mercoledì 23 marzo 2016

Festività



           Buona


                      Pasqua

Il rapporto dell'uomo con il Divino, di Lorenzo Russo


Il rapporto dell'uomo con il Divino
di Lorenzo Russo


Che cos'è il Divino?
Il Divino universale, cioè quello da cui è sorto il tutto -quello sconosciuto come conosciuto- non è veramente dimostrabile, per cui l'uomo può ricorrere solamente al suo presunto Divino diventato carne, in se stesso quindi, in quanto fu creato a somiglianza del Creatore.
Per trovarlo servono le meditazioni, dalle quali nascano le buone intenzioni che lo aiutino a proseguire sulla via del progresso, invece che della distruzione.
L'islamismo estremo fa leva su una divinità certa e direttiva, su una forza che incute obbedienza assoluta e coraggio a sostenerla, che toglie soprattutto ai giovani la paura della morte e che oggi attira particolarmente un occidente alle prese con la superficialità del capitalismo e le ipocrisie e falsità del comunismo
La globalizzazione in atto sta soffocando la cultura occidentale, quella sorta nel corso della storia dell'uomo con il superamento di gravissimi conflitti, contraddizioni, abusi, torture, diffidenze.
È proprio il risultato di questi superamenti che va protetto come se si trattasse di proteggere un proprio figlio.
Non per questo, anche esso abbisogna di un continuo confronto con le altre culture esistenti, onde potersi riesaminare, rigenerare e migliorare.
Guai, però, al confronto preteso da una esigenza economica contraria alla volontà dei popoli e supportata da una classe politica al suo servizio.
La volontà popolare è il fondamento della democrazia, ma ha valore solo quando viene sostenuta da un sistema economico fondato sulla equità e giustizia.
È tempo di riprendersi il coraggio che la vita facile e superficiale offerta dal capitalismo liberale ha offuscato nelle menti dei popoli.
Non è il benessere materiale che apre le porte del paradiso in terra ed ancor meno dopo questa vita, per cui è tempo di prepararsi al conflitto culturale riaccendendo la fiamma liberatrice che nel corso dei secoli ha formato la cultura liberale dell'occidente.
Quella che è in corso è una lotta di credo tra il mondo democratico e l'altro dominato dalla sottomissione e accettazione di una volontà autarchica e despotica imposta come volontà divina.
E qui mi sembra che il buonismo cattolico si sia unito a quello della parte della nuova sinistra, una volta denominata comunista, disposta a sacrificare le conquiste democratiche dell'occidente all'ideologia universale di poter realizzare in breve tempo l'equiparazione e unione dei popoli senza tener conto dei conflitti identificatori e sociali ad essa inerenti.
Non che io non la sostenga, ma perchè credo che la sua realizzazione richieda un lasso di tempo di molto più lungo affinchè si realizzi senza costrizioni e divieti.
Non è così che il progresso debba sorgere prima nelle coscienze dei popoli per avere successo e che debba essere assecondato da un sistema economico adeguato?
Di fatto ancor oggi il mondo si regge sul principio ideologico dittatoriale, le cui denominazioni e metodi d'uso possono essere anche differenti.
Per esempio dittatura democratica, dittatura islamica, ma dove il principio è sempre lo stesso: quello di comandare e domare il popolo sottostante.
Pari a ciò che succede nell'Universo, anche il nostro mondo si regge dall'alto verso il basso.
In alto le forze che comandano, e non sempre per capacità intellettuale e merito, e più si va verso il basso più si riscontrano le forze deboli e bisognose di direttive e sostegno, come per esempio le suppliche rivolte a un Dio salvatore dimostrano.
La forza della sopravvivenza è dimostrazione dello stato cognitivo e di coscienza del supplicante, fatto che dà luogo all'immaginazione dell'esistenza di divinità differenti e anche contrastanti.
L'attuale invasione in massa di persone di religione islamica nell'Europa creerà senza dubbi i conflitti sopraelencati, per cui è necessario essere vigilanti, fare di tutto per inserirli nella nostra cultura, ma anche essere rigidi e fermi con l'espellere chi non voglia adeguarsi.
E qui mi pongo la domanda: che cosa ha tutto questo con l'esistenza di Dio?
Esiste un Dio senza l'uomo o è Dio nell'uomo creato a sua somiglianza?
È Dio uguale all'uomo, pur con tutte le sue incapacità e fragilità, o è una creazione dello spirito umano grazie alle sue capacità immaginative bisognose di una risposta persuasiva e consolante?
L'uomo ritratto di Dio e Cristo una sua possibile risposta esemplare, una tra altre?
Domande senza chiare risposte, per cui all'uomo non resta che affidarsi alle sue capacità intellettuali razionali, che vanno così coltivate e spronate affinchè egli riesca ad essere ideatore e costruttore del suo destino.
Dio, un essere superiore, sconosciuto nella sua realtà, l'uomo invece inferiore con l'attitudine di volersi elevare a sua somiglianza. Questo concetto ha qualcosa di vero, altrimenti potrebbe essere segno di pura presunzione, vanità, pazzia.
Senza un rapporto con il divino, l'essere umano sarebbe ancor più retrogrado, fino a insignificante; da qui il concetto che esso sia necessario per affrontare con successo le ostilità della sua vita.
È un concetto forte e pericoloso, in quanto potrebbe perturbare il proprio animo a tal punto da renderlo squilibrato, infatuato, pericoloso, diabolico.
Sta all'uomo dimostrare che il credo nella sua origine divina sia testimonianza di verità, cioè che lo preservi dalla sua possibile dannazione aiutandolo a costruire una società spronata a raggiungere lo stato finale evolutivo.
Che sia quello trasmesso dal vecchio testamento, nel quale l'uomo e il divino erano simbiosi vissuta, rimane una speranza che sarebbe bene di non perdere.
Intravedo due reazioni dal rapporto dell'uomo con il divino: una che lo sprona a migliorare le sue condizioni di vita, da svolgere al meglio nell'ambito societario e nella tutela dell'ambiente, l'altra che lo rende presuntuoso, egocentrico, violento nel credo di agire per volontà divina.
Consiglio all'uomo di considerare l'approccio al divino come una polizza assicurativa, che lo aiuti a sopportare le sconfitte con lo sguardo rivolto alla sua origine particolare.
Il riferimento al divino sia per l'uomo il faro della sua salvezza e realizzazione.
Per chiunque volesse lasciare dietro di sè un'impronta personale tangibile deve superare tre fasi: riconoscere, apprendere e mettere in pratica.
E che non si dimentichi di volgere lo sguardo indietro per non smarrire la scia prescelta, onde evitare di essere sviato dai vizi, comuni e non comuni della vita.



Madre, di Adriana Pedicini

Madre
di Adriana Pedicini



Ricordo che allora il momento tanto terribile del distacco non fu vissuto da me con vera partecipazione. Sembra assurdo ma è così.
Un rifiuto della morte come morbo pestilenziale, una specie di miasma che voleva per forza asfissiarmi e il timore di una visione macabra e ripugnante cozzavano contro il disperato bisogno di sentirla ancora viva.
Una madre non può essere per il figlio un essere contaminato o contaminante, uno spettro, e suscitare immagini spettrali.
Pur nella rozzezza delle forme, negli ironici scherzi che la natura opera nei corpi umani, una madre, per il figlio, è sempre un angelo. L’importante è averla, una madre.
La morte quindi è sua nemica. E la morte mi tenne lontana dalla stanza in cui giaceva ormai la sua salma, composta dalla pietà dei parenti e circondata da candelabri lunghi e snelli da una parte, dall’altra da fasci di fiori anch’essi agonizzanti nell’aria afosa e buia dell’ambiente, appena rischiarato da un filo di luce che riusciva a penetrare attraverso lo spiraglio delle imposte socchiuse.
Fin dalle prime ore del pomeriggio in cui cessò di vivere e per l’intera notte seguente mi tenni lontana da quella stanza.
Ugualmente con uno strattone mi liberai dall’abbraccio affettuoso dei parenti, sigillando nel mio silenzio tutto il doloroso stupore di quell’evento.
Poi d’improvviso il culmine drammatico di quel distacco.
Non avrei rivisto più mia madre per anni interi, per un numero infinito di anni, per l’eternità! Eternità! Parola che annullava la speranza, eliminava ogni possibilità: non sarebbero bastati gli sforzi di una vita intera a ricongiungermi a lei.
Eternità come infinità, come nullità!
Sperare d’incontrarmi con lei voleva dire scoprire e possedere la vastità dello Spazio, varcare e comprendere le barriere del Tempo, penetrare nel mistero della Vita-Morte e sovvertirne i principi.
E il cuore vacillava sotto il peso del senso di impotenza che mi possedeva, la mente si disperava.
Corsi allora a racimolare brevi attimi di convivenza, a sottrarre al tempo un ultimo tacito colloquio, a stabilire un estremo patto di amore eterno.
E la ri-vidi, la ri-conobbi, la ri-scoprii bella, sorridente, serena, come non mi sarei mai aspettata si potesse essere nella immobilità della morte.
Gli ultimi giorni di sofferenza le avevano scalfito le gote, le labbra si erano contorte come in un piccolo cerchio che a mala pena lasciava passare un piccolo soffio vitale. Gli occhi soltanto parlavano, tumidi di lacrime, mentre lentamente si volgevano ora qua ora  là verso l’uno o l’altro dei figli.
Non avendo capito l’estremità dell’ora, sedevo su di uno sgabello, accanto a lei, mano nella mano, illudendomi di rinvigorire col mio calore quel tepore freddo che mi sembrava di cogliere al contatto.
Ad un tratto avvertii una specie di scarica elettrica, uno sciame di leggere vibrazioni che dalla sua mano passavano alla mia. Ne rimasi turbata e ricacciai indietro il timore che si trattasse per lei del passaggio fatale, per me dell’estremo messaggio.
Ora invece, di nuovo seduta accanto a lei, di nuovo mano nella mano, la contemplavo, con la punta delle dita le carezzavo la fronte, la baciavo, appena sfiorandole le gote ora di nuovo lisce e distese.
Cercavo di assorbire nella mente e nell’anima quanto più possibile della sua immagine, quasi che io stessa potessi farmi custodia di una sua forma incorporea. Perché fosse, però, più corrispondente al vero, il giorno dopo tracciai sul mio diario segreto, di lei, il volto dell’ultimo istante, il sorriso disteso con cui aveva salutato la vita.
Scorrendo inesorabilmente il tempo cercava di cancellare quell’immagine dalla mia mente; questa reagiva ripercorrendo, quasi fisicamente, i sentieri della nostra vita in comune cercando di fissare un’espressione, uno sguardo, una parola.
Tutto dunque si risolveva in una lotta impari tra l’inevitabile fluire dei giorni e la memoria che tentava di rendere quanto più vigorose e nette le immagini.
Ne derivava un dolore quasi fisico, ricorrente, soffocante; di notte mi sorprendevo a piangere dormendo e il risveglio mi sgomentava per la certezza che un destino crudele aveva cancellato in un attimo un mondo di affetti, un’esistenza tenera di cui avevo tanto bisogno ancora, e per la quale dovevo rappresentare certamente ancora uno degli scopi della vita.
Il ricordo non era accompagnato dal sapore dolce della nostalgia, dalla pacata amarezza del rimpianto. Era trafitto dalle spine di un dolore grondante ancora di lacrime tristi.
Ma un filo di luce doveva alla fine rischiarare le tenebre dell’animo prostrato.
I miei bambini mi chiesero un giorno perché mai i miei occhi si riempissero di lacrime ogni qualvolta guardavo l’immagine di lei sul comodino.
Cominciai, allora, a parlare loro in modo tenero e affettuoso di quella cara figura che essi non avevano conosciuto, ma di cui pur avvertivano la presenza nel mondo affettivo che li circondava.
Eliminai però, per non angosciarli, dalle parole ogni velo di tristezza, ogni rimpianto struggente, ogni senso di vuoto sgomento.
Mi accorsi, allora, che come acqua sorgiva zampilla con vigore dalla roccia, così il ricordo, trasparente e concreto a un tempo, limpidamente fluiva dalla mia mente e dolcemente si concretizzava nelle parole. Mai mi ero accorta della straordinaria possibilità che avevo di renderla viva. Avevo riscoperto a livello di pensiero la sua nuova identità e la possibilità per lei di sopravvivere, per me di crederla viva. Ricreata da questa convinzione, la realtà riemergeva, seppure in altra dimensione.
Non più ricercai assurde immagini di un volto che ormai aveva i suoi lineamenti stemperati nell’infinità dello spirito, non rimpiansi più il tepore di un corpo che aveva acquisito le proporzioni infinite dell’anima.
Per quella sconvolgente e drammatica, misteriosa e divina equazione Vita-Morte e Morte-Vita, riscoprii Lei-Madre in me madre, parti infinitesimali di un disegno, che seppure ci aveva viste protagoniste di un particolare momento drammatico, aveva però un respiro e un significato universale.


È bello ciò che piace, di Renzo Montagnoli



È bello ciò che piace
di Renzo Montagnoli


Gelindo era certo il bello
biondo, occhi celestini
alto e ben piantato
era da tutte ben sognato.
Ma lui si disinteressava
fuggiva le occhiate più lascive
tanto che gli uomini del paese
invidiosi com’erano
al bar, fra una partita e l’altra,
dicevan sempre
che era troppo bello per esser maschio.
Lo guardava pure la Rosina
ma nulla sperava, poverina,
perché di certo la natura
non l’aveva beneficiata.
Magra, anzi secca,
con gli zigomi e i denti sporgenti
una voglia di fragola sulla fronte
era la disperazione di suo padre
che già sentiva odor di zitellaggio.
Ma era simpatica la Rosina,
sempre allegra,
pur consapevole di non essere la Venere di Milo.
E invece Gelindo, serio e laborioso,
soffriva di momenti di tristezza
depressione la chiameremmo oggi
spariva dal bar per tanti giorni
si rinserrava in casa
a luci spente.
Anche per lui si prediceva
un celibato senza appello
quando d’un tratto una mattina
tutto il paese apprese con stupore
che Gelindo e Rosina sarebbero
di lì a poco convolati a nozze.
I soliti maligni insinuarono
un matrimonio di comodo
fra un gay e una bruttina
ma dovettero cambiar parere
quando nacque il primo figlio
a cui altri ne seguirono.
Una Rosina ancor più sorridente
e un Gelindo non più incupito
vissero a lungo d’amore e d’accordo
perché, come ebbe adire il vecchio sagrestano,
è sempre bello ciò che piace.
Ora riposano nel cimitero
uniti anche nella morte
e con le due fotografie ravvicinate
sembrano guardarsi
ancor carichi d’amore.

Da Il mio paese



I Savoia, re d’Italia, di Denis Mack Smith



I Savoia, re d’Italia
di Denis Mack Smith
BUR Biblioteca Universale Rizzoli
Saggistica storica
Pagg. 576
ISBN 9788817115674
Prezzo € 10,41


Fecero e disfecero l’Italia


Come sua abitudine Denis Mack Smoth ha scritto un saggio storico sui Savoia re d’Italia con la ben nota imparzialità e logica stringente che gli sono proprie. Certo, questi personaggi coronati non sono sconosciuti, ma il conoscerli meglio, per quel che effettivamente furono, è il grande pregio di questo libro. La dinastia dei Savoia, forse quella più duratura in Europa, ne emerge in modo chiaro, limpido, senza reticenze, per quel che rappresentò per il nostro paese, nel bene, ma soprattutto nel male. Regnò sull’Italia dal 1861 al 1946, allorchè Umberto II abdicò sulla base del referendum a lui avverso fra monarchia e repubblica, tenutosi il il 2 giugno dello stesso anno. In tutto si è trattato di quattro re nell’arco di nemmeno un secolo, monarchi che mai diedero prova di voler regnare per il bene comune degli italiani, condizionati da una mentalità feudale che li faceva ritenere superiori a tutti e non censurabili. Di ognuno Smith ci fornisce un quadro esauriente, parlando di quanto hanno fatto, quasi sempre sbagliando, e di quanto non hanno fatto e che invece avrebbe dovuto essere realizzato. Il giudizio è impietoso e può anche stupire alla luce del fatto che l’autore è nato e vive in uno stato monarchico, ma dove il re ha più una funzione rappresentativa che politica, ed è il primo a riconoscere l’inviolabilità della democrazia, con tutti i suoi diritti e doveri, validi anche per lui e non limitati ai suoi concittadini.  Già la dinastia dei Savoia avrebbe potuto perdere il trono nel corso della prima guerra mondiale, dopo il disastro di Caporetto, ma si preferì, soprattutto da parte degli alleati, mantenerla in vita onde evitare di aggiungere a uno sconquasso militare una profonda crisi istituzionale.
E pensare che tutto era cominciato nel migliore dei modi, con Vittorio Emanuele II re d’Italia, ma già allora si poteva notare come il comportamento del monarca fosse inferiore alle aspettative e inadeguato ai problemi di uno stato appena nato. Rozzo, per certi aspetti volgare, ostile nei confronti dei politici prese l’abitudine, come i suoi successori, di tenere i piedi in due scarpe, con un indirizzo ufficiale di politica estera diramato agli ambasciatori in aperto contrasto con certe sue manovre sotterranee, di cui i nostri rappresentanti all’estero non erano a conoscenza, con frequenti casi di gaffesdiplomatiche che solo per la scarsa considerazione che avevano di lui i reggenti degli altri stati non ebbero fatali conseguenze. Non era una nullità, ma in ogni caso era inadatto al ruolo che ricopriva. Ancora peggio fu il figlio Umberto I, succeduto al padre nel 1878; di indole conservatrice, diede avvio all’avventura coloniale italiana, segnata da tragici insuccessi e dai costi esorbitanti fatti pagare alla popolazione. Il suo è stato un regno di grande corruzione (basti pensare allo scandalo della Banca Romana); inoltre Umberto I appoggiò sempre apertamente un primo ministro come Crispi, che era un autentico farabutto. Fu fautore della Triplice Alleanza con Austria e Germania e sul piano interno una sanguisuga di prima categoria, e guai a chi osava protestare, anche civilmente, perché l’uomo era spietato (ricordate il massacro a Milano del 1898 operato dai cannoni del generale Bava Beccaris con oltre duecento morti fra i dimostranti che pacificamente chiedevano il calmiere del prezzo del grano con una riduzione dell’esosa e odiosa tassa sul macinato?). Fu proprio questa strage ad armare la mano dell’anarchico GaetanoBresci che a Monza il 29 luglio del 1900 esplose contro il sovrano tre colpi di rivoltella che lo uccisero. La vedova Margherita, che era sua cugina e quindi anche lei una Savoia, ancor più conservatrice del marito, lo pianse coniando anche il famoso appellativo di “Re buono”, del tutto fuori luogo dati i precedenti. Gli successe Vittorio Emanuele III, senz’altro il peggiore, per quanto un po’ più intelligente degli altri. Di meriti che gli si possono attribuire non ne vedo e mi sembra giusto porre in evidenza invece i demeriti che riassumo brevemente. All’approssimarsi della prima guerra mondiale cominciò con il perfezionarsi nel tenere un piede in due scarpe, sostenendo la triplice alleanza mentre invece stava brigando per tradirla e passare alla triplice intesa; nel corso del conflitto poi protesse sempre il comandante in capo generale Cadorna, sebbene la sua incapacità divenisse ogni giorno più manifesta e fu a malincuore, perché costretto dagli alleati, a sostituirlo dopo Caporetto con il generale Diaz; Mussolini non sarebbe andato al potere se lui non l’avesse designato quale nuovo presidente del consiglio e la sua lunga amicizia con il dittatore gli fece chiudere più di un occhio, come sul delitto Matteotti e sulle leggi razziali; non batté ciglio nel caso della guerra d’Etiopia, ben sapendo che sarebbe stato un disastro per le casse dello stato e per quanto tentennante (un giorno sì, un giorno no) sottoscrisse l’atto di entrata del paese nel secondo tragico conflitto mondiale; restò fedele al duce nonostante le sconfitte, sebbene l’opposizione al fascismo crescesse nel paese in modo massiccio e a livello di qualsiasi classe, salvo poi farlo arrestare dopo la famosa seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943. Il suo capolavoro, però, doveva ancora arrivare e fu il modo in cui furono condotte le trattative con gli alleati per pervenire a un armistizio; infatti, mentre trattava con gli emissari americani e inglesi, lasciava aperta una porta ai tedeschi, ma quel che è peggio fu l’8 settembre del 1943, giorno in cui alla radio il Maresciallo Badoglio, dietro sue precise disposizioni,  comunicava l’avvenuta cessazione delle ostilità con gli ex nemici, senza essere chiaro, e senza peraltro aver predisposto il necessario su che comportamento avrebbero dovuto tenere i militari italiani di fronte alla comprensibile reazione dei tedeschi (aggiungo che il re aveva rifiutato un consistente aiuto militare, costituito dal soccorso di una divisione di paracadutisti americana, nel timore di veder sminuito il suo prestigio); poi, i personaggi di questo zoo di incapaci, di inetti e di vigliacchi si diedero alla fuga, tipico di chi tradisce e qui i traditi furono ben tre: i tedeschi, gli alleati e il popolo italiano. Di Umberto II, succeduto al padre, che abdicò poco prima del referendum c’è ben poco da dire, anche lui poco capace, ma almeno, viste le tradizioni di famiglia, sincero.
Questi sono stati i Savoia re d’Italia e proprio non se ne sente la mancanza; comunque è sempre meglio conoscerli di più e questo libro di Smith è un’indispensabile fonte a cui attingere a piene mani e con vero interesse. 


Denis Mack Smith  (Londra, 3 marzo 1920) è lo storico inglese più noto nel nostro Paese e ha scritto libri relativi alla storia italiana dal risorgimento in poi.


Renzo Montagnoli


La scala di ferro, di Georges Simenon



La scala di ferro


Il brivido sale e scende lungo la scala di ferro



Quasi sempre, leggendo un noir di Georges Simenon, (Liegi 1903-Losanna 1989), siamo toccati dalla persuasione di avere sotto gli occhi la sua opera più solleticante, perché – nonostante il folto numero di libri usciti dalla penna del grande belga -, incontriamo nella sua scrittura il fascino dell’imprevisto, della novità, espresso nello stile di uno dei più seducenti scrittori del Novecento, al di là della sua vis di giallista.
E questa sensazione la stiamo ancora una volta provando, giunti all’epilogo  di La scala di ferro (pp.179, euro18) che Adelphi, intento dal 1985 a pubblicarne l’opera omnia, ci propone ben tradotto da Laura Frausin Guarino.
Teatro dell’azione è Parigi, boulevard de Clichy, non lontano da Place Pigalle, Montmartre. Maestro nel creare atmosfere di morboso charme, l’Autore trascina anche noi su e giù per la scala di ferro  a chiocciola (da cui il romanzo mutua il titolo), che congiunge il grande negozio di articoli di cancelleria con la camera da letto dell’appartamento in cui vivono da quindici anni il quarantenne   Étienne e la moglie Louise, di sette anni più vecchia. Respiriamo, fin dall’incipit, un clima di ardente sensualità che riscalda la pagina e la nostra fantasia.
‹‹Louise si spogliava lentamente ed era come se sbocciasse, le spalle rotonde, le braccia, le cosce emergevano dalla penombra, e infine il corpo intero che sembrava animare la stanza di una vita intensa e appassionata. E quando diceva: “Vieni!”, la sua voce era ancora diversa, una voce che lui non aveva sentito a nessuna altra donna››.
Da qualche mese Étienne avverte malesseri ricorrenti, strane crisi che parrebbero di cuore, con un ‹‹intenso e molesto calore alla gola››.  Si fa visitare da tre medici diversi di nascosto dalla moglie che spia, sempre più inquieto. Tiene appunti che nasconde tra le pagine di un libro, in cui annota il progredire del suo stato di salute e soprattutto la qualità dei cibi che gli vengono serviti.
Noi lettori abbiamo l’illusione di sentire il cigolio della scala a chiocciola, ad ogni movimento di Louise. Percepiamo l’ansia del protagonista, uomo introverso, solitario che in quella moglie più anziana ha trovato tutta la gioia che la vita gli aveva sempre negato. L’ansia sale come una persecuzione soffocante.
Étienne quasi farnetica, parla con se stesso, ripensando ai primi incontri con Louise,  folgorato da quella che continua ad apparirgli dotata di un’irresistibile sensualità. Allora, all’epoca dei primi incontri, la donna era sposata con Guillome che poco dopo morì, distrutto da una misteriosa malattia.
Étienne ha sempre saputo di essere stato l’involontaria causa della morte del primo marito, avvelenato lentamente dall’arsenico. E adesso sa che sta arrivando il suo turno. Louise è una perfida dark lady, un personaggio che avrebbe affascinato la fantasia di Hitchcock. Gli elementi parrebbero esserci tutti per un film del maestro del brivido.
La suspense, invece, è tutta nostra, fino all’ultima riga, con un finale da lasciarci sbalorditi, un epilogo che non ci saremmo mai aspettati.
Certamente, La scala di ferro è uno dei migliori tra i ventotto romanzi, dall’autore stesso definiti ‹‹duri››,  (senza contare le ventitré inchieste di Maigret) che Simenon scrisse nei nove anni che trascorse a Lakeville, Connecticut, uno dei periodi più felici della sua vita.

Grazia Giordani



L'uomo di Kiev, di Bernard Malamuf




L’uomo di Kiev – Bernard Malamud -  Minimumfax – Pagg. 405 – ISBN9788875215804 – Euro 14,50


La lettura di questo romanzo  origina una constatazione immediata: l’antisemitismo ha radici profonde capaci di  alimentare  conflitti e opposizioni di varia natura. I libri di storia raccontano l’espulsione  degli ebrei dalla Spagna o  il caso  dell’ebreo Dreyfus, celebre anche per il J’accuse di Zola,  ma gli episodi ai danni del singolo o del gruppo furono i più vari e come è risaputo  toccarono  trasversalmente  l’Europa  e  le sue diverse  epoche storiche acuendosi notevolmente con le conquiste liberali scaturite dalla Rivoluzione francese e giungendo al loro  culmine con la Shoah.Malamud, ispirandosi  al casodiMendel Beilis  ebreo ucraino ingiustamente accusato dell’omicidio di un bambino cristiano nella Russia zarista,  partorisce  il personaggio di Yacov Bok che acquista subito  una chiara identità . Entra in scena in un momento storico poco opportuno, le Centurie Nere in Russia hanno appena arretrato di alcuni passi rispetto alla svolta liberale che le concessioni zariste hanno ventilato. La Duma discute inoltre  l’abolizione della “Zona di residenza “ degli ebrei quando un bambino cristiano viene ritrovato cadavere. Non c’è dubbio: è un omicidio rituale compiuto con lo scopo di avere cinque litri di sangue cristiano per impastare il pane pasquale. Tutti gli indizi vengono  fatti ricadere sull’ebreoYacov Bok che, abbandonato il suo shtelt , è  giunto da poco a Kiev dove è riuscito a entrare nelle grazie di un ricco cristiano  che si ritrova per caso in debito  con lui. La sorte fa allora girare il povero ebreo come una trottola e la spirale lo risucchia nel vortice nero dell’antigiudaismo: capro espiatorio perfetto sul quale si dirottano tensioni politiche e civili all’alba della Rivoluzione di febbraio.
La Storia permette a Malamud  di creare un romanzo dalla portata eccezionale. La rappresentazione della vicenda vive dell’impeccabile stile dell’autore riconoscibile per il suo sguardo emotivamente distaccato, neutrale, per il susseguirsi di pagine mai pesanti in un volume corposo che fa nascere nel lettore un sentimento di ammirazione profonda. Tante parole, pochi accadimenti, una buona sezione dedicata a tre anni di prigionia. Quali elementi allora  riescono a vivacizzare quella che avrebbe potuto correre il rischio di essere solo una cronistoria agghiacciante di una prigionia? Un’ambientazione russa impeccabile, un personaggio unico proprio per la capacità dell’autore di evitare qualsiasi empatia immediata, troppo scontata in narrazioni siffatte, un personaggio infine funzionale all’interesse dell’artista per questioni etiche e religiose. Il rozzo tuttofare di cui si parla subisce le conseguenze indirette di un suo atto di volontà, egli, lasciato il villaggio dopo il fallimento del suo matrimonio, finisce in prigione, soffre e medita: “ Una volta che te ne vai, sei all’aperto: piove e nevica. Nevica storia, vale a dire che quello che succede a un individuo inizia dentro una rete di eventi che esulano dal personale. Naturalmente, inizia prima che arrivi l’interessato. Tutti siamo nella storia, questo è sicuro, ma alcuni più di altri. Gli ebrei, più di alcuni. Se nevica, non sono tutti fuori a bagnarsi”.È inoltre ateo, paga in nome di una religione in cui non crede, lui che conosce l’opera di Spinoza e ne abbraccia il pensiero, lui “libero pensatore” i cui pensieri migliori si originano proprio durante l’esperienza carceraria. La sua catarsi sarà positiva ma, come quella di molti personaggi malamudiani , aperta per cui il lettore è lasciato ancora una volta a proiettare la vicenda nelle sue possibili ramificazioni dopo aver assistito agli ultimi vaneggiamenti di un uomo che alla fine vagheggia solo la libertà. Ho letto l’edizione Minimumfax che riporta questo romanzo in Italia dopo una lunga assenza, lo consiglio anche solo per l’introduzione di Piperno, ottima.

Siti