martedì 8 dicembre 2015

Natale 2015 - I racconti



Auguri di Natale
di Adriana Pedicini



Sulla tavola la tovaglia in canapone di Maratea, su di essa le testine ricamate di babbo natale al centro  scuotono i berretti tintinnanti, all’orlo campanule e rametti di pungitopo e nodi rossi di nastro. Tutto sembra vivo e non effetto di vivide stampe tra il luccichio ambrato delle stoviglie.
Nel tinello, in attesa Mara e Fabrizio, seduti a guardare il monitor del televisore. Mi giunge in cucina il suono scrosciante del riso di mio figlio che ridiventa fanciullo alle sequenze dei cartoni animati: noto con disappunto che non si stende come una volta sulla poltroncina di vimini con i piedi poggiati sul ripiano del cassetto.
Sulla poltroncina siede la sposa dal volto di adolescente. Il pranzo è in tavola.
 Alla sinistra del padre siede oggi come una volta  Fabrizio: è uomo e bambino.
Per me i bambini appaiono e scompaiono; sono scomparsi..….. non spunta alcun angolo bianco di buste natalizie dalle pieghe dei tovaglioli. Ora solo i miei occhi malinconici di anni ammucchiati le scorgono …..lontane, velate dai vapori dietro i vetri color ghiaccio. Solo i miei occhi rivedono i miei righi affrettati e i volti di mio padre, di mia madre,delle sorelle, dei fratelli. Le sedie su cui ognuno di noi all’impiedi doveva recitare la poesia natalizia se voleva il regalino agognato. Sento ancora sul viso il bruciore delle guance arrossate per la vergogna puerile.
Squilla il telefono. Risponde il capofamiglia: “Antonio, Lorenzo, come state? Affettuosi auguri. Vi passo Pina”.
“Oh, Lorenzo, ci hai preceduto. Buon Natale, ti passo Mara, Fabrizio. Oggi sono con noi”.
 -Ho sognato che era nato un maschietto con gli occhi neri…. Ma non sono più mia madre, mio padre. Un Natale in quattro, non più in sei, non più in cinque- vado rimuginando da sola in silenzio.
Seggo all’angolo del tavolo, verso la porta. Sorrido dolcemente a Mara, l’esorto a mangiare: ora deve mangiare per due.
Cerco di spostarmi sempre più verso l’angolo, per prendere meno posto, vorrei che il mio viso sparisse dietro il  vapore profumato delle pietanze e un altro ne apparisse per lei noto e amato, svanito e rimpianto. Sono una madre, ma non la sua.
I miei sguardi carezzano il giovane viso di mio figlio, di mia nuora, un’altra figlia. La mia voce ha toni di parca allegria.
Bisogna telefonare agli zii in America. Glielo abbiamo promesso.
Se ne incarica mio marito “ Oh, sì…vi sento benissimo, Merry Christmas e Buon Natale a tutti, la piccola Sonja come sta? Auguri, auguri! Qui c’è tutta la famiglia Brambilla, ti passo Pina…Fabrizio…Mara…; James, cari auguri….grazie, Billy…il mio amico cane? Sì, sta bene”.
Fabrizio: ”Sono l’ultimo, passo e chiudo”.
“Aspetta, passami Lizzie” si precipita il capofamiglia ad afferrare la cornetta del telefono.
“Lizzie, il Palazzo di vetro (di New York) è ancora a posto? Se dovesse muoversi, mandami subito a chiamare…ci penso io”.
Il nostro spumante forse non è ottimo, tuttavia si brinda. Di tempo ce n’è, non lo abbiamo sprecato a parlare tra di noi. Ognuno ha dialogato o con la nostalgia o con il dolore o con la speranza. Il capofamiglia con la noia di sicuro.
Un altro Natale!
L’anno venturo saremo in cinque.
Bisognerà lavare la tovaglia, vi sono parecchie macchie.




Il Natale di Pinocchiessa
di Domenica Luise


Non tutti sanno che Pinocchio aveva una sorella gemella, figlia dello stesso tronco.
Mastro Geppetto la fece nei ritagli di tempo, con lunghi capelli di granturco, la bocca dipinta di rosso vivo e due piccole pietre nere, rotonde e levigate, al posto degli occhi. Quello che tuttavia gli riuscì meglio fu il naso, che era quasi invisibile. La vestì con un vecchio quotidiano trovato ai giardini pubblici e le mise, unico lusso, un fiocco di raso celeste tra i capelli.
Pinocchio e Pinocchiessa litigavano sempre e, a furia di bugie, i loro nasi divennero robusti, coriacei e sempre più lunghi.
Sembravano due stecchi vestiti, cosa che in effetti erano.
<Non diventerai mai un bambino di carne e ossa, sei troppo bugiardo> diceva lei.
<Non diventerai mai una bambina di carne e ossa, sei troppo bugiarda> ritorceva lui.
Ogni sera Geppetto regolava al minimo i due nasi, che però il giorno dopo ricrescevano subito.
Benché fossero di legno, mangiavano come due veri bambini affamati.
Geppetto si mise a vendere prodotti da barba e rasoi di sicurezza pur di fare qualche soldo e mantenere i figli. Incominciava a racimolare i primi clienti, quando Pinocchio fuggì dietro al teatro dei burattini non tanto per scansare la scuola, dove era in ogni caso il primo in ignoranza e bestiologia, quanto per arraffare una marionetta bionda, riccia, con lunghe ciglia ed abito scollacciato.
Pinocchiessa fu chiusa al Pio Istituto delle orfanelle derelitte e Geppetto, col suo fagotto in spalla, partì per cercare Pinocchio.
Le orfanelle erano sempre tristi e a Pinocchiessa facevano pena. Si sentiva come un pezzo di legno più morbido nel centro del petto. Ce n’era una, in particolare, piccola, magra, con gli occhiali e una cipolla di capelli castani sul cocuzzolo. Si chiamava Maria Magda. Spesso restava a letto malata, Pinocchiessa giocava con lei e le raccontava un mucchio di bugie:
<Sono una principessa rapita dai briganti, mi hanno derubata dei miei abiti di seta e dei gioielli per abbandonarmi, quasi nuda e morta di fame, davanti a questo istituto>.
<Apposta sei così magra?> chiedeva Maria Magda accarezzandole una spalla di legno.
<Apposta> rispondeva Pinocchiessa, e ricominciava a raccontarle del suo castello con più di duecento stanze e trenta giardini, del re e della regina, suoi genitori, del fratello Pinocchio, principe ereditario, di tutti i giocattoli con i quali si divertivano quotidianamente, compreso un cavallo alato meccanico a cavalcioni del quale andavano a scuola, dove erano naturalmente i migliori della classe, anzi della nazione.
Il naso le cresceva regolarmente ed ogni sera la burattina se lo tagliava alla buona con un coltello rubato in cucina.
No che non si facesse male perché, pur essendo di legno, aveva quasi la stessa sensibilità di un naso normale umano. Avrebbe pianto tanto volentieri, ma non sapeva come si fa. Al posto del sangue usciva un pochino di segatura, Pinocchiessa si puliva col fazzoletto, si lisciava con la carta vetrata ed era come nuova.
Se l’avesse finita di raccontare bugie il naso sarebbe rimasto normale, ma Maria Magda sembrava assetata di quelle storie, si divertiva, fantasticava ed era più ammalata che mai.
Di giorno in giorno le bugie diventavano raffinate ed il naso sembrava un monumento.
Maria Magda aveva preso il raffreddore, che le durava da venti giorni. Il termosifone della sua stanza era sempre acceso.
E venne il Natale. Fatta la colazione, le orfanelle, le istruttrici e finanche il direttore con i suoi assistenti partirono per la messa, dopo avrebbero pranzato a casa di un benefattore, che li aveva invitati tutti.
Pinocchiessa volle restare con Maria Magda al posto di una giovane domestica. Le fecero tante raccomandazioni, carezze e promesse:
<Vi porteremo il pacchetto dei vostri pranzi, il panettone e la crema al cioccolato>.
<Vi porteremo i vostri regali>.
<Pregheremo per voi>.
Appena uscirono, si bloccò la caldaia elettronica e si spensero tutti i termosifoni.
Dapprima non se ne accorsero.
Pinocchiessa creava favole di corteggiatori che duellavano per avere il suo fazzolettino di batista ricamata. L’altra beveva avidamente ogni cosa.
Infine Pinocchiessa si tolse il fiocco di raso celeste, unico ricordo del suo papà, e lo porse a Maria Magda : <Tieni, è un regalo di Natale>.
<Oh…> rispose Maria Magda, ed incominciò a tossire. Pinocchiessa la coprì meglio e le diede lo sciroppo al lampone.
<Quando ero nel mio palazzo abbiamo fatto un ballo in maschera> affermò.
<E tu com’eri vestita?>
<Da fatina coi capelli turchini ed avevo centinaia di questi nastri>.
<Oh…> ripeteva Maria Magda sognando, subito dopo : <Fa freddo>.
<Mettiti sotto, più sotto> rispose Pinocchiessa. Nevicava.
<Fa freddo> gemeva l’altra stringendo il nastro nel pugno. Pinocchiessa si accorse che il termosifone era spento, allora si tolse il vestito e lo mise sulle altre coperte, ma era solo un vestito di carta.
<Fa freddo>.
Pinocchiessa si ricordò di quando Pinocchio si era bruciato distrattamente i piedi e Geppetto glieli aveva rifatti  meglio di prima, ma decise, in assenza del padre, che fosse più prudente bruciare il solo naso.
<Che bel calduccio> sorrise Maria Magda. Il naso bruciò e dopo un poco Maria Magda ripeté: <Fa freddo> e riprese a tossire.
Allora Pinocchiessa si bruciò i piedi, dopo le gambe, il braccio sinistro, i suoi bei capelli di granturco, che sembravano veri ed alla fine divampò tutta mentre l’altra diceva: < Che bel calduccio, sono sicura che guarirò>.
Ultimo bruciò il cuore e fu pura delizia, tanto che Pinocchiessa sentì una lacrima e dopo un pianto che le veniva, ma non dagli occhi. Allungò una mano, strano, ma non era divampata?
Toccò i suoi lunghi capelli rossi e ricci, che sembravano pannocchie di granturco.
Indossava un abito di raso celeste ed era una bambina di carne, ossa ed anima.
Ai suoi piedi c’era una cucchiaiata di cenere e due sassolini neri, rotondi e levigati.



Il Natale è arrivato
di Domenica Luise



Il manager portava uno spezzato con pantalone grigio perla in fresco di lana e giacca nera monopetto a sottili righe grigie, cravatta grigia a pois neri dove, di tanto in tanto, spiccava un rettangolino rosso, gli piaceva quel tocco di stramberia, fazzoletto rosso con iniziale nera affinché si capisse subito quale fosse il suo orientamento politico e tutti lo guardassero perplessi, curiosi, speranzosi che si accorgesse di loro, comunque ipnotizzati dalla sua figura, dono di natura e di palestra. Si era fatto, di nascosto, l'autotrapianto dei capelli e aveva la dentatura finta perfetta che nessuno l'avrebbe detto, quindici anni di meno, una bellezza accanto a sua moglie un poco sfatta dopo i tre figli.
Era di nuovo Natale, arrivava sempre troppo presto. La sua segretaria avrebbe avuto un bel da fare a cercargli gentili omaggi per quelle che, ridendo tra  e , chiamava le sue ammiratrici, in realtà compagne occasionali in viaggi di lavoro, alberghi sempre di lusso, macchine mostruose con autista e vetri offuscati. Il Natale l'aveva sempre annoiato con quei regali, fiori, panettoni obbligatori che tutti si aspettavano. La donna che puliva gli uffici, quest'anno, avrebbe avuto una buona mancia, si era ricordato di non farle consegnare il solito panettone, se quella li lasciava non sarebbe stato facile trovarne un'altra così onesta, gli aveva restituito il portafogli con dentro quasi diecimila euro che gli era caduto dalla tasca in un amplesso occasionale  con una ragazza in  cerca di lavoro.
Per la moglie un collier di brillanti, no giro collo, lungo, così non avrebbe messo un evidenza le rughe o magari un bracciale di brillanti, un anello no.
Sospirò. Ai figli un assegno, ai domestici di casa soldi, alla chiesa l'offerta, agli enti benefici ancora soldi, non gli andava di recitare la parte del taccagno. Ma i prepotenti che gli stavano addosso per avere una buona fetta dei suoi guadagni avrebbero fatto, come ogni mese, la parte del leone e questo non si poteva evitare per quanto i suoi avvocati fossero abilissimi a nascondere i guadagni e così, almeno, risparmiare col fisco e con la mafia.
Recitava la parte dell'uomo sicuro, ma in realtà era un pauroso che voleva stare in pace con tutti e nel frattempo gli piaceva divertirsi, tanto la moglie non diceva mai niente e non era così intelligente da accorgersene.
Oppure taceva e soffriva come sanno fare le donne. Il manager sbadigliò.
Qualcuno bussò lievemente alla porta e vide che era la domestica. Cicciottella, biondo finta, cappottino del mercato e sciarpa pure, geloni e punta del naso rossa. Aveva in mano un pacco rotondo e un gran sorriso sdentato.
<Dottore>, disse <volevo farle gli auguri di buon Natale e le ho portato un pensierino, un dolce fatto da me che mi viene buonissimo>.
<Ma perché si è disturbata?> fece lui convenzionale e un pochino infastidito per quest'invadenza del Natale per forza, che ogni anno irrompeva nelle sue giornate.
<La sua segretaria mi ha dato da parte sua un grosso assegno ed io voglio ringraziarla, ho due bambine e il marito con problemi di salute, grazie a lei passeremo un Natale felice>.
Dal pacco infiocchettato di lei uscì un delizioso effluvio e il manager si ricordò di essere morto di fame.
<Deve essere una torta veramente buona> affermò, <manda un odore...>.
La donna allungò le braccia e l'appoggiò in un angolo libero della scrivania. Egli notò la finezza della carta e la cura con cui era stato infiocchettato il grosso pacco, poi le guardò le mani callose.
<Vuole sedersi e prendere un bicchiere di vino con me? O magari di champagne>.
Lei arrossì e si sedette. Venne la segretaria e bevvero il moscato insieme perché le due donne lo preferirono. La torta era all'altezza delle aspettative. Chiamarono anche tutti quelli che trovarono lì intorno, risero e si abbracciarono senza malizia. Il manager provava un confuso sollievo, un ricordo di mamma e di altri Natali quasi dimenticati o voluti dimenticare.
<Signora> disse alla segretaria, <non si preoccupi del regalo per mia moglie, preferisco sceglierlo io, anzi usciamo tutti due ore prima e andiamo a festeggiare>.
Gli tremò la voce stranamente e i dipendenti videro che era commosso.
Scelse un anello con un solitario purissimo, grande e lucente come una stella e per il resto della vita non avrebbe potuto mai dimenticare lo sguardo di quella sua piccola moglie sfatta e l'abbraccio e le lacrime e poi come piansero insieme a lungo e i baci salati, ma dolcissimi.



Il soldatino di piombo
di Hans Christian Andersen


Mamma, guarda come sono belli! - Esclamò il bambino saltellando dalla gioia.
Il coperchio della scatola di legno, aperto con impazienza, fece ammirare una ventina di soldatini di piombo allineati come in una parata.
Le uniformi rosso fiammante davano ai piccoli militari un fiero portamento: giacche scarlatte, pantaloni blu scuro, copricapi neri con piume rosse e bianche.
Ognuno portava con fierezza il suo fucile.
Il bambino li prese uno ad uno e li mise sul tavolo, guardandoli meravigliato.
L'ultimo gli sembrò molto curioso: rimaneva perfetta-mente diritto, magnifico come il resto della truppa... ma aveva una gamba sola!
Malgrado questo difetto, o forse proprio per questo, aveva uno sguardo più fiero, più audace degli altri.
Subito, il ragazzino lo prese in simpatia e divenne il suo soldatino preferito.
Sulla tavola si trovava anche un castello di carta... Con il tetto d'ardesia, le mura di pietra con i riflessi dorati, la scala con le ringhiere in ferro, questo castello assomigliava ad un maniero feudale.
Era in mezzo ad un parco verdeggiante ricco di alberi e piante multicolori.
Due cigni bianchissimi navigavano maestosamente in un lago di carta argentata.
Ma la cosa più interessante era una graziosa ragazza che stava sulla porta d'entrata: i biondi capelli raccolti in trecce, gli occhi limpidi come l'acqua del lago, il sorriso dolce e attraente, la rendevano la più bella delle ballerine.
Un vestito etereo, stretto in vita, la faceva sembrare ancora più delicata e fragile.
Con le braccia alzate sopra la testa, rimaneva in perfetto equilibrio sulla punta di un piede.
L'altra gamba, tesa in aria, era in parte nascosta dall'ampia gonna.
Dopo essere uscito dalla scatola, il soldato, attratto dalla bellezza della ballerina, non smise di guardarla nemmeno un attimo.
Egli credeva che avesse una sola gamba come lui e questa supposta infermità rinforzava il suo amore appena nato.
Cercò allora di conoscerla e decise di andarle a far visita appena fosse venuta sera.
Per far ciò, era indispensabile che il bambino si dimenticasse di allinearlo nella scatola.
Il soldatino si lasciò scivolare dietro ad un cofanetto e li rimase sdraiato ed immobile.
Come previsto, il bambino rimise i suoi soldati nella scatola dimenticandosi del nostro eroe!
Venuta la sera, il silenzio invase la casa.
Tutti i suoi abitanti dormivano tranquillamente... ad eccezione dei giocattoli.
Nella penombra, incominciò una folle scorribanda: i palloni giocarono ai quattro cantoni, gli animali di peluche fecero alcune piroette e i soldatini di piombo sfilarono al suono del tamburo di un clown variopinto.
In mezzo a tutta questa agitazione, rimanevano tranquille solo la ballerina di carta, che rimaneva nella sua posa acrobatica, e il soldatino di piombo che, nascosto dal cofanetto, continuava a fissarla.
Malgrado la sua aria marziale e la sua prestanza, era timido e ritardava di minuto in minuto il momento dell'approccio.
Questi momenti di esitazione gli furono fatali!
Tutto preso dalla contemplazione della ballerina, il soldato di piombo non si accorse di un losco figuro, uno gnomo nero e gobbo come un diavoletto.
Innamorato follemente della ragazza, vedeva nel soldatino un rivale pericoloso, giovane e bello.
Cieco d'invidia, lo chiamò più volte, ma il giovane militare non lo ascoltò neppure.
Allora lo gnomo lo fulminò con gli occhi e lo minacciò:
- Tu mi ignori! Ma ti accorgerai di me ben presto...
Il mattino seguente il bambino si accorse che il soldatino di piombo era rimasto nascosto dietro al cofanetto; lo prese e lo posò sul davanzale della finestra.
Immediatamente, un malaugurato soffio di vento, o forse il soffio vendicatore del rivale, lo fece cadere nel vuoto.
Girando su sé stesso, la testa in basso e i piedi in alto, cadde vertiginosamente.
Non potendo chiudere gli occhi, vide avvicinarsi spaventosamente il terreno.
Quando toccò il suolo, la sua baionetta, con la violenza del colpo, si infisse nell'asfalto e così restò, capovolto.
Il bambino si precipitò in strada per cercarlo, ma le carrozze e i passanti lo nascosero ai suoi occhi.
Disperato, ritornò a casa, piangendo la perdita del suo soldatino preferito.
Improvvisamente cominciò a cadere una violenta pioggia estiva.
In un attimo si formarono rivoli di acqua che inondarono gli scarichi che portano alle fogne.
Due sfaccendati videro il soldatino di piombo ed ebbero la curiosa idea di metterlo in una barchetta di carta che stavano costruendo.
Poi deposero l'imbarcazione sull'acqua.
Sballottato, il fragile scafo fu rapidamente preso dalla corrente turbolenta e scomparve in un gorgo buio.
Il soldatino, convinto che il responsabile delle sue disavventure fosse lo gnomo, pensò che fosse giunta la sua ultima ora.
Passò momenti interminabili nell'oscurità, bagnato dagli spruzzi dell'acqua agitata.
Nessun dubbio! navigava nelle fogne...
Infine vide la luce del sole in lontananza.
La luce si fece sempre più forte e divenne un grande orifizio aperto sulla campagna e la liberta.
- Uff! Sono sano e salvo... Sono scampato all'inferno. - Pensò il soldatino sospirando con sollievo.
Invece i suoi dispiaceri non erano finiti: un'enorme topo di fogna dall'aria feroce, bloccava l'uscita.
I suoi occhi acuti avevano notato il naufrago che stava cercando una via d'uscita.
La corrente era cosi forte che il topo, malgrado le sue cattive intenzioni, non poté prenderlo e con rabbia in cuore lo vide allontanarsi...
Dopo l'ultimo scampato pericolo, la barchetta di carta continuò il suo viaggio attraverso i prati e i campi.
Il corso d'acqua s'allargò diventando un ruscello.
In piedi sull'imbarcazione, il soldatino di piombo osservava i fiori che ornavano le rive tranquille.
Dopo questa momentanea calma, i flutti ridivennero violenti, il ruscello si trasformò in una cascata che si riversava in un lago.
Presa da queste correnti, la barca non riuscì a resistere e si capovolse.
Il soldatino di piombo colò a picco.
Addio graziosa ballerina!
Un enorme pesce che girovagava lo prese per una preda di cui era molto goloso, in un solo boccone lo afferrò e lo inghiotti tutto intero.
Per il soldatino di piombo ci fu di nuovo l'oscurità...
Poco dopo, il pesce venne catturato dalla rete di un pescatore del mercato.
Il caso volle che il pesce fosse proprio comprato dalla cuoca al servizio dei genitori del bambino.
Aprendo il ventre dell'animale per pulirlo, fu meravigliata di trovarci il soldatino perduto.
Lo mise sul tavolo, vicino al castello di cartone.
La ballerina gli mandò un sorriso così dolce da cui capì che anche lei lo amava.
Che felicità dopo tante peripezie!
Ma lo gnomo non aveva ancora rinunciato alla sua vendetta.
Malgrado i suoi sortilegi, infatti, i due giovani si amavano.
Per farla finita suggerì al bambino di sbarazzarsi del soldatino con una sola gamba che rovinava la sua collezione.
L'ingrato, dimenticandosi del suo preferito, lo gettò nel caminetto.
Il soldatino si sciolse rapidamente per il calore, ma la testa, ancora intatta, continuava con gli occhi tristi bagnati di lacrime di piombo, a fissare la ballerina. All'improvviso s'aprì violentemente la porta, una corrente d'aria invase la stanza scaraventando il castello di carta sulle braci ardenti.
Nello stesso istante prese fuoco e bruciò.
Il giorno seguente, facendo le pulizie di casa, qualcuno mescolò le ceneri, ignorando, contrariamente alle intenzioni del diavoletto, di unire per l'eternità il soldatino di piombo e la ballerina di carta.
A meno che il vento non disperda il piccolo mucchio di polvere grigia”




Lo straniero
di Piera Maria Chessa



Stava sempre lì, vicino al supermercato, nella via che portava proprio fuori città.
Fiorella lo incontrava quando usciva per fare degli acquisti, ma anche quando, con passo svelto, si accingeva a fare una delle sue lunghe consuete passeggiate.
Non ne conosceva il nome, ma per tutti gli abitanti del quartiere era lo straniero, termine usato con accezioni diverse.
Per la maggior parte delle persone veniva pronunciato con simpatia a causa dell'accento, da qualcun altro, non privo di pregiudizi, con diffidenza, se non con un'irritazione a malapena simulata.
Fiorella voleva invece saperne di più. Non le bastava lasciargli qualcosa ogni volta che lo incontrava, le sembrava sempre così poco! Ma anche lei, per via della crisi, doveva stare attenta nell'uso del denaro. Voleva tuttavia potergli parlare, sapere qualcosa di più, e saperlo da lui.
Non era curiosità la sua, ma benevolenza, apertura verso gli altri. Così, un giorno si fermò.
Lo straniero sedeva, come era solito fare, con le spalle appoggiate al muro e le gambe incrociate, lo sguardo basso, gli occhi quasi chiusi, sulla testa un berrettino dal quale spuntava un ciuffo di capelli neri che copriva parte della fronte. Era un uomo dall'aspetto massiccio, con mani robuste e forti, indossava una felpa grigia e scarpe da ginnastica, nessuna giacca pesante per difendersi dal freddo di dicembre. Accanto a lui, sul marciapiede, una ciotola in quel momento vuota.
Fiorella si avvicinò, sentiva freddo sul viso e sulle mani, come poteva quell'uomo indossare indumenti così leggeri senza ammalarsi? Possibile che non possedesse qualcosa di più caldo? Sentì profondamente l'ingiustizia di quella situazione, una delle tante, lo sapeva bene.
Quante volte si era sentita dire: ”Ma cosa pretendi di fare tu, credi di poter salvare il mondo?”
Detestava quelle frasi perché era fermamente convinta che “il mondo non si poteva salvare”, ma anche che ogni singola persona poteva fare qualcosa.
Guardò lo straniero e gli chiese come si chiamasse, l'uomo ricambiò lo sguardo in modo interrogativo, stupito, ma dopo alcuni istanti rispose: “Konstantinos”.
“Da dove vieni?” Non citò la città di provenienza, disse solo: ”Sono greco”, in un buon italiano. Poi, senza attendere ulteriori domande, incominciò a voce bassa a raccontare di sé.
Fiorella si meravigliò di quell'improvvisa apertura, come se lo straniero non aspettasse altro da tempo, non desiderasse che di parlare, di essere ascoltato, in qualche modo considerato. Era come se avesse voluto dire: ”Ci sono, non sono invisibile, esisto anch'io su questo pezzo di terra.”. Il suo racconto incominciò così.
”Lavoravo nella mia città, facevo il magazziniere in un negozio, mi trovavo bene e andavo d'accordo con tutti, avevo anche alcuni amici; caricavo e scaricavo, certo era un lavoro faticoso ma sembrava sicuro, ero forte e andavo avanti. Ad un certo punto mi sono sposato, ero sereno. E' nata anche Sofia, la mia bambina, che oggi, forse, ha sei anni.
Un giorno però il padrone del negozio ha incominciato a licenziare, io, che ero stato tra i primi a lavorare per lui, ho continuato ancora per un po', ma la crisi era diventata ormai generale e molti negozi incominciarono a chiudere. Alla fine fummo licenziati tutti, rimase solo il padrone, ma poi anche lui fu costretto a rinunciare.
Fu allora che incominciarono i primi bisticci con mia moglie, io cercavo ancora lavoro, mi accontentavo di poco, ma non si poteva continuare più così. Decisi di lasciare tutto e venire in Italia, speravo di trovare qualcosa qui da voi, ma la mancanza di lavoro e la lontananza hanno rovinato tutto, mia moglie non ha voluto sapere più niente di me. Ora sono in Italia da tanti anni, parlo un po', come vedi, la vostra lingua, non so più niente di lei e neppure di mia figlia. Vivo di elemosina e sto con altri poveri, ma nessuno di loro è greco e io mi sento solo.”.
Fiorella non sapeva che cosa dire né che cosa fare. Era sgomenta per quel fiume inarrestabile di parole, stupita per come le avesse parlato senza alcuna remora.
Si era ormai a metà dicembre, di lì a poco sarebbe arrivato il Natale, che giorno poteva trascorrere quell'uomo ancora giovane, senza lavoro, lontano da casa, con una vita in frantumi alle spalle? Ma lei che cosa poteva fare?
Ovunque si viveva la crisi, quella che andava avanti ormai da anni e di cui non si vedeva la fine. Avrebbe voluto aiutarlo, ma lei stessa viveva del suo semplice lavoro, ancora sicuro, per fortuna, ma modesto.
Entrò nel vicino supermercato, acquistò alcune cose, riempì una busta di generi alimentari, niente di superfluo. Solo alla fine, mentre attendeva il suo turno alla cassa, ripensò al Natale e si disse che, per quel giorno speciale, anche un pandoro o un panettone, per quanto non indispensabili, forse avrebbero potuto trasmettere maggior calore ad un povero che mancava di tutto.
Fiorella uscì dal negozio e porse gentilmente la sua busta colma a Konstantinos, lo straniero, dalla busta spuntava un panettone.
Lui la guardò, le sorrise riconoscente dicendole semplicemente: ” Grazie”.
Avrebbe conservato il dolce, forse, per il sette gennaio, giorno in cui probabilmente avrebbe festeggiato il “suo” Natale.





Natale 2013
di Pietro Zerella



La serata era fredda ma il cielo terso pieno di stelle lucenti come mai
era stato nel corso dell’anno, un cielo pieno di magia e solennità.
Le strade erano addobbate con stelle luccicanti e davanti a ogni casa si notava un segnale del lieto evento. Gli zampognari suonavano per le vie le ultime nenie prima di ritirarsi presso le loro famiglie e si sentiva sparare per la strada qualche mortaretto.
Gli ultimi ritardatari con il bavero alzato del cappotto ritornavano a casa.
La famiglia con la parentela più prossima si preparava al cenone della vigilia di Natale. In particolare le donne, intorno ai fornelli, avevano il loro gran da fare.
I tre nipotini ripassavano la letterina prima di sedersi a tavola mentre il più piccolo, di solo due anni e mezzo, ripeteva continuamente le poche parole della preghierina :Bambin Gesù…Bambin Gesù fa stare bene mamma, papà, il mio fratellino e… e non ricordava altro.
Si avvicinava l’ora di sedersi a tavola, la strada era diventata muta, deserta e ancora più fredda.
Un rombo di auto, uno sbattere affrettato della portiera, un rumore di passi, un bussare alla porta, una sorpresa…
Si guardarono, non attendevano nessuno; intanto il capo famiglia era andato ad aprire la porta.
Si trovò di fronte un uomo sui cinquant’anni, con una barbetta da letterato che volgeva verso il grigio chiaro, occhi azzurri e capelli brizzolati, alto un metro e ottanta circa e all’apparire del padrone di casa, quasi con reverenza, si scalzò il cappello scuro a falde larghe simile a un Borsalino. Sotto il paltò all’inglese si notava un vestito grigio, elegante.
La sorpresa di papà fu totale, ma dopo il primo attimo di smarrimento fece accomodare l’inaspettato visitatore e tutti si alzarono per salutarlo per rispetto di ospitalità.
Il nuovo arrivato si presentò dicendosi di chiamarsi Giorgio e di venire da molto lontano, purtroppo la sua meta non era vicina. La sua auto all’improvviso si era fermata e il motore sembrava senza vita. La strada era deserta, il freddo pungente e nei paraggi non passava anima viva per chiedere di un meccanico; a noi domandava di poter fare una telefonata a qualche albergo della città per avere una stanza e si scusava umilmente del disturbo che stava arrecando.
Il padrone di casa, quasi in soggezione, gli disse: “Lei è il benvenuto in casa nostra, saremo lieti di condividere questa sacra serata e il nostro cibo”. La conoscenza della famiglia fu gioiosa fra l’allegria e la curiosità dei ragazzini.
I nipotini recitarono le poesie e le preghiere, i grandi si abbracciarono scambiandosi gli Auguri di Buon Natale e iniziò il vario passaggio delle tradizionali pietanze.
Improvvisamente la stellina sull’alberello di Natale aveva incominciato a brillare tra la gioia dei più piccoli. La mattina la stellina si era spenta e a nulla erano valsi i tentativi per farla accendere. Il piccolo Pietro aveva fatto un dramma piangendo perché diceva che il bambino Gesù non gli voleva più bene.
Il forestiero, con rare battute, partecipava alla cena e sembrava gustare il cibo, come uno che assaporava per la prima volta quelle pietanze. A ogni nuova portata era un grazie sincero.
Terminata la cena tutti i commensali passarono nel salone per scartocciare i regali sotto l’albero di Natale che ora sembrava vivere di una luce più viva e allegra.
Papà seduto sul divano vicino a Giorgio cercava di far conoscenza con quel tipo così a modo.
Ci fu l’allegro scambio di regali, e papà, guardandomi mi fece capire che doveva esserci un regalo anche per lo straniero. Dalla libreria scelsi il libro più recente scritto da mio padre,  “Il foulard della Regina”, lo avvolsi in un elegante foglio di carta stellare e lo deposi con circospezione sotto l’albero insieme agli altri regali.
Al termine, quando Giorgio si vide consegnare il suo inaspettato pacchetto, la gioia mista a sorpresa fu enorme, ringraziò commosso tutta la famiglia ma serbò un caloroso abbraccio per mio padre, sussurrandogli: “Questa è la famiglia che ho sempre desiderato, grazie, grazie tante, questa serata è stata la più felice della mia esistenza”.
L’abbraccio fu così forte e intenso che sembrava voler trasmettere al mio genitore tutto il suo affetto e la sua energia. Vidi la sofferenza negli occhi del mio caro e lo sforzo fisico per cercare di sostenere la forte stretta. Era lo stesso viso di gioia e angoscia di quando io lo tenevo stretto sul mio cuore per eccesso di bene, il suo corpo ora era diventato fragile e delicato. Quell’attimo fu come se un soffio di vitalità fosse entrato dall’Alto nel profondo del suo cuore e che quella visita lo aveva rigenerato nell’animo e nel fisico.
Incominciarono a suonare le campane a festa che annunciavano la funzione della Natività, le strade ripresero a rivivere e i fuochi d’artificio diventarono sempre più numerosi.
Un abbraccio di addio di Giorgio, un fievole rumore di un’auto e, una lenta marcia di avvio, suggellò la vigilia di Natale.
 Sull’albero le stella continuava a brillare più splendente e più bella.





Siddy, la stellina vagante
di Giovanna Giordani



Siddy era una stellina molto piccola ed era quasi senza luce. Era nata così, da una famiglia di stelle grandi e magnifiche che si potevano ammirare nel cielo. I suoi genitori-stelle e le sue sorelle-stelline le volevano molto bene e si rammaricavano che non potesse splendere come loro. Nelle limpide notti d’inverno le stelle si specchiavano fra di loro, ma Siddy non rifulgeva come le altre e se ne stava in disparte con un’ombra di tristezza sul faccino circondato dai suoi piccoli raggi quasi invisibili.
Gli anni passavano e dal cielo le stelle assistevano a tutto quello che avveniva sul pianeta Terra dove vedevano gli umani che spesso si azzuffavano e si facevano del male, ma qualche volta, per fortuna, alcuni anche si abbracciavano. Alle  stelle piacevano particolarmente quelli che si abbracciavano e non si facevano del male.
Certe notti le stelle si accorgevano che alcuni umani si soffermavano a guardarle tanto intensamente solleticando così la loro vanità e allora si divertivano e ridevano diventando così sempre più splendenti.
Una notte d’inverno particolarmente limpida e serena la nostra Siddy chiese ai suoi genitori di poter scendere sul pianeta Terra poiché le era sembrato di vedere, fra l’oscurità che lo avvolgeva, una luce particolare che sembrava perfino più bella e luminosa della loro.
I genitori-stelle dapprima risposero con un no deciso, ma poi, a seguito delle continue insistenze della loro figlioletta che era nata così diversa da loro, decisero di acconsentire, ma ad una sola condizione: avrebbe dovuto far ritorno prima dell’alba.
Siddy felicissima si mise in cammino e cominciò a scendere lentamente dal cielo verso quella luce che l’attirava come una calamita. La Terra ormai non era più così lontana e lei stava sorvolando grandi pianure, laghi, mari e montagne, seguendo sempre quella bellissima luce. Finchè giunse sopra una grande prateria dove i pastori conducevano le loro greggi. A loro poi si univano altre persone e perfino dei re. Siddy ormai era proprio vicinissima e poteva anche sentire le loro voci. Ecco, parlavano proprio della luce verso la quale lei si stava dirigendo e riuscì a udire solo queste parole: - Verranno anche gli angeli e canteranno divinamente -. Siddy era davvero sempre più incuriosita e, mano a mano che si avvicinava alla sua meta, si accorse che quella luce speciale proveniva da una capanna dove stava una mamma, un papà e un bambino in una culla. Ma, meraviglia delle meraviglie, il bambino era attorniato da quel fulgore accecante che lei aveva visto dal cielo e tutto intorno un coro di angeli cantava meravigliose canzoni. Lei li aveva visti ancora gli angeli passeggiare dalle sue parti, ma non sapeva che sapessero cantare così bene!
Siddy era emozionatissima, sentiva dentro di lei una grande curiosità e, piano piano, cercando di non farsi notare si avvicinò a quella capanna e cercò di appoggiarsi leggera sul tetto da dove le sembrava di poter ammirare meglio quello spettacolo meraviglioso. Appena adagiata sul bordo del tetto di paglia Siddy si sentì pervadere da una grande gioia e mentre gli angeli cantavano le parve che il bambino nella culla le sorridesse. La piccola stellina si accorse allora che qualcosa di straordinario  stava accadendo proprio a lei, poichè la luce che emanava quel bambino la stava avvolgendo facendola splendere come non mai. Le persone che si inginocchiavano davanti a quel pargoletto nella culla alzavano lo sguardo anche verso di lei e  si accorse di non essere mai stata così felice in vita sua. Passò così tutta la notte, una notte che Siddy desiderava non finisse mai. Ma appena l’alba si annunciò all’orizzonte  si ricordò della promessa fatta ai suoi genitori-stelle e cercò di staccarsi delicatamente da quel luogo meraviglioso mentre quel bellissimo bambino ora stava dormendo col sorriso sulle labbra. Gli angeli avevano smesso i loro canti per non svegliarlo e tutto intorno regnava pace e serenità.
Siddy iniziò a muoversi lentamente, si ricordava benissimo la strada verso il cielo e raggiunse senza batter ciglio la sua famiglia stellare. Quando i suoi genitori, le sue sorelle e tutte le stelle del vicinato la videro arrivare la accolsero con un grande “ohhhhhh”, poiché Siddy era diventata una stella di una luminosità indescrivibile e la sua luce era diversa e senz’altro più bella di quella delle altre stelle. Le fecero tante domande e allora la stellina che una volta splendeva poco, raccontò del suo incontro con il bambino nella culla circondato da quella luce che lei aveva voluto raggiungere dal cielo e di come quella medesima luce l’aveva avvolta durante tutta la notte. Raccontò di come gli angeli avevano cantato delle bellissime canzoni vicino alla culla di quel luminoso bambino e di come poi lui si era dolcemente addormentato.
 – Credo di aver capito – disse a Siddy la sua mamma-stella - quel bambino splendeva di una luce che, al confronto, la nostra è ben poca cosa, e te ne ha voluta donare un po’ perché l’hai voluta vedere da vicino -.
 - Siamo fieri di te carissima figlioletta - dissero allora i suoi genitori-stelle.
 – Anche noi – ripeterono in coro tutte le altre stelle.
 Poi  nel cielo si fece una grande festa  e Siddy era veramente al colmo della felicità.
 Anche ai giorni nostri, nelle notti serene e senza vento, scrutando attentamente il cielo stellato, si può intravedere la bellissima Siddy e, a fissarla bene, può succedere che lei faccia giungere un suo piccolo raggio negli angolini dei cuori che accolgono volentieri la luce ineguagliabile della bontà.




Il mio tacchino di Natale
di Mario Malgieri

  


Se amiamo leggere, non c’è emozione più intensa dell’aprire un libro.
Poco importa se appena giunto tra le nostre mani oppure già sfogliato molte volte ma particolarmente amato.
L’emozione nasce da una duplice aspettativa: soprattutto per ciò che l’autore sarà capace di comunicarci, ma anche per chi, lasciate le pagine, potrebbe entrare nella nostra casa, ospite gradito o temuto.

“Qual è la tua sostanza, di cosa sei fatto
che milioni di strane Ombre ti fanno scorta?”.

Il Bardo dell’Avon se lo chiedeva in uno dei suoi sonetti; i versi ben si adattano ad esprimere la meraviglia che ci coglie dinnanzi a un’indiscutibile verità: chi dona il suo tempo a un libro, apre un sentiero attraverso il quale le Ombre che sempre lo popolano, divenute materia palpabile, profumata, frusciante, si trasferiscono nella nostra vita, interagiscono, comunicano i loro segreti.
Io, a dire il vero, ne fui pienamente consapevole solo quando giunse il tempo giusto.
Accadde nel gelo di un dicembre nevoso e di una notte solitaria: una delle Ombre, forse la più strana tra le molte che ho incontrato, ebbe qualcosa da rimproverarmi.




Lo so, il Galateo lo vieta, ma quando si è soli con se stessi, al diavolo le convenzioni!
E poi, detto tra noi, chi legge ancora monsignor Della Casa?
Così, quando consumo un pasto in solitudine, a me piace leggere; e certamente non il Galateo.
Il Natale era alle porte, e sarebbe stato il mio settantesimo; un numero che, riferito all’età, incute seri timori: il conteggio alla rovescia vede lo zero sempre più vicino; però dopo, quando Qualcuno preme il pulsante rosso, non si parte per la luna.
Da alcuni giorni, in solitudine da anacoreta, mi ero rifugiato nel mio Rascard, a quasi duemila metri di altezza in una remota valle ai confini con la Francia.
Stavo facendo il bilancio di tante cose e, forse perché andavo scoprendo che il passivo superava di molto l’attivo, o forse perché l’inverno stava facendo il proprio mestiere mandando una fitta nevicata, insomma, qualunque ne fosse il motivo, avevo deciso di rileggere un piccolo gioiello: "A Christmas Carol" di Charles Dickens. In lingua originale, giusto per rendermi la vita più difficile di quanto già fosse.
Avevo trasferito una parte dei miei libri, così come una parte dei miei dischi preferiti, in quel rifugio, perfetto per godermi gli uni e gli altri.
Misi sul lettore un disco; avevo scelto “Quadri di un’esposizione” di Mussorsgsky che, per le sue atmosfere magiche, mi pareva un ottimo accompagnamento alla mia lettura, poi mi diressi agli scaffali della libreria.
Solo i miei libri preferiti possono fregiarsi dell’Ordine della Macchia d’Unto, che inevitabilmente onora le pagine lette sulla tavola, accanto ai miei piatti; e quelle che mi apprestavo ad aprire erano già state decorate più volte.
Mentre le note, indiscutibilmente russe, della “promenade” riempivano la stanza, iniziai la mia lettura.
"Marley was dead, to begin with."
Tanto per cominciare, Marley era morto. Un incipit folgorante che non potevo fare a meno di associare al mio tacchino, assaporato in ricca porzione: in effetti, era defunto come un chiodo in una bara, il povero tacchino Marley. Di lui giacevano nel mio piatto, ma ancora per poco, le saporite, invitanti, spoglie mortali.
Meno di un'ora dopo, del tacchino non era rimasto che qualche ossicino, del contorno di radicchio nemmeno quello, visto che gli scienziati ancora non sono riusciti a creare il radicchio vertebrato transgenico ma, se qualche multinazionale intravvede un “business”, date loro qualche annetto e ci arriveranno… ma questa è un’altra storia.
Quanto al vino, nel decanter non rimaneva altro che il profumo: il soave, corposo, ben strutturato Fumin di Grosjean, annata 2003, mi aveva deliziato e poi infuso un certo torpore.
Sulle note de “La capanna dalle zampe di gallina”, prima di arrivare alle ultime pagine del libro, fermai il disco, spensi le luci e mi andai ad avvoltolare anzitempo nelle coperte per godermi il totale silenzio di una notte di neve in montagna.
Presto mi svegliai, allarmato.
Qualcosa si muoveva nella casa, non c'era dubbio.
Accesi la luce e mi guardai attorno. Nulla.
«Chi c'è? Ho il cellulare, chiamo la polizia!».
Un bluff, come rilanciare con una coppia di due: pur trascurando che lassù il cellulare funzionava oppure no, secondo indecifrabili umori, i carabinieri più vicini erano a una ventina di chilometri di strada di montagna innevata, quindi un malintenzionato avrebbe fatto in tempo a spennarmi, cucinarmi e rosicchiarmi sino all'ultimo ossicino, proprio come io avevo fatto col tacchino Marley.
Per tutta risposta, dalla stanza attigua mi giunse un rumore, come di uno zampettio. Poi un chiarore intermittente, dove diversi colori si alternavano con ritmo lento.
Decisi che dovevo andare a vedere, costasse quello che costasse.
Impugnai il bastone da trekking che tenevo accanto alla porta-finestra. Nel farlo, attraverso i vetri, notai che la nevicata era cessata ma la nebbia l’aveva sostituita, rendendo un vago chiarore latteo la luce della lampada esterna. Mi diressi verso l'altra stanza e mi piacerebbe dire che lo feci risolutamente; in realtà l’avverbio più adatto, se solo esistesse, sarebbe “tremebondamente”. Invito i signori accademici della Crusca a sancirne la legittimità.
Di certo, agli occhi di un malintenzionato, magari armato, avrei avuto un aspetto impressionante: scalzo, mutande alla Fantozzi, maglia di lana e bastone, un’apparizione da farlo schiattare, ma dalle risate.
Subito vidi la fonte di quel chiarore policromo: il piccolo albero di Natale, uno di quelli di plastica che si acquistano al supermercato già addobbati. Ma io ero certo di averlo lasciato con la spina staccata, non avevo alcuna intenzione di accenderlo.
Per quello che viene dopo, occorre intenderci subito, se no è meglio che cambiate lettura.
Il padre di Amleto è già morto e sepolto all'inizio del dramma.
Se non credete agli spettri, la sua passeggiata sugli spalti del castello di Elsinore e tutto quello che ne consegue, incluso il sin troppo famoso “ To be, or not to be… “, è una solenne baggianata. Ora, chi vuole sostenere che l'Amleto sia una solenne baggianata?
Dicevo dell'alberello acceso. Subito dopo, mi sentii rimescolare la cena nello stomaco: in un angolo, ritto su due zampe scheletriche, proprio come quelle che sorreggono la “capanna dalle zampe di gallina” dove vive Baba Yaga nell’omonima fiaba russa, stava una figura da incubo. Traslucido come un miraggio, enorme, oscenamente spennato, gli occhi che mi fissavano iniettati di sangue, non vi era dubbio: si trattava di Marley, come avevo battezzato il tacchino della mia cena.
Era verde, poi giallo, era rosso, poi ancora verde. Era del colore delle luci dell'albero che si accendevano in sequenza.
«Ma... ma tu sei morto e mangiato», dissi stupidamente.
«Certo, ma non te ne voglio, non sono qui per questo.».
Parlava. Chissà perché la cosa non mi sorprese più di tanto.
«E allora cosa fai qui, cosa vuoi da me?».
«Io? Non voglio molto e a dire il vero non sono nemmeno un tacchino. Ho pensato di presentarmi in questa forma per non spaventarti troppo.».
«Grazie, molto gentile, in verità sono abbastanza spaventato anche così. Ma se non sei un tacchino, chi diavolo saresti?».
«Hai appena riletto un certo racconto, quindi puoi ben immaginarti chi io sia.».
In effetti non ci voleva molta fantasia, una volta accettata la situazione assurda nella quale mi trovavo. Mi feci coraggio e risposi:
«Veramente, in "A Christmas Carol", di spettri ce ne sono a bizzeffe. Ma io non ho soci d'affari defunti di fresco, quindi suppongo che tu pretenda di essere uno degli spiriti del Natale.».
«Io non pretendo, io sono! Per l'esattezza, sono lo spirito del Natale Presente e il perché della mia venuta è semplice: tu mi devi delle scuse.».
Spettro o tacchino che fosse, non vedevo per quale ragione avrei dovuto chiedere scusa a qualcosa che, in fondo, nemmeno credevo reale, e glielo dissi.
Per tutta risposta venne fuori con una specie di ruggito che fece tremare i doppi vetri della sala.
«Tu non accogli più lo spirito del Natale! Dovresti vergognarti, implorare il mio perdono, correre fuori a comprare i regali e fare felici tante persone!».
Io sono un pò' timido e pure incline a mediare, ma non aggreditemi soprattutto quando penso di essere dalla parte della ragione. A quel punto l'arrabbiato ero io, e ben deciso a farmi valere.
«Bene, sono contento che tu sia venuto, almeno ti dico di persona perché ti detesto, e mi risulta che in tanti la pensino come me!».
«Ma cosa dici? In tutto il mondo brillano le luci, si canta "Jingle bells", si scambiano doni, io sono ovunque, più vivo e presente che mai!».
«Ecco, questo è proprio un aspetto del problema: sei fin troppo vivo.».
«E da quando essere troppo vivo sarebbe un problema?».
«Lascia che ti spieghi. Vedi, quando ero piccolo...» m’interruppe con un secondo ruggito:
«Aaah che palle, sempre la solita solfa! Voi umani siete monotoni e banali! Tutti a dire com'era bello il Natale da bambini, il calore di mamma e papà, dei fratellini o sorelline, l'abete, i regalini poco costosi, altro che gli smartphone e i videogiochi... bla bla bla, che lagna! Possibile che non vi rendiate conto di quanto io sia più bello adesso, più allegro e sopratutto più ricco?».
«Questo è proprio il punto, mio caro. Sei sfacciatamente ricco, come uno sceicco del petrolio e se non bastasse, sei pure cieco, muto e sordo. Rassomigli alle tre scimmiette, sai quelle che si mettono le mani sugli occhi, sulla bocca e sulle orecchie? È inutile che adesso inizi a sferragliare trascinando chissà quali catene, saranno certamente d'oro massiccio e proprio non mi fai pena.».
Il tacchino, o spirito, o chiunque fosse, divenne rosso, questa volta non per le luci dell’albero ma per la rabbia. Forse avevo esagerato e ne avrei subite terribili conseguenze?
Invece si calmò e riprese a parlare quasi in tono affettuoso.
«Sei tu che mi fai pena, pover’uomo: e pensare che ho acceso il tuo miserando alberello perché volevo tirarti su di morale, magari farti venire voglia di prendere la tua automobile e andare giù, in paese. Sai, c'è festa nel Pub, c'è la musica e tanta gente felice.».
«Gente che pensa di comprare la felicità, vuoi dire. Felice era un tempo, sì proprio quel tempo con mamma e papà, l'angelo di cartone, il regalo povero ma atteso come un miracolo. Se tutto ciò ti fa dire "che palle" puoi dirlo, ma io ti vorrei ancora così, con quelle serate in famiglia, col calore di una stufa a legna e senza il bisogno di decine di pacchetti costosi per sentirsi felici. Tu sei qui, bello grasso e chiassoso, ma non sei come dovresti essere.».
«Se parli di queste forme da tacchino, hai ragione, ma per il resto come dovrei essere, di grazia? Tutto si evolve, tutto cambia e pure io sono cambiato, c'è qualcosa di male in questo?».
Oramai il timore aveva lasciato il posto alla mia voglia di sfogarmi con qualcuno, fosse pure un sedicente spirito, e nulla mi avrebbe trattenuto; così gli snocciolai una tiritera che avevo bella e pronta da tempo ma che nessuno era ancora riuscito a tirarmi fuori.
«Oh no, non è il cambiamento in sé, per quello hai ragione, tutto cambia. Il punto è come cambia. E tu sei cambiato troppo e troppo male. Ma guardati! Se ti prendessi la briga di usare quelle aluccie da tacchino e di andare un po' in giro per il mondo, vedresti quello che vedono tutti, vedresti ciò che accade ogni giorno: dove sono la solidarietà, la tolleranza, l’amore per il prossimo? Semplice, queste cose le mettiamo in uno scatolone assieme alle palline colorate, ai fili d’argento, alle statuine del presepe e le tiriamo fuori una volta l’anno. E cosa vuoi che sia un giorno d’ipocrita bontà rispetto ai trecentosessantaquattro dove tu non ti fai vivo?».
«Io veramente... », tentò di interloquire l'ombra del pennuto, ma io ero lanciato e non lo lasciai continuare.
«Era una domanda retorica, e ora te ne faccio un'altra: dove sei tu, quando i mercanti nel tempio svendono la giustizia, l’onestà, la salute, la fede, persino il Bambino, il bue e l’asinello? La capanna non la toccano solo perché c'è la crisi del mercato immobiliare, l’IMU e tutto il resto, non è il momento per vendere.».
Era un tantino sconcertato, si vedeva dai bargigli più penduli che mai e si percepiva dal tono della voce quando tentò una risposta.
«Ma nei tempi passati esistevano cose persino peggiori di queste, eppure il Natale era un giorno felice.».
«In passato era molto più facile far finta di non sapere. Oggi sappiamo, sappiamo tutto. Vediamo in diretta cadere le bombe su bambini innocenti, vediamo i poveri del mondo morire di fame mentre distrattamente gettiamo nell’immondizia tonnellate di cibo, vediamo coloro che dovrebbero guidarci intenti ad azzuffarsi per il loro potere e il lorotornaconto… e qui smetto, ma una cosa è sicura: l’uomo è l’unica, autentica belva feroce, l’unico del creato che sorride con i denti arrossati del sangue del fratello mentre ti augura “Buon Natale”.».
Avevo finito. Restammo a fissarci per lunghi istanti, mentre gli occhi di Marley cambiavano colore: verde, giallo, rosso, ancora verde.
Poi, nelle sue pupille, vidi il riflesso di un lampo improvviso, seguito immediatamente da un tuono vicinissimo.
L'alberello si spense mentre il buio tornava padrone della casa.
Mi trovai sul letto, sudato, con i piedi sul cuscino e la coperta per terra.
La luce mancava davvero, ne dedussi che il tuono era stata l’unica cosa reale di quella strana nottata, ma tutto era tremendamente vivido nella mia mente. Di solito il ricordo dei miei sogni dura il tempo d’infilarmi le pantofole.
Andai a tentoni a ripristinare l'interruttore che era scattato, accesi tutte le luci e confesso che, entrando in sala, ebbi un brivido vedendo l’albero di natale illuminato. Forse, mi dissi, avevo inserito la spina prima di buttarmi sul letto, mezzo brillo per quel vino.
Però continuai a ispezionare la casa con circospezione, guardando persino sotto il letto, come un imbecille.
Naturalmente non trovai nessuno.
Alla fine mi convinsi di aver avuto uno strano incubo, complici il defunto pennuto, la musica di Mussorsghj e un bicchiere di troppo.
Ma chi avrebbe potuto ancora dormire?
All'alba la nebbia si era dissolta e il cielo era sgombro da nubi; lo spettacolo che si presentava oltre la finestra avrebbe incantato chiunque.
Mi vestii, presi le racchette da neve e uscii per andare a fare una camminata lungo i sentieri che conoscevo bene.
Forse il freddo e l'aria tersa mi avrebbero rischiarato del tutto le idee.
Mi avviai senza fretta, ricordando di essere un visitatore, un ospite rispettoso e ammirato: persino il rumore del mio respiro e quello ovattato delle racchette sembravano fuori posto. 
Sulla neve fresca, tutta una serie di minuscole impronte raccontava storie di abitanti notturni, di ricerca di cibo, di passi furtivi e improvvisi fruscii di ali mortali, di tragedie e di speranze del piccolo popolo della montagna.
Non mi meravigliai troppo se, per un lungo tratto. dalla porta sino ai margini del bosco, ben riconoscibili tra tutte le altre, mi accompagnò una serie di orme ancora fresche che, al mio occhio poco esperto, parevano quelle di un grande tacchino.
Dove il sentiero varcava l’invisibile confine del bosco, quelle impronte sparirono, come se chi le aveva lasciate si fosse dissolto. Al loro termine, sulla neve intatta, macchiata solo dagli aghi dei primi larici, si ergeva un grande abete, ornato di migliaia di ghiaccioli,
Ciascuno rifletteva più volte il sole, ed era una miriade di piccole luci che tremolavano, si spegnevano e si riaccendevano a ogni movimento degli occhi, abbagliati da tutti i colori del creato.



Da I nebbiosi sentieri delle ombre







Un giorno come un altro
di Renzo Montagnoli


"Acc..!" Porca la miseria, ma nevica…" e gettò da un lato i cartoni ormai infradiciati che gli erano serviti a rendere meno insopportabile il freddo della notte. Si alzò lentamente, barcollando, gli occhi ancora semichiusi, la bocca impastata dall'alcool del giorno prima. Passò le mani sulla testa, aggiustandosi i capelli, ormai ribelli a qualsiasi pettine, visto che non si ricordava da quanto tempo non fossero stati oggetto delle forbici del barbiere, al pari della barba del tutto incolta.
Si mise i due indici in bocca, poi così inumiditi li passò sul contorno degli occhi: a fare quella vita non c'erano tante comodità e fra queste, soprattutto d'inverno, latitava l'acqua calda.
A vederlo così, ricoperto da più strati di abiti usati e sgualciti, i capelli e la barba di colore grigio sporco, gli si sarebbero dati tranquillamente una settantina d'anni, ma lui ne aveva solo cinquanta ed erano ormai quasi due lustri che faceva una vita da barbone o, come si definiva lui, quasi ghignando, da rifiuto della società.
Ma era giunto il momento di muoversi per vedere se si poteva trovare un po' di alcool, nell'attesa di fare un salto a mezzogiorno alla Parrocchia dell'Immacolata, dove Padre Lorenzo faceva sempre trovare una minestra calda per i diseredati.
Si avviò, con quella sua andatura altalenante, strascicando i piedi, stretti in scarpe sottomisura, e si accinse ad attraversare il prato dei "mai nati", chiamato così perché la sera vi si rifugiavano in auto con i clienti le prostitute della zona, lasciando poi i segni inequivocabili del frettoloso rapporto consumato. Ogni tanto, nel suo andare, scalciava qualcuno di questi fiori di lattice e non era per nulla difficile che potesse accadere, vista l'abbondanza; e fu così che, grazie ad una pedata, emerse dalla neve quello che non avrebbe mai immaginato di trovare: un portafoglio di pelle nera, bello gonfio. Si guardò intorno per sincerarsi che non vi fosse qualcuno, poi si chinò a raccoglierlo; le mani, intirizzite, gli tremavano quando l'aprì e gli occhi presero a brillare a vedere tutto quel denaro. Contò e ricontò, ed il risultato era sempre quello:ben 5.000 Euro in tagli da 100 e da 50, una fortuna inaspettata.
Nascose il portafoglio in tasca, tenendovi premuto il braccio nel timore che potesse involarsi, guardò il cielo grigio di quel rigido 25 dicembre e cominciò a sognare ad occhi aperti.
"Dunque, per prima cosa vado in un albergo di non troppe pretese, no, meglio ancora, in un grande albergo; sto dentro la vasca da bagno un paio d'ore, immerso nell'acqua fumante, centellinando un cognac dei migliori. Poi mi faccio mandare il barbiere a sistemare i capelli e la barba…Dunque, poi…Ah sì, non sarà facile trovare un negozio di abbigliamento aperto il giorno di Natale, ma, nel caso, mi faccio un bel guardaroba: dall'intimo allo smoking tutta roba rigorosamente di marca. A mezzogiorno e sera mi faccio portare in camera delle prelibatezze ed infine, quando cominceranno a chiudersi gli occhi, mi potrò coricare fra lenzuola di seta, nel caldo ristoratore della camera. Questo sarà proprio un Natale da ricordare!" ed allargò le braccia al cielo, quasi volesse stringerselo a sé.
"Però, non vorrei che si insospettissero: un disgraziato come me con tanti soldi di sicuro attirerebbe l'attenzione del maitre dell'albergo; mica posso dirgli che ho trovato un portafoglio e neppure che ho ereditato! Mi verrà un'idea, se faranno delle domande ed intanto andiamo."
Giunse così nei pressi dell'Excelsior, un 4 stelle fra i più rinomati della zona; rallentò il passo e gli ritornarono i dubbi, ma accentuando la pressione del braccio contro il portafoglio nella tasca gli tornò la sicurezza e fece per entrare dalla grande porta a vetri.
"Fermati, dove vai straccione! Gente come te non ne vogliamo." Era stato un ragazzetto in divisa a guardia dell'ingresso.
Si fermò, con il mondo che sembrava crollargli addosso, poi arretrò, allontanandosi.
Eh sì, lui altri non era che un rifiuto della società e poco importava che ora avesse i soldi per rientrare nell'ordine costituito, che di sicuro l'avrebbe rifiutato anche ben sbarbato ed elegantemente vestito, perché chi cade così in basso, chi lascia la struttura costruita dagli uomini non può più rientrarvi. E non perché così volessero gli altri, ma perché così aveva voluto lui in un altrettanto fredda giornata d'inverno di una decina di anni prima, di ritorno dal funerale della moglie, una persona così dolce e gentile che gli aveva permesso di tollerare l'iniquità delle strutture sociali, l'abnorme macchina su cui o sali negando te stesso, o ti devi accontentare di vederla passare, senza mai fermarsi per raccogliere te.
Era il suo destino e nulla avrebbe potuto cambiarlo, tanto meno 5.000 Euro; era meglio restituirli a chi li aveva persi nel frettoloso pagamento di un illusorio atto d'amore. Di certo l'avrebbe ringraziato e magari gli avrebbe dato anche una mancia e così il problema di reperire la dose d'alcool di quel giorno sarebbe stato risolto nel migliore dei modi.
Aprì il portafoglio, guardò fra i documenti e sulla carta d'identità lesse: Amedeo Semproni, di professione dirigente d'azienda, residente in Via Toscanini, 15.
"Semproni ti farò passare un bel Natale" disse fra sè accelerando il passo.
E così, mentre la neve cadeva sempre più fitta, arrivò in Via Toscanini, una bella zona residenziale della media borghesia con amene villette circondate da giardini e piccoli condomini. Al n. 15 sorgeva proprio una piccola palazzina a due piani; il portone era aperto ed entrò: già lungo le scale si sentiva un vociare confuso, un vero e proprio alterco. E solo quando arrivò davanti alla porta d'ingresso dell'appartamento di Semproni potè intendere chiaramente di che sitrattava.
"Porco, sei un porco" urlava una voce femminile.
"Ma no, ti assicuro amore che per me ci sei solo tu" e probabilmente questa doveva essere la voce di Semproni.
"Come se non lo sapessi che vai con la prima donna che trovi, magari pagandola anche profumatamente, e poi mi vieni a dire che hai smarrito il portafoglio."
"Cerca di ragionare; ieri c'è stato tanto da fare, ero stanco e non so come l'ho perso."
"Sei un disgraziato!"
Ritenne opportuno a questo punto suonare e gli aprì una donna di mezza età, con gli occhi fuori dalle orbite.
"Vada via, non faccio la carità ad un pezzente!"
"Signora, a dir la verità sono venuto a riportare il portafoglio."
In un attimo, dietro la donna, apparve la figura del Semproni, un uomo sulla cinquantina, dall'aspetto un po' flaccido.
"Eccomi, sono Semproni"
"Mi dica dove l'ha trovato" urlò la donna.
Il Semproni si agitò ulteriormente, rivolgendogli uno sguardo supplichevole.
"In questa via, signora, era fra il bordo del marciapiedi ed un auto parcheggiata" e consegnò all'uomo il portafoglio. Questi lo afferrò, ne estrasse le banconote, le contò due volte ed esclamò trionfante "Il denaro c'è tutto e ci sono pure i documenti. Grazie … Buon Natale."
Gli caddero le braccia: neppure la mancia.
Si volse per andarsene, allorché il Semproni parve ricordarsi di qualche cosa e gli allungò, quasi gettandogliela addosso, una banconota da 50 Euro.
L'artigliò immediatamente e prese a scendere le scale, mentre nell'appartamento la lite riesplodeva.
Si era quasi fatto mezzogiorno ed era quanto mai opportuno accelerare, per quanto possibile, il passo per arrivare in tempo per la zuppa calda della Parrocchia dell'Immacolata.
Il percorso non era breve e lungo la strada ebbe tempo di pensare al buon utilizzo di quei 50 Euro che teneva stretti in pugno: c'era la possibilità di bere almeno per una settimana, una fortuna insperata, anche se alquanto ridimensionata rispetto alle ben più eclatanti prospettive immediatamente successive al ritrovamento del portafoglio.
E così, fra un progetto e l'altro del tipo di liquore da acquistare, arrivò alla Parrocchia.
Si ricordò allora che era il giorno di Natale e si sovvenne che tutti gli anni, in quella ricorrenza, il pasto offerto era sensibilmente migliore e si rallegrò. Infattinon ebbe di che lamentarsi, perché fu un pranzo in piena regola, dall'antipasto al dolce, e per finire, dopo il solito sciacquoso caffè, ebbe la gradita sorpresa di sorseggiare, al caldo, un bicchierino di grappa. Padre Lorenzo, a fine pasto, si avvicinava ai commensali, un pregevole quadro delle miserie umane, e per ognuno aveva parole di conforto. Quando arrivò da lui, gli chiese che ne pensasse di quella giornata e forse sperava che esprimesse il suo pensiero dal punto di vista religioso, ma non fu così; era sempre stato un agnostico e non trovò di meglio che raccontargli quello che gli era capitato. Non omise nulla, nemmeno della faccenda della mancia di 50 Euro, e Padre Lorenzo si limitò a dirgli che aveva fatto bene a comportarsi così. Indi gli diede un pacchettino "E' un regalino da poco: due cioccolate e un pezzo di torrone. Dopo, quando vai, se ti senti di passare dalla chiesa, ma vedi tu, vai a vedere il presepe e nel locale dietro la canonica la mostra sulle Missioni; non hai obblighi; solo se ti senti."
E si sentì; nella penombra della navata laterale si fermò a guardare le statuine della natività e si sovvenne di quando, bambino, indugiava di fronte alla stessa scena preparata con infinita pazienza da suo padre: memorie di un tempo lontano, che riaffioravano nella sua mente dopo anni di buio; e così rivide la sua cameretta, i suoi giochi, l'epoca in cui inconsapevolmente era stato felice.
Passò poi alla mostra delle Missioni, affollata dai parrocchiani: c'erano prodotti dell'artigianato della lontana Africa e poi tante fotografie: visi di bambini smunti, con i ventri gonfi, la fame e la mancanza di ogni speranza che si leggeva in quegli occhi.
Alla fine del percorso c'era un cesto dove la gente, se ne aveva voglia, deponeva le offerte. Quando vi arrivò aveva le lacrime agli occhi; ripensò al pasto caldo che aveva appena consumato, al presepe nella chiesa, a quello che gli faceva suo padre, a quell'infanzia così lontana di cui cominciava ad avvertire prepotente il rimpianto; come sarebbe stato bello ricominciare, ripartire da zero, rinascere.
Si avvicinò al cesto e con mano tremante, perché vedeva così sfumare la sua scorta di alcolici, lasciò cadere la banconota da 50 Euro.
Quando fece per uscire, Padre Lorenzo lo trasse da parte.
"Lo so che non sei un credente e non posso farci niente, ma Dio è amore e l'amore che c'è in te è grande, è immenso. Guarda i miei parrocchiani: brava gente, ma depongono il loro obolo e così mettono a posto la loro coscienza. Non conta quanto hanno dato, ma cosa e come hanno dato; tu, amico mio, hai dato tutto quello che avevi, hai dato il tuo cuore. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti in parrocchia; non posso permettermi di pagarlo, ma tre pasti al giorno ed un letto caldo, anche se è poco, glielo posso assicurare. Ce ne dici? Sarebbe un modo per ricominciare, per aiutare chi ne ha veramente bisogno ed in tal modo aiuteresti anche te stesso; la vita, ricorda, merita sempre di essere vissuta e non gettata alle ortiche, come fino a ora hai fatto. Pensaci, non ti faccio fretta, perché per te il posto ci sarà sempre."
"Grazie, Padre, ci penserò. Buon Natale e grazie ancora."
Se ne uscì con quella sua andatura ciondolante e si avviò a compiere uno dei tanti giri senza meta.
Guardò le luminarie, spente; osservò le auto procedere lentamente sulla neve, i bambini che facevano baloccate e si disse "Natale, è un giorno come un altro", ma poi si fermò, e prepotente riemerse il ricordo di tutti gli episodi della giornata, dal ritrovamento del portafoglio, alla lite fra i coniugi, alla mancia di 50 Euro, ai ricordi di infanzia sopiti che miracolosamente erano riapparsi dall'oblio, alle parole di Padre Lorenzo.
"Sì, ormai ho deciso; domani mattina presto, al risveglio, andrò in parrocchia e mi metterò a disposizione di Padre Lorenzo. Voglio tornare a vivere. E a pensarci bene Natale non è un giorno come tutti gli altri."
Già scendevano le ombre della sera ed era meglio mettersi alla ricerca di un riparo.
Respirò a fondo l'aria fredda, quasi a volerne sentire il profumo, e si avviò, strascicando i piedi.   






8 commenti:

  1. bellissimi racconti, letti con vero piacere.
    grazie
    cri

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  2. grazie Renzo. Diverse sfaccettature di un giorno che rimane speciale. dalla nostalgia alla gioia, dal'agnosticismo al fervore religioso, dall'egoismo alla solidarietà. Ognuno ha colto un particolare di quell'immenso e comoposito quadro che è la Vita.

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  3. Grazie Renzo. Racconti di un giorno che rimane speciale. Ognuno ha colto un particolare aspetto di un universo di sentimenti: dalla gioia alla nostalgia, dall'agnosticismo al fervore religioso, dall'egoismo alla solidarietà. Un giorno che parla a tutti, credenti e non credenti.

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  4. chiedo scusa: ho inserito due volte il commento perchè il primo non si visualizzava. Pace a tutti
    Adriana Pedicini

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  5. Mi spiace per il nipotino, pregherò per la sua guaigione! Avevo inviato due racconti, credo che non siano stati presi in considerazione. Un felice e sereno Santo Natale a tutti voi.

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  6. Sono tutti molto belli e particolari, li leggerò a voce alta a mia figlia che ama ascoltare . Grazie Renzo

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  7. Grazie, Renzo, ho letto con piacere tutti i racconti dai quali emerge che il Natale non potrà mai essere un giorno qualunque perché ci ricorda quella scintilla d'amore che sta nascosta in ognuno di noi e che dovremmo custodire affinché non sia offuscata o spenta.
    Auguri a te, a tutti gli amici scrittori, ai lettori e una preghiera particolare perché il tuo nipotino guarisca presto.
    Giovanna

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  8. Ho letto i racconti con piacere e commozione, devo dire, mi hanno coinvolto e fatto riflettere, come sempre succede quando ciò che leggiamo ci costringe in qualche modo a ragionare sull'esistenza, qualunque sia il nostro rapporto con la fede, con la spiritualità.
    Buon Natale a tutti, che sia veramente un giorno sereno.
    Buon Natale a te e ai tuoi, Renzo. Grazie.
    Piera

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