lunedì 15 febbraio 2016

"Il figlio di Saul": un canto fra i latrati, di Ferdinando Camon



"Il figlio di Saul": un canto fra i latrati
di Ferdinando Camon


"Avvenire" 27 gennaio 2016

 
 
Il modo migliore di celebrare il giorno della memoria è andare a vedere il film Il figlio di Saul. Terribile a vedersi, ma non vederlo è un delitto. Un capolavoro aumenta in chi lo vede la voglia di vivere, una vita che ti fa incontrare capolavori è un regalo del destino. Ma stavolta non è così. Vedi questo film perfetto, e resti muto e spento. C’è un attimo di smarrimento in sala quando il film finisce, nessuno fiata. Non so se esista uno strumento in grado di misurare la “vitalità” delle persone, la voglia, la capacità di vivere, ma se esiste, e se si potesse usarlo sugli spettatori che escono dalla sala dopo aver visto questo film, si scoprirebbe che la loro vitalità è prossima allo zero. È un film che ti fa vergognare. Perché mostra che cosa sono stati capaci di fare gli uomini, e poiché tu sei un uomo, vergognandoti di loro ti vergogni di te. Non conosciamo ancora bene le lugubri imprese del Daesh, non ce le hanno mostrate per intero, e siamo grati di non averle viste. Chi verrà dopo di noi le vedrà. E proverà la stessa vergogna che proviamo noi oggi, vedendo questo film che ci mostra il macabro lavoro di un Sonderkommando. Sì, tutti abbiamo visto Birkenau (nessuno doveva uscire dal secolo scorso senza averlo visto), dunque abbiamo visto i luoghi dove si svolgeva l’abominevole operazione che si chiamava Sterminio. Ma quei luoghi oggi sono muti. Li vedi ma non li senti. E ogni racconto, ogni testimonianza, ogni diario che li descrive, non te li fa sentire. E senza sonoro sono morti. Il film recupera il sonoro. Urla, pianti, percosse, imprecazioni, latrati, abbaji, e ordini, ordini, ordini, che con i latrati e gli abbaji si fondono in una sola lingua, non umana ma canina. I soldati che fanno queste cose sono umani trasformati in cani. L’ideologia, il razzismo, l’odio per gli altri, l’obbedienza ai capi, le “cose dei padri” cioè la patria, hanno costruito questo risultato. Ci sono cani che prima mordono e poi ringhiano, così questi uomini-cani prima calano la bastonata e poi urlano l’ordine. Nessun dubbio che il lavoro del Sonderkommando o si fa così o non si fa. Siamo nella catena di montaggio dello Sterminio, i forni, la cenere da smaltire nel fiume, le docce da lavare, via un carico sotto l’altro. Nella catena di montaggio, a sterminare ebrei, sono altri ebrei, schiavi. Uno di questi, un ungherese, crede di riconoscere in un bimbo morente il proprio figlio. O, più probabile, vede quel piccolo morente e lo adotta come figlio. Ne nasconde il cadavere, lo porta sempre con sé, anche nella fuga, per tutto il film gira in cerca di un rabbino che sul piccolo morto reciti il Kaddish, la preghiera ebraica per santificare il corpo da seppellire. Il film vive sul contrasto tra i corpi sprezzati come immondizia, e il corpo di questo bambino santificato. Noi oggi siamo in un’epoca di corpi che esplodono, muoiono per uccidere, e questo film ci offre un corpo morto da santificare, cioè da far vivere in eterno. Il film è sull’urto tra l’odio razzista e l’amore paterno. Non abbiamo mai spinto lo sguardo così dentro l’orrore dove la strage si compie ininterrotta. La storia del film dura un giorno e una notte e un giorno, 36 ore, e in questo tempo i carichi di deportati che arrivano sono molti e imprevisti, come arrivano vanno sterminati, prima che capiscano qualcosa. L’aspetto più dis-umano dello Sterminio è la “normalità”, anzi la “serenità”, con cui i carnefici lo eseguono. Le SS sono scherzose, fanno complimenti sulla lingua ungherese, ammazzano con nonchalance, con divertimento. Così avveniva in Cambogia. In Rwanda. In Bosnia. Così avviene nel Daesh. Nel lavoro della morte o impazzisci o ti diverti. Qui le SS si divertono, come Jihadi John con il coltello alla gola del prigioniero. Divertendosi, passano al dileggio. Il protagonista Saul casca in mezzo a un gruppetto di SS, lo potrebbero ammazzare subito, invece accennano con lui a un duetto di danza. In una fabbrica si producono pezzi di ricambio, e pezzi, Stücke, plurale di Stück, sono i cadaveri prodotti nel mattatoio. Nel buio di questo Inferno si sente a tratti il Kaddish: contro i latrati di un’umanità di cani, la dolcezza di un canto divino.





Don Angelo, di massimolegnani


Don Angelo
di massimolegnani

All’imbrunire sto percorrendo la salita per andare a cena all’ospedalino. Una nebbia pungente rende vaghi i lampioni e il paesaggio di pini e vigneti assume un che di spettrale. A metà salita scorgo su in alto una massa indefinita che sembra rotolare verso di me. Non vi sono rumori che mi aiutino a capire. Fisso la palla enorme di pece che mi viene incontro minacciosa. All’ultimo istante mi tolgo dalla strada e mi riparo dietro un albero: accanto a me sfila un mastodontico individuo intabarrato in un cappottone nero che scivola a valle poggiando il sedere su un’esile vespa con il motore spento.
Ho appena conosciuto don Angelo! Niente sarà più come prima.

-   Una partitina a ramino, dottore?- gli occhi bovini del prete si fanno piccoli e imploranti.
 Mah, non sono bravo con le carte, me la cavo solo a poker. Comunque visto che alla televisione non c’è niente facciamo pure una partita.
Le mani grassocce di don Angelo si muovono frenetiche nel mescolare e distribuire le carte; sono incantato dall’agilità dei suoi gesti, lui di solito così pachidermico.
-   Che ne dice di questo mazzo, dottore? Ha notato come scivolano bene le carte? E non si sgualciscono con l’uso, sono state plastificate con un procedimento particolare. Me le ha procurate un amico, non si trovano in commercio; gliene posso fornire qualche mazzo ad un prezzo interessante.
Tace qualche istante, troppo impegnato a studiare le proprie carte, poi riprende la sua cantilena:
-Quando abbiamo finito di giocare le faccio vedere un accendino che è un vero gioiellino; resterà sbalordito da quanto poco costa!
Don Angelo ha il commercio nel sangue, è un marocchino ante-litteram. Al lunedì torna dal suo paese con un borsone carico di ogni ben di dio, accendini, sigarette di marche esotiche, giochi di società estrosi, prodotti vari fuori commercio che non ho mai capito dove raccatti. Nelle sue lunghe giornate inoperose propone la propria merce ad ogni malcapitato dipendente dell’ospedalino. È un segugio instancabile, non molla la predafinchè non gli ha rifilato almeno un pezzo del suo vasto campionario; e devo riconoscere che ha anche stile nel vendere: entusiasmo per l’articolo e apparente disinteresse per l’aspetto venale della vendita sono le sue armi migliori.
Mentre giochiamo mi interessa più osservare il mio avversario che vincere la partita. Don Angelo si agita sulla sedia, regge le carte con mani tremanti, le studia come fossero il breviario e le gioca con un sospiro di sofferenza. Indossa una maglia nera quasi nuova, ma stranamente lisa all’altezza dello stomaco. È il suo biglietto da visita: in effetti le principali attività del reverendo, carte e cibo, prevedono il continuo sfregamento dell’addome, in lui assai prominente, contro il bordo del tavolo!
- Chiuso!- dichiaro con voce annoiata.
- Lei ha un sedere vergognoso, dottore, se lo lasci dire!
Un ringhio rabbioso fende l’aria, le carte volano per la stanza, la sedia viene scaraventata lontano. È l’ira del prete.
- Ma don Angelo, è la prima mano che vinco su trenta che abbiamo giocato!
- Che cosa c’entra? Sono più bravo di lei e meritavo di vincere.
Occhi lucidi, iniettati di sangue, un rivolo di saliva dal labbro tremolante, don Angelo abbandona la stanza senza salutare. Gli ho rovinato la serata.



Il pettirosso sul susino,di Renzo Montagnoli

                                                                      Foto da web



                                                                             
Il pettirosso sul susino
di Renzo Montagnoli



Stamane ero in giardino
a guardar le piante
ormai sfogliate
allorché un canto non ignoto
s’è alzato dal susino.
Su un ramo un uccellino
intonava una melodia al sole
che a fatica
si faceva largo nella nebbia.
Il suo petto era rossiccio
e palpitava al ritmo
di quella dolce armonia.
Nel grigiore di un inverno
che pare più un tardo autunno
m’è parso un invito a primavera
e tanto tempo ancora
l’avrei ascoltato
se al primo ampio squarcio
del sole vittorioso
lui non fosse volato via.
Ma intanto avevo avvertito
un effimero senso di giovinezza
un istante di speranza
in questi grigi giorni di tristezza.

Da Sensazioni ed emozioni



Chi perde paga, di Stephen King



Chi perde paga
di Stephen King
© 2015 Sperling & Kupfer
ISBN 978-88-200-5903-3
Pag. 470
€ 16,92



Quando uscì Mr Mercedes, il penultimo romanzo di King, già si sapeva che sarebbe stata una trilogia.
Ebbene, Chi perde paga, è il secondo volume dove possiamo rincontrare il detective in pensione Hodges, gli amici che abbiamo conosciuto nel primo volume e anche, seppur immobile in una stanza, il serial killer di Mr Mercedes.
Questo romanzo mi è piaciuto di più, mi ha coinvolta e ha spinto la curiosità di vedere come andava a finire, facendomi inseguire la storia dentro le pagine.
Si parla di Rothstein, uno scrittore che, dopo il primo capolavoro in cui compare il personaggio Jimmy Gold, nel secondo libro relega il suo eroe a un ruolo che a MorrisBellamy non piace proprio.
Saputo che lo scrittore si è ritirato, lui e due compari penetrano nella sua casa per derubarlo. Morris lo uccide, perché si sente tradito dalla penna dello scrittore.
Ruba i soldi dalla cassaforte, ma per Morris il tesoro più prezioso riguarda un numero considerevole di blocchetti scritti a mano dove lo scrittore, negli anni, ha scritto altri due romanzi, riscattando Jimmy Gold.
Morris uccide anche i suoi complici.
La vita a volte è davvero assurda, anche nei romanzi, perché non viene preso per questi crimini, ma bensì perché, ubriaco, stupra una donna e si becca 30 anni di carcere.
Nel frattempo, vicino a casa, ha sepolto in un baule il suo tesoro.
La sua casa viene acquistata da una famiglia che ha due figli, Pete trova il tesoro.
Suo padre figura fra una delle vittime di cui tanto si è narrato in Mr Mercedes, la sua famiglia ha bisogno di soldi e lui pensa bene, tramite lettere anonime, di recapitare loro 500 dollari al mese per aiutarli. Ma anche per Pete il vero tesoro sono i taccuini e le storie che contengono.
Lo storia si fa intricata e arriva al suo apice di tensione quando Bellamy esce dal carcere e torna a cercare i taccuini, avido di sapere cosa contengano. In fondo ha aspettato trent’anni per poterli leggere! Ma con sua sorpresa il baule è vuoto!
Arriva a Pete e qui entrano in scena il detective e i suoi amici, i quali, interpellati dalla sorella del ragazzo che si dice preoccupata per il fratello, scopriranno tutta la vicenda.
L’ossessione per la storia di Jimmy Gold, la ritorsione contro lo scrittore che ha maltrattato il suo personaggio, agli amanti di King ricorda un poco Misery non deve morire.
Ma qui è tutta un’altra storia.
Il finale ci fa già intuire come potrebbe cominciare il terzo libro della trilogia… lo aspettiamo avidamente!!!
Dai tre romanzi sarà tratta una serie televisiva.


© Miriam Ballerini


Il giudice e il suo boia, di Friedrich Durrennmatt



Il giudice e il suo boia


Adelphi pubblica l’opera prima del grande romanziere e drammaturgo svizzero, un “noir” cupo e coinvolgente


Strepitoso Durrenmatt, una partenza con il giallo


Dicono che il personaggio del commissario Barlach, protagonista del noir Il giudice e il suo boia(pp.121, euro 15), strepitosa opera prima di Friedrich Durrennmatt, che Adelphi – intento a curarne l’opera omnia -, ci propone ben tradotto da Donata Berra, possa, per alcuni versi richiamarci la figura del notissimo commissario Maigret disimenoniana memoria. Il raffronto regge fino ad un certo punto, perché quanto il commissario dell’autore belga è dotato di calore umano, altrettanto nel personaggio svizzero non abbiamo la sensazione di rilevare apertamente questo sentimento, essendo egli  più enigmatico ed introverso.
Eppure fu lo stesso Simenon, che del genere se ne intendeva, quando lesse questo noir cupo, implacabile e lacerante, ad affermare: ‹‹Non so che età abbia l’autore. Se è alla sua prima prova, credo che farà strada››. E ci prese in pieno, perché Durrenmatt(Kolonfingen 1921-Neuchatel 1990) è il maggior romanziere svizzero del Novecento, anche drammaturgo e polemista. Teatro del singolare giallo è la terra del bernese, regione natia dell’autore. Ed ecco che il commissario Barlach, pacato e risoluto sessantenne, nonostante la malattia, è chiamato ad intervenire sul mistero di un suo sottoposto, l’ispettore Schmied, un tenente della polizia di Berna, assassinato nell’auto ritrovata in campagna. Con precisione elvetica, l’autore ci comunica anche la data: 3 novembre 1948. E ci fa navigare, dall’inizio alla fine, dentro atmosfere fredde e piovose, atte a creare un clima torbido, perfetta cornice dell’azione. Partono le indagini, di questo giallo emblematico, presto bloccate dal potere e dalla burocrazia. Compito di Barlach è dunque anche quello di stanare il cancro che si annida nel sistema, contagiando la società. L’inchiesta assomiglia ad un duello Vita/ Morte. Al commissario Barlach, ormai prossimo al pensionamento, per seri motivi di salute, si affianca l’assistente Tschanz. Nel corso dell’opera, Barlach incontra Gastmann, suo vecchio amico/nemico, sospettato daTschanz di essere il vero omicida. Per oltre quarant’anni  il commissario ha seguito le orme di questo killer seriale nel vano tentativo di fornire le prove dei delitti via via più audaci, efferati e sacrileghi che costui ha commesso per capriccio.
‹‹Dicevi che è da stupidi compiere un delitto, perché non è possibile muovere gli uomini come figure su una scacchiera. . .›› Forse proprio questa persuasione di Barlach aizzava ed aveva aizzato Grossmann nella sua perversa convinzione della esistenza del delitto perfetto.
L’epilogo è più che sorprendente. Addirittura sconvolgente. Si tratta di una delle opere che meglio esprime il pensiero dell’autore che intende dimostrare l’impossibilità per la giustizia istituzionale di arrivare alla verità, sempre convinto dell’abisso che intercorre tra verità e giustizia umana e verità e giustizia poliziesca.
Nel 1975 è uscito il film Assassinio sul ponte, liberamente tratto da questo testo, scritto e diretto da Maximilian Schell.
Nel 1972 in Italia fu tratto dal romanzo uno sceneggiato televisivo, diretto da Daniele D’Anza con Paolo Stoppa (Barlach) e, Ugo Pagliai (Tschanz).


Grazia Giordani



Il piccolo libraio di Archangelsk, di Georges Simenon



Il piccolo libraio di Archangelsk – Georges Simenon  -   Adelphi – Pagg. 172 – ISBN 9788845921360 - € 17,00


Il mio primo Simenon


“Fu un errore mentire. Se ne rese conto nel momento stesso in cui apriva bocca...”
La vicenda prende l’avvio da una menzogna che in realtà è la diretta conseguenza di un elemento di rottura che scardina la certezza effimera del quotidiano. Tutto qui il nucleo narrativo di questo romanzo: un’idea alla base, le sue dirette conseguenze nello sviluppo successivo.
L’antieroe di turno è Jonas Milk, appassionato filatelico, ebreo di origini russe, sbattuto dagli infelici esiti della Storia del Novecento in terra francese e lì  così ben integrato da essere riuscito a scampare ai rastrellamenti nazisti.
Vive in una piccola cittadina di provincia ma tutto il suo mondo gravita intorno alla piazza del mercato cui si affaccia anche la sua libreria. La sua quotidianità non gli appartiene, non vive una dimensione privata, il suo vivere è – apparentemente- all’unisono con quello degli altri abitanti della piazza che lì vivono e lì gravitano per l’allestimento del mercato. È uno spazio aperto che si apre a infinite relazioni e  la quotidianità è marcata fortemente dalle relazioni di vicinato. Tutti si conoscono: i rumori, i gesti, i movimenti sono avvertiti, avvertibili, conosciuti da tutti.
Jonas ,  libraio quarantenne, è elemento pacifico, perfettamente inserito, integrato in tale contesto dal quale non proviene. Paradossalmente chi invece ne rappresenta un forte elemento di rottura è la sua giovane moglie: le è stata proposta, Gina, benché l’abbia vista bambina giocare tra le bancarelle, ragazza perdersi in condotte poco costumate, ferita dall’amore sbagliato per un poco di buono finito in galera, sopravvivere all’ambiente chiuso della provincia.  Gina spesso evade da quel contesto e torna. Quando sparisce per l’ennesima volta, Jonas mente per giustificarla e mentre lo fa commette l’errore più grande della sua vita, già lo sa...
Il romanzo veicola un messaggio  fortemente pessimista: l’uomo è capace di fare del gran male, al mondo non c’è spazio per la modestia, l’amore, la tolleranza. Tutto è retto dall’ipocrisia delle relazioni e dalla loro labilità, a niente vale la rassegnazione al proprio status, l’accettazione , la condivisione. Vince il più forte, non necessariamente un antagonista al piccolo antieroe, basta solo la perfidia insita nel gruppo che esclude un suo elemento per un qualsiasi motivo, anche il più banale, anche per niente.
Il romanzo lascia di stucco per il suo epilogo tragico, si scolpisce prepotentemente nella memoria per  il suo vinto, si impossessa del lettore con la sua efficace ambientazione e invita, nel mio caso, alla  scoperta dell’immensa galleria di tipi umani sfornata dall’autore, alla ricerca di smentite, conferme e in fondo di una prospettiva di lettura della vita che mi pare veramente interessante.
Lo stile asciutto, sobrio, diretto ben si sposa all’architettura della trama il cui disegno è abilmente anticipato, predisponendo il lettore all’atteggiamento attivo di ricerca, tipico del giallo, salvo poi capire che il geniale Simenon chiude le sue storie a modo suo, lasciando al lettore il tempo di sentirsi irretito, disgustato, sorpreso ma, incredibile, piacevolmente.

Siti



Paese d’ombre, di Giuseppe Dessì



Paese d’ombre
di Giuseppe Dessì
Ilisso Editore
Narrativa romanzo
Pagg. 360
ISBN 9788885098794
Prezzo € 11,00



L’irripetibile vita di Angelo Uras



Se si vuole conoscere il perché degli insanabili squilibri dell’Italia odierna e si vuole comprendere l’incompiutezza di quel grande periodo storico rappresentato dal nostro Risorgimento si deve leggere questo romanzo, un’opera che per valenza letteraria e per i contenuti può essere definita un capolavoro della nostra letteratura. Dietro la vicenda di Angelo Uras, orfano di padre e di condizioni disagiate che eredita bambino un vasto patrimonio dall’eccentrico e anticonformista conte e avvocato Francesco Fulgheri, diventando da adulto un uomo di grande impegno civile, si cela ben altro, si sviluppa un discorso sul mancato obiettivo del nostro Risorgimento, vale a dire quell’unione di spirito e di sostanza di tutti gli italiani, sostituita dall’unificazione delle burocrazie dei precedenti singoli stati, colpa soprattutto del reale intento dei Savoia di ampliare, in danno di tutti, il loro regno.
La Sardegna diventa l’esempio di un’emarginazione di esseri umani abulici e richiusi in se stessi, intolleranti a un’autorità che li spolpa e li persegue, uno sfruttamento che a suo tempo caratterizzò anche il meridione, ribellatosi attraverso un fenomeno troppo sbrigativamente definito con il termine di brigantaggio.
Il romanzo ha più piani di lettura e accanto a quello storico e sociologico figura, maestoso, quello naturalistico, con un’evidenziazione marcata del paesaggio della Sardegna che si compone come una pellicola di fronte a chi legge, natura che si vuole mantenere incontaminata il più possibile, poiché il rapporto fra la stessa e gli abitanti è indissolubile. Ci sono descrizioni di panorami e di atmosfere incredibilmente belle, c’è la forza delle tradizioni che accomuna un popolo che trova nelle sue origini lo stimolo per sopravvivere all’asservimento. Qualcuno potrebbe pensare a certe opere di Grazia Deledda, ma è tutto molto diverso, perché in Dessì c’è un realismo che evita di cadere in qualsiasi stereotipo, senza ricorrere alla ricerca di dubbi usi tipici di una regione; inPaese d’ombre c’è tutta la Sardegna, quella di ieri e quella di oggi, perché l’autore sa cogliere il carattere della sua gente, sa interpretarne i sentimenti, sa portare avanti il discorso di un riscatto che appare sempre di più in’illusione di fronte a uno Stato lontano e insensibile.
Tutto ciò viene raccontato in modo avvincente e semplice, in un italiano che oserei definire perfetto e che di certo Manzoni invidierebbe, insomma è proprio il caso di dire che questo romanzo s’ha da leggere soprattutto a scuola, e il fatto strano è che, benché nel 1972 si sia aggiudicato il Premo Strega, è poco conosciuto, ma senza voler essere maliziosi il motivo di questo oblio appare evidente poiché il potere centrale di uno Stato immobile e che sempre più va allontanandosi dai suoi cittadini non ha alcun interesse che quest’opera, che lo denuncia, sia portato a una conoscenza sempre più ampia.  
Il mio commento sarebbe però incompleto se non accennassi almeno a un altro piano di lettura che è quello dei sentimenti, ben evidenziati nel corso della vita di Angelo Uras, un uomo dalla grandiosa umiltà, un eroe tuttavia borghese, orientato sempre a venire incontro alle esigenze dei più miseri, combattuto fra la mentalità inconscia che gli deriva dalla sua condizione agiata e il desiderio di sanare ingiustizie sociali fin troppo evidenti e stridenti. In questo contesto, come per tutti gli esseri umani, non mancano, anzi sono ben presenti l’amore e l’affetto, la passione e la temperanza, in una vita che se gli ha dato tanto, altrettanto gli ha tolto. Ci sono parti indimenticabili, come quelle della morte della sua adorata madre, in un dolore consapevole della fine di una donna la cui esistenza viene naturalmente meno, anche se nelle sofferenze di un male incurabile; c’è tutto lo strazio per la morte di parto della prima moglie, il suo primo e unico amore, e infine c’è la rassegnazione che porta sempre la vecchiaia.
La sua è stata una vita irripetibile, una continua cavalcata fra gioie e dolori, quasi un sogno il cui ricordo, per quanto attenuato, negli ultimi anni riaffiora per dargli uno scopo per tirare avanti, e il tutto è scritto con mano leggera, ma precisa, in una completezza di approfondimenti che raramente mi è capitato di trovare.
Sì, questo romanzo s’ha da leggere perché alla fine sorgerà una misurata commozione che quasi subito si tramuterà in un accentuato senso di serenità.




Giuseppe Dessì nacque a Cagliari il 7 agosto 1909 e trascorse a Villacidro, cittadina alle pendici del Monte Linas, una difficile, inquieta adolescenza. La scoperta casuale di una biblioteca murata che custodiva, assieme a tanti altri libri, il Catéchisme positiviste e il Cours de philosophie di Comte, il Discorso sul metodo di Cartesio, l’Ethica di Spinoza, la Monadologia e la Teodicea di Leibniz, il Piccolo compendio del Capitale di Cafiero… fu l’occasione per disordinate letture filosofiche e letterarie che lo portarono sull’orlo della follia.
L’intervento del padre (ufficiale, e eroe della prima guerra mondiale), che mitigò il ‘determinismo’ filosofico con la poesia, e un tardivo corso regolare di studi (Dessì fu allievo di Delio Cantimori, allora giovanissimo storico, al liceo “Dettori” di Cagliari) portarono nel 1931 quello che era stato un tempo uno studente ribelle in una delle città universitarie più prestigiose d’Italia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa.
Lì Dessì frequentò, oltre a Varese (che aveva già conosciuto in Sardegna, grazie a Cantimori), Carlo Cordié, Mario Pinna, Carlo Ludovico Raggianti, Aldo Capitini…, laureandosi nel 1936, dopo avere studiato a lungo Tommaseo, con una tesi su Manzoni discussa con Luigi Russo.

I giovanili racconti della Sposa in città e il primo romanzo, San Silvano, segnarono nel 1939 il felice esordio di uno scrittore che con opere di narrativa e teatro avrebbe confermato nel tempo, nel panorama italiano, la scelta di una presenza letteraria e culturale costante, coerente, coraggiosa, discreta. Salutato da Gianfranco Contini come il “Proust sardo” (il saggio-recensione a San Silvano apparve nell’aprile del 1939 su “Letteratura” con il titolo programmatico di Inaugurazione di uno scrittore), Dessìavrebbe proseguito su una strada di ricerca e scrittura originale e personalissima (del 1942 il romanzo ‘bipartito’ Michele Boschino), pubblicando, nei lunghi intervalli tra un romanzo e l’altro, in rivista (e poi in volume) numerosi racconti. Del 1949 una fiaba-libro per ragazzi e adulti, Storia del principe Lui; del 1955, in pieno clima di neorealismo, I passeri, un romanzo che continua ad obbedire alle leggi più tipicamente dessiane della relatività della conoscenza sullo sfondo di grandi avvenimenti storici; del 1959 l’Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, primo romanzo esplicitamente dedicato a quell’alter ego che sarebbe stato costante presenza nella narrativa di Dessì, a partire dal primo racconto-prefazione alla Sposa in città fino alla postuma Scelta. Del 1961 Il disertore, romanzo breve che si muove su piani diversi di sentimenti, di spazi, di tempo, e del 1972 l’ultimo libro compiuto, Paese d’ombre, tentativo di offrire su un impianto di tipo tolstoiano la storia di un personaggio, di un paese, sempre approssimata altrove per sparsi frammenti.

Quasi sempre lontano dalla Sardegna, pur sempre presente alla sua tensione narrativa, sfondo costante di romanzi e racconti drammatici (al teatro di Dessì, rappresentato spesso con notevole successo di pubblico e di critica, vanno ascritti testi di preciso impegno politico: La giustizia, Qui non c’è guerra, Eleonora d’Arborea; mentre La trincea inaugurò nel 1962 la seconda rete televisiva), Dessì fu costretto a spostamenti continui (dopo la Pisa degli anni universitari e Ferrara – dove avrebbe fatto parte del gruppo dei cinque amici di cui parla Bassani in Concerto -, Sassari, Ravenna, Teramo,Grosseto…) da una contrastata carriera di Provveditore agli Studi che si concluse a Roma, dove si trasferì negli anni 50, distaccato all’Accademia dei Lincei. Ma con la Sardegna, dopo la Pisa (e la Toscana) della giovinezza, altre città hanno avuto un’incidenza determinante nella privata biografia e nell’opera: la Ferrara degli anni 40 e Roma, dove visse per oltre un ventennio fino alla morte avvenuta il 6 luglio del 1977.

Premiati in numerosi concorsi (si ricordi almeno il Premio Strega assegnato nel 1972 a Paese d’ombre, tradotto subito nelle più importanti lingue) i libri di Dessì non sono ancora conosciuti e diffusi come meriterebbero, sia in Italia che all’estero; non è stata data l’importanza che meritava al romanzo incompiuto, La scelta, pubblicato postumo nel 1978 da Mondadori, né alle raccolte degli scritti dispersi sulla Sardegna, che si possono sicuramente includere tra le sue pagine più belle e che meritano di essere studiate, come il resto della sua opera, quale produzione di un “classico” del Novecento.
In seguito a generosa donazione della moglie Luisa Babini e del figlio Francesco Dessì-Fulgheri le carte Dessì sono da anni depositate all’Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti” del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, a disposizione degli studiosi.
(Dalla Biografia a cura di Anna Dolfi, ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Firenze)
Fonte Fondazione Giuseppe Dessì


Renzo Montagnoli


MondoBlog del 15 febbraio 2016

MondoBlog
Le segnalazioni odierne (quel poco che ho trovato, perché i blog sono in letargo):