sua normalissima vita, cosa ovviamente spesso impossibile, soprattutto per certi eventi. Così Piero prese sempre meno ad uscire con Diego, quando trovò una ragazza che gli piaceva e che prese a frequentare. L’altro, poco a poco, finì per isolarsi in casa, pur continuando a venerare il fratello, ma credo che non sia difficile immaginare quanto anche lui desiderasse la carezza di una mano femminile, un profumo di donna che lo avvolgesse come in un bozzolo.
Trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò una lacrima; ormai la sua voce era rotta dall’emozione.   -Povero, Diego, una vita senza anche il più piccolo di quei rari piaceri che ci vengono riservati, tanto che penso sempre – e Dio mi perdoni – che era meglio se moriva da piccolo. La storia, però, è lunga per un altro motivo.
- Racconta, ma senza agitarti.
- Senza agitarmi…è una parola. Tutto ha inizio una sera del novembre del 1944. Piero erada tempo con i partigiani, mentre Diego era rimasto alla vecchia casa colonica con il padre (la madre era morta di tubercolosi un paio di anni prima). C’era freddo e una nebbia fitta avvolgeva ogni cosa, una condizione ideale per spostarsi senza essere scoperti ed è quello che deve aver pensato Piero, sceso al paese per incontrarsi con la fidanzata, il che effettivamente avvenne. Dopo un po’ di scambi di tenerezze, a notte ormai inoltrata, pensò che era giusto fare un salto a casa a salutare il padre e Diego, e così fece. Mentre raccontava ai congiunti la sua vita da patriota, la casa fu circondata dalle Brigate nere, che evidentemente dovevano avere avuto una soffiata. I tre fecero appena in tempo a rifugiarsi nel fienile, il vecchio padre in alto coperto dalla paglia, Piero sotto un vecchio trattore e  Diego rimase lì, per le sue difficoltà deambulatorie e anche perché contava sul fatto che la sua disgrazia avrebbe costituito una remora per le violenze degli sgherri. Non fu così: entrarono in dieci, capeggiati dai due fratelli Giovanni e Benito Aristarco e da Franco Bonvini, nomi all’epoca tristemente noti per i loro crimini efferati.
Gli chiesero del fratello e lui rispose che non lo vedeva da mesi; gli domandarono del padre e lui dichiarò che era a letto a dormire. Ovviamente non fu creduto e, prima gli spezzarono le grucce, di modo che ruzzolò a terra, e poi  lo presero a calci e a pugni, gli saltarono perfino sulla testa, fino a quando esalò l’ultimo respiro.
Piero vedeva e non poteva intervenire, perché disarmato; il padre, invece, fu colto da infarto alle prime sevizie inferte al figlio e morì così, coperto dalla paglia. Poi i criminali se ne andarono, non senza aver dato fuoco prima alla casa.
Piero fece appena in tempo a mettersi in salvo, pur con i capelli bruciacchiati e, mentre ritornava al suo reparto partigiano, fra un singhiozzo e l’altro, giurò che si sarebbe vendicato. E così fu.
Il giorno 6 gennaio 1945 fu ritrovato in riva al Po quel che restava di Franco Bonvini; secondo il maresciallo dei carabinieri l’uomo era stato torturato e infine tagliato in pezzi, con una sega, forse quando era ancora vivo. Non c’erano tracce, tranne un biglietto con su scritto: e ora tocca ai fratelli Aristarco.      
Il militare sapeva a cosa si riferiva quella scritta e chi era stato l’omicida, lo sapeva come lo sapevano tutti in paese, ma erano tempi bui, pericolosi e poi era già chiara l’imminente fine del regime, così che avviò le indagini con lo stesso zelo e celerità di una brigosa pratica amministrativa.
Per quanto ovvio  i fratelli Aristarco cominciarono a trascorrere dei giorni tremendi, spesso asserragliati in casa, oppure in giro con una scorta armata.
Giovanni Aristarco il 20 gennaio dovette uscire per motivi indifferibili di servizio e portò con sé cinque sgherri, ma alla sera non tornò nessuno e non se ne sarebbe saputo più nulla se ai primi di febbraio un contadino non avesse trovato nel suo campo una testa recisa dal tronco che il solito maresciallo identificò per quella di Giovanni Aristarco.
Poi non accadde più nulla, venne il XXV aprile con la liberazione e iniziò la caccia ai fascisti. Benito Aristarco fu arrestato con gravi accuse, ma mentre veniva trasportato alla casa circondariale della città alla scorta fu intimato l’alt da un gruppo numeroso e agguerrito di partigiani. Deposero le armi e consegnarono il prigioniero, come fu loro intimato. Questi venne interrogato da un uomo che qualcuno riconobbe come Piero Accorsi, poi fu ammazzato di botte.
Perché interrogarlo, ti chiederai? Per sapere chi aveva fatto la soffiata ed ebbe la risposta: il  farmacista del paese, un delatore per vocazione. Io lo so, perché Piero mi ha raccontato tutto.
Poi, passati i primi mesi di pace, con il progressivo ristabilirsi dell’ordine, vendicarsi sul farmacista diventava problematico. Piero, però, escogitò un sistema del tutto ingegnoso, contando sul fatto che la sua futura vittima temesse di essere identificata come l’ignoto delatore e fece in modo che questo avvenisse in via del tutto casuale.
Il farmacista viveva pressoché barricato nel suo negozio e Piero, come qualsiasi persona del paese, non mancava di fargli visita per le sue necessità.
Entrava e ordinava un cachet contro l’emicrania, aggiungendo  “Ho un mal di testa che me la taglierei. Forse anche Giovanni Aristarco soffriva di emicrania”. Si divertiva a guardare l’uomo dall’altra parte del banco che sbiancava e che gli consegnava il medicinale con mano tremante.
Non mancavano poi le minacce anonime, biglietti fatti trovare sulla porta, del tipo “Manchi solo tu.”, oppure “i traditori finiscono tutti male.”.
Era un autentico bombardamento  e l’acme avvenne sotto Natale. Approfittando del fatto che in negozio non c’era nessuno,  Piero entrò con gli occhi sbarrati, fissò il farmacista e disse solo due parole:  a presto.
Per Natale e Santo Stefano il negozio resto chiuso, ma non aprì nemmeno quando finirono le feste, la gente, che necessitava di medicinali, era impaziente e bussava alla saracinesca, senza ottenere risposta.
Fu chiamato il maresciallo dei carabinieri e il fabbro, cioè io, e si decise di forzare la serranda. Così feci e una volta entrati non potemmo che guardare sgomenti il farmacista penzolare da una corda legata a una trave del soffitto. Sul banco c’era un biglietto, vergato con una grafia tremante, con su scritto “chiedo perdono.”.
Ovviamente non ci furono altre vittime, la vendetta era compiuta e Piero venne da me con le lacrime agli occhi, dicendomi: << Dovevo farlo, per mio padre, soprattutto perDiego, ma ora mi sento la bocca amara, come se avessi mangiato del fiele. Guercio, credevo che vendicandomi tutta questa rabbia che mi era nata dentro se ne uscisse senza mai più tornare e invece mi accorgo che ora ho un vuoto che mi rode dentro. Forse è il rimorso, è come se la vendetta avesse colpito anche me. >>
- Posso capirlo. E poi com’è andata a finire’
- Dopo un paio di mesi è andato via. C’è chi dice che è emigrato in Australia, c’è chi invece sostiene che è andato a cercar fortuna, e forse pace, in Canada. Comunque da allora di lui non ho saputo più nulla.
- È partito con la fidanzata?
- No, si erano già lasciati alla fine del 1944. Piero Accorsi era diventato ormai un uomo incapace di amare.
- Una storia triste, che lascia appunto l’amaro in bocca.
- È vero, con tutti quei morti, fra i quali metto anche Piero, morto dentro.
- Beh, si è fatto tardi. Vado a casa. Buona notte.
- Tornerai un’altra sera?
- Lo spero.
- Buona notte amico mio.

Esco, l’aria è opprimente, c’è un puzzo di erba marcia, di materiale biologico in decomposizione. Penso a Piero, che non ho mai conosciuto, e spero per lui che, ovunque sia, abbia ritrovato il senso e il piacere di amare. Affretto il passo, ho bisogno di respirare un’aria diversa, non solo quella gradevole che esce dal climatizzatore, ma un aria che sappia di vita, di speranza, di amena e ineguagliabile serenità  Arrivo alla farmacia ed è aperta per turno. Entro e mi viene chiesto: - Di che ha bisogno?
- Di niente, mi scusi.
E guardo il mio interlocutore, una graziosa biondina che ha un sorriso fra il meravigliato e l’incredulo.
- E allora perché è entrato?
- È una storia troppo lunga, di tanti anni fa, e poi sono sicuro che non la interesserebbe. Mi scusi ancora e buona notte.
- Si riferisce a mio nonno che qui si è ucciso?  Poveretto, all’epoca era già vedovo e aveva perso la testa per una donna che non contraccambiava.
La guardo, la verità non è quasi mai bella e non voglio che altri abbiano motivo di soffrire.
- Sì, una vicenda triste, ormai lontana. Piuttosto, mi sta venendo l’emicrania. Avrebbe un cachet?
Me lo porge, pago ed esco, non senza che ci siamo scambiati la buona notte.
Affretto il passo, si è fatto tardi, è ora che vada a dormire.



Da Storie di paese


Gli occhi di Venezia, di Alessandro Barbero




Gli occhi di Venezia
di Alessandro Barbero
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Pagg. 434
ISBN 9788804639145
Prezzo € 10,50



La giustizia della Serenissima



Già ho avuto modo di apprezzare Alessandro Barbero come storico, di cui ho letto due saggi: l’interessante e convincente 9 agosto 378 il giorno dei barbari e lo stupendo La battaglia Storia di Waterloo. Mi piacciono il suo stile semplice, ma non povero, la capacità di approfondire senza risultare greve e in generale quella dote non frequente, ma che fa la differenza, vale a dire la straordinaria attitudine a coinvolgere il lettore. Quando sono venuto a conoscenza del fatto che è anche autore di romanzi storici (con uno, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, ha vinto addirittura nel 1996 il Premio Strega) ho voluto immediatamente leggerne uno e la mia scelta è caduta su Gli occhi di Venezia, sia per il periodo – il XVI secolo, che per me di notevole interesse – in cui si svolge la vicenda, sia perché, come riportato nel risvolto di copertina, la storia é veneziana, cioè nasce nella città lagunare quando ancora  l   a Serenissima era una grande potenza mediterranea. Ebbene, non solo l’ho letto, ma si potrebbe anche dire che l’ho divorato, tanto è appassionante e quasi tiene incollato dalla prima all’ultima pagina (e le pagine non sono proprio poche, ma ben 434). Il Doge, il Consiglio dei Dieci, questo potere che ha ovunque occhi per perpetuarsi, i mille giochi segreti dei nobili che contano e che amministrano una ferrea giustizia francamente di parte occupano una parte non indifferente di questo volume, da cui esce l’atmosfera opprimente di una oligarchia che a Venezia fa il bello e il cattivo tempo. Sono rari i condannati delle classi alte e privilegiate, mentre risultano frequenti e anche eccessivamente dure le pene a carico dei poveri, magari per reati di poco conto e sovente solo per una critica in pubblico all’operato del governo. Non manca tuttavia l’avventura vera e propria, con viaggi, per mare e per terra, negli immensi territori dell’Impero Turco, fra miseria e opulenza sfacciata. A ciò aggiungasi la storia d’amore fra Michele e Bianca, novelli sposi, ma ben presto separati a causa di una giustizia che, per far piacere a chi è potente, se la prende con i deboli. Tuttavia, dopo mille peripezie e per l’interessamento della moglie di un nobile potranno incontrarsi nuovamente, lui ottenendo giustizia, non tanto per la sua innocenza, ma perché nel gioco delle ambizioni di chi conta fa comodo assolverlo e riabilitarlo, non senza che prima si volesse considerarlo reo per quanto incolpevole.
Il lieto fine ci sta tutto, con la punizione anche di nobili traditori e ladri, ma in bocca resta un retrogusto amaro, con quella conferma che la giustizia usa una bilancia con due pesi e due misure, distinguendo fra chi ha potere e chi invece è un povero diavolo.
Il romanzo è molto bello, avvincente, e quindi la lettura è indubbiamente consigliata.


Alessandro Barbero insegna Storia medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, sede di Vercelli. Studioso di prestigio, noto al largo pubblico, ha pubblicato molti volumi. Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo è il primo dei suoi romanzi di successo (Premio Strega 1996, tradotto in sette lingue), al quale altri sono seguiti, tutti editi da Mondadori. 


Recensione di Renzo Montagnoli


Il tocco abarico del dubbio, di Angela Caccia



Il tocco abarico del dubbio
di Angela Caccia
Prefazione di Anna Maria Bonfiglio
Fara Editore
Poesia
Collana Il filo dei versi
Pagg. 96
ISBN 978 97441 62 5
Prezzo € 10,00


L’importanza del dubbio


Mi sia consentita una doverosa, ma anche opportuna premessa: quando ho avuto per le mani questo libro, mi sono subito chiesto che cosa potesse avere a che fare con la poesia un termine geografico come “abarico”.  Per chi non lo sapesse, onde anche evitare una sua ricerca su un dizionario, per abarico si intende quella zona in cui le forze di gravitazione della terra e della luna si annullano, generando il cosiddetto punto zero. Lì, in campo neutro si potrebbe dire, si inserisce il dubbio, che non porta né alla verità, né alla menzogna, ma che ha il pregio non indifferente di mettere in discussione tanti concetti atavici precostituiti, stimolando una ricerca di conoscenza che porta gradualmente a una maggiore consapevolezza di ciò che siamo. Il dubbio quindi non è un elemento negativo, anzi si potrebbe dire che senza di esso l’evoluzione umana non sarebbe stata possibile; l’unico vero problema è che come si procede nella ricerca della conoscenza, sanando tanti dubbi, ne intervengono anche di nuovi.
La limitata condizione dell’essere umano, la temporaneità della vita sono tutti fattori che portano alla crescita dei dubbi, ma del resto non oso nemmeno immaginare come potrebbe essere un’esistenza fatta di certezze acclarate e dimostrabili; con ogni probabilità sarebbe del tutto piatta, grigia e monotona.
Nel leggere i versi delle belle poesie che compongono questa silloge emergono i dubbi dell’autore, dubbi relativi a quelle che credevamo certezze e invece non lo sono, dubbi legati alle aspettative ultime degli esseri umani (che ci sarà dopo la morte?) e anche dubbi sul come abbiamo impostato la nostra esistenza, sulla nostra limitata scelta di un ruolo che è soprattutto determinato dalle convinzioni della società in cui viviamo.
Sostanzialmente la silloge è strutturata in cinque sezioni, ognuna delle quali è preceduta da una breve prosa poetica, una sorta quasi di introduzione; in queste sezioni vengono trattati i tanti temi dell’esistenza, che riguardano tutti e che perciò prima o poi dobbiamo affrontare.
Di particolare ricerca è poi l’uso dei termini nelle varie poesie (verbi, sostantivo, aggettivi)  sovente inconsueti, tanto che sembrano, anche se non lo sono, inventati, del tipo  sgamare, bercio, valva, ecc. Non sono messi lì per dimostrare il grado di erudizione dell’autore, ma sono quelli più appropriati per giungere a esprimere concetti in aura poetica, vale a dire per accompagnarli dalla indispensabile armonia, e a proposito di questa il ritmo è necessariamente lento e per assimilarlo a un termine musicale potrebbe essere definito un adagio maestoso; d’altra parte questa studiata lentezza è quanto mai opportuna perché questa è poesia di meditazione, perché sono liriche, che nel portare il sentire di Angela Caccia, invogliamo a riflettere, vengono a toccare i nostri dubbi, portano a un necessario confronto e, soprattutto, mettono in discussione alcune nostre certezze. Ora qualcuno potrà anche pensare che non ha senso leggere una simile poesia, se conduce a un superlavoro di meningi, al che obbietterei che l’intelligenza non è materia inerte, ma è fatta per essere esercitata e che la conoscenza di noi non solo non è mai superflua, ma è addirittura indispensabile.
Fra l’altro, se poi è della morte e sul dopo soprattutto che si parla, credo che in materia un confronto di opinioni, per quanto lontanissimo dall’essere risolutivo (con ogni probabilità non lo sarà mai), ci possa condurre però ad accettarla come una fase di un’esistenza che si avvia con la nascita e finisce con la dipartita. Non si troverà la soluzione se c’è sicuramente un dopo, ma senz’altro, con l’accettazione di un termine, si darà più valore alla vita, si cercheranno di riconoscere e di cogliere le tante opportunità che essa ci offre.  Nulla deve andare sprecato e solo allora, cioè quando potremo dire di aver vissuto pienamente, quel salto nel buio ci farà meno paura, che siamo o no credenti.
Da leggere, ci mancherebbe altro.

Angela Caccia è nata e vive Cutro (KR). Tra i concorsi vinti: Piazzetta (Salerno), Siracusa, Feile Filiochta International Poetry Competition 2003 (Dublino), Fiurlini(Olanda), Colapesce 2011, medaglia Presidente Repubblica al premio Insanamente 2012 (Rimini), Convivio 2012 (Giardini Naxos). Nel fruscio feroce degli ulivi (Fara 2013, prefato da Davide Rondoni, ha vinto il Premio Massa Città fiabesca e il Concorso Città di parole – Firenze; II class. al Premio Pascoli Barga; III class. Ai premi Di Liegro 2013 e Camposampiero 2014).


Recensione di Renzo Montagnoli