lunedì 18 aprile 2016

I miei amati figli sconosciuti, di Milvia Comastri


I miei amati figli sconosciuti
di Milvia Comastri



Vi voglio raccontare dei miei figli.
Vi dirò dei miei figli come se non fossero figli miei.
Come se non fossero nati dal mio sangue e dal mio sudore, nella sofferenza e nella gioia.
Scriverò dei miei figli con distacco.
Vi mostrerò l’odio che li ha divorati. Lo farò come il macellaio che espone con metodo i tagli di carne sul banco del suo negozio.
Mi inoltrerò nella loro storia indossando una corazza.
Riporterò i fatti che loro mi sciorinano nel buio, nelle nere notti d’incubo.
Sbarrerò le emozioni con due assi inchiodate, piantate a croce sul cuore. 
E che Dio, un qualsiasi dio, mi assista.

La madre li aveva attesi con curiosità e impazienza. Li aveva chiamati Andrea e Luca. I padri non c’erano: di loro restavano soltanto, riposte in qualche cassetto, una maglietta scucita su una spalla e una poesia interrotta sulla parola verità. Era stata lei ad allontanarli. Dovevano essere solo suoi, quei due figli. Come erano solo suoi i libri che scriveva. Una creazione della sua carne, così come i personaggi dei suoi romanzi erano una creazione della sua mente.
Andrea, il maggiore, aveva la carnagione scura, gli occhi grigi che facevano pensare a un cielo di novembre, quando il sole filtra faticosamente fra la compattezza delle nuvole. Il viso aveva una bizzarra forma triangolare, la fronte era una fascia ampia, il mento, un angolo acuto tagliato da una fossetta. Ricordava una creatura silvestre, una volpe, un elfo. Aveva le ossa minute e le scapole sembravano due piccole ali, come se dovesse innalzarsi all’improvviso e scomparire nell’aria. Dava un senso di incompletezza a chi lo vedeva per la prima volta, quasi ci fosse un dettaglio da aggiungere, un tratto da definire. Ma il disagio cessava quando il volto del bambino si apriva a un sorriso. Ti incantava, quel sorriso, ti faceva nascere il desiderio di chinarti e depositare una carezza su quei capelli corvini.
Luca era roseo e biondo. Si era fatto ben presto più alto del fratello maggiore. Era solido, compatto. Una figura definita. La scultura di un piccolo dio pagano, con una certa arroganza negli occhi azzurri che ti induceva a distogliere lo sguardo. Aveva mani forti, tozze, e se le portava spesso alle orecchie quando non voleva ascoltare. La sua esca era la voce d’angelo, così limpida e armoniosa, che gli adulti cessavano quasi di respirare, quando cantava.
La madre era consapevole solo del sorriso e del canto, non rilevava nessuna disarmonia nei figli tenacemente voluti e amati. Continuava a crescerli, a volte con distrazione, a volte imboccandoli di parole e sguardi d’amore. Soddisfatta, osservava come fossero legati, come l’uno seguisse l’altro, come nessuno dei due cercasse la compagnia di altri bambini.

Vengono a trovarmi di notte, i miei figli intossicati. Strisciano nel buio della stanza, si arrampicano lungo le pareti, si issano in cima al guardaroba, dondolano attaccati alle tende, e cominciano a parlare. Distendono le pieghe nascoste di storie che credevo di conoscere; sgretolano il passato, pietra su pietra. Luca inizia per primo, quasi sempre. Ma a volte è Andrea che lo precede.
«Non hai mai visto nulla», inizia. «Eri cieca, mamma. I miei bravi bambini, dicevi, i miei bravi ragazzi, hai continuato a chiocciare anche quando siamo cresciuti. Ti riempivi del mio sorriso, ti esaltavi alla sua voce. Eri così orgogliosa che i tuoi amati figli stessero sempre insieme, che noi ti paragonavamo a una stupida chioccia gongolante mentre osserva sfilare la sua ultima covata».
«In questo, mamma, eravamo uniti», lo interrompe Luca «Nel giudicarti, nel paragonarti a una gallina, nel sentirci soffocare da tutte le tue parole. Eravamo così solidali, sai, nel non volerti perdonare la cecità che ti impediva di vederci come eravamo, la cecità che ha permesso che la nostra pazzia ci annientasse. Eravamo uniti, mamma, quando sentivamo la fame di un padre che tu ci hai negato. Lui, figlio di una maglietta, e io…io figlio di una poesia interrotta».
«Eravamo bambini cattivi, mamma», riprende Andrea. «Eravamo abili architetti del male. Il nostro cercarci era solo il desiderio di infierirci a vicenda colpi mortali, ferite non rimarginabili. Fin da piccoli, sai, mammina?»

Andrea era il serpente, Luca lo squalo. Come se fossero stati oggetto di una mutazione genetica che invece di alterare i corpi avesse alterato loro l’anima. 
Andrea colpiva velocemente, bastava una piccola frase buttata lì, fra i compagni di classe: mio fratello piscia nel letto, oppure mio fratello si fa le seghe pensando a quella strega della prof di inglese.
Luca era lento, metodico. Preparava piani. Un pomeriggio aveva trovato del veleno per topi in cantina, ben sigillato con metri di nastro adesivo. La madre, prima di riporlo, aveva disegnato un teschio sulla carta, e quel simbolo lo aveva elettrizzato. Ci aveva pensato per giorni, a quel pacco. Poi una domenica mattina aveva preso dal frigorifero un pugno di carne tritata, ed era sceso in cantina.
Andrea aveva trovato Toby, il suo cane, rigido, con gli occhi rovesciati, il muso insozzato da una bava biancastra, vicino al cancello del giardino. La madre aveva accusato il vicino. Andrea aveva pianto molto: gli zigomi appuntiti gli erano rimasti arrossati per ore.
Luca era lo squalo, Andrea il serpente. C’erano cellule impazzite che si nascondevano sotto il canto d’angelo e il celestiale sorriso.
Luca scovava insetti nel terreno umido del giardino. Atterrava Andrea, gli si metteva a cavalcioni. Con due dita gli stringeva il naso per impedirgli il respiro. Nel momento in cui il fratello, privo d’aria, apriva la bocca, lui gli infilava l’insetto morto in gola. Poi si alzava, e mentre l’altro era squassato dai conati di vomito, Luca si metteva a canticchiare a bassa voce The Mosquito dei Doors.
Andrea spargeva semi velenosi di calicanto, menzogne: mio fratello è frociomio fratello ha paura del buio e dorme con mia madremio fratello è pazzo, si sveglia di notte e comincia a ululare come un cane.

Me le raccontano loro, queste storie, nelle ore cupe della notte, quando il fluire della sabbia nelle clessidre sembra fermarsi e la luce è solo un lontano miraggio.
«Non sentivi l’odore della paura nelle magliette di Andrea, Mamma»?
«Non ti sembrava strano che non avessimo proprio nessun amico, Mammina?»

La madre aveva buttato occhiate frettolose a piccoli indizi, ma li aveva accantonati: il vicino che aveva giurato di non aver mai neppure pensato di avvelenare il cane; certi graffi addosso ad Andrea; lo sguardo di Luca,  attraversato a volte da una fiamma inquietante. I silenzi, fra loro; un modo di muoversi circospetto, da animali.
La madre era appagata: aveva un lavoro che amava, si chiudeva nello studio e scriveva fino a notte alta. I bravi bambini, i bravi ragazzi, si facevano compagnia, sembravano non aver bisogno di lei. Invece lei aveva bisogno di loro e allora li chiamava, li voleva accanto, e li baciava, li odorava, gli leggeva le cose che aveva appena scritto. Poi li lasciava andare con una carezza, lo sguardo già impigliato in nuove storie, in altri personaggi.
I ragazzi crescevano: diciotto anni Andrea, sedici Luca. Con gli anni era aumentata la forza distruttiva, quella miscela di odio e complicità che impediva loro di confessare alla madre le crudeltà che si infliggevano. Un codice mai tradotto in parole, quel non dire, il non accusarsi  mai per i soprusi, per le menzogne.
Quando, nel culmine del furore che li assaliva, stavano uno di fronte all’altro, vicini, i pugni serrati, i nasi che quasi si toccavano, si riconoscevano lo stesso sguardo, la stessa luce di follia. Era in quei momenti che si sentivano ben più che fratelli. Si percepivano l’uno l’immagine speculare dell’altro. Sentivano di appartenersi, in quei momenti, di essere uniti da una diabolica catena che non si sarebbe mai potuta spezzare.
Anche Andrea ormai si serviva della forza fisica, per colpire il fratello. Sempre più squalo, sempre meno serpente, si rotolava con lui nella polvere, mordeva, stringeva, storceva.

Sono venuti anche questa notte, i miei figli. I miei folli, amati figli. Sono giunti in silenzio, solo il tocchettio dei piedi nudi sul pavimento mi ha avvertito della loro presenza. Ho acceso la luce, speravo che se ne andassero. Ma sono rimasti. Mi hanno avvolto in un sudario, mi hanno rimboccato coperte di ghiaccio. Si sono seduti sul mio letto, uno a sinistra, l’altro a destra.
Non riuscivo a distinguerli: Luca aveva il mento appuntito di Andrea, Andrea gli occhi azzurri di Luca. Si erano mischiati, confusi fra loro. Ho spento la luce: non potevo tollerarne la vista.
Andrea ha cominciato a parlare, la voce acuta che graffiava la lavagna della notte.
«Era solo un cagnetto, mamma, un povero cagnetto abbandonato nel prato».
«Sì, un cagnetto, mamma, uno schifoso cane giallo con la coda mozza», lo ha interrotto Luca, il timbro profondo che sembrava oscurare maggiormente il buio, «Un brutta bestia sporca che pareva essere arrivata lì proprio  per un sacrifici.
«Era un bel cagnetto, mamma, era come Toby. E lui ha cominciato a tirargli sassi. Lo ha colpito a una zampa, poi alla testa. È così che è andata, mammina, è così che è andata».


Il cane aveva tentato di sfuggire alla sassaiola, trascinandosi la zampa ferita, arrancando a fatica sull’erba ingiallita dal sole. Quando il sasso lo aveva colpito alla testa era riuscito ad arrivare fino alla montagnola di pietre, poi si era accasciato stordito. I due ragazzi stavano venendo verso di lui: uno correndo, l’altro calmo, con passi pesanti, decisi. Il cane aveva cominciato a tremare. Aveva paura di tutti e due, anche del ragazzo che non gli aveva fatto alcun male. Sentiva che il calore, la voglia di correre nei prati, di inseguire una femmina, di abbaiare alla luna lo stavano abbandonando. Sentiva che stava morendo.
Quello dal muso di volpe gli si era accovacciato accanto, e aveva emesso un suono acuto. Poi si era rialzato, aveva preso una grossa pietra e l’aveva  scagliata contro l’altro.
Avvicinavano i loro corpi, si scrutavano, si allontanavano. L’uno girava intorno all’altro, si assalivano, si mordevano, si spingevano.
Lo sguardo del cane non riusciva più a mettere a fuoco le immagini. Forse era l’avvicinarsi della morte, o forse era il turbinare della polvere che i due, rotolandosi a terra, sollevavano. Pietre: c’erano pietre che si abbattevano sulle ossa, che schiacciavano, che frantumavano. Tonfi sordi e ansiti e ringhi.
Sangue. Odore dolce e ferino di sangue.
Rantoli.
Il cane fu scosso da un brivido. 
Poi rimase immobile.
E fu silenzio.

Andrea stava disteso accanto a Luca, di sghimbescio, la testa appoggiata sul suo petto. Un braccio di Luca gli cingeva le spalle. I loro occhi erano sbarrati sul rosso dell’ultimo tramonto.
Alla fine era arrivata la pace.

Vi ho raccontato dei miei figli. Vi ho detto dei miei figli, perché li portiate dentro di voi. Perché siate capaci di comprendere la loro follia e di accoglierla fra le vostre braccia. Quando torneranno a trovarmi io non ci sarò. C’è un altro posto che mi attende. Un posto dove il nero non ha limiti, dove anche il silenzio non ha confini.
Siate voi, vi prego, una madre migliore, per loro, di quanto lo sia stata io.

Da Squilibri  (Tombolini, 2016)


L’opera dei Pupi al Consiglio Comunale, di Salvo Zappulla


L' Opera dei Pupi al Consiglio Comunale
di Salvo Zappulla



Quando l'anziano puparo fu chiamato a restituire la sua anima a Dio, nessuno in paese la considerò una disgrazia, del resto quel brav'uomo i suoi anni sulla Terra li aveva ben spesi; i pupi, grazie alla sua voce e alla maestria delle braccia, avevano allietato le serate di tanta povera gente. Un tempo era stata gremita la sala del modesto teatro, ma ora l'Opera dei Pupi aveva perso gran parte del suo fascino. Orlando e Rinaldo, posti “a singolar tenzone” erano stai soppiantati da più moderne forme di spettacolo, il cinema prima e poi la televisione, che spadroneggiavano. I due paladini  si accontentavano: qualche apparizione sporadica, magari in occasione di ricorrenze importanti, era sufficiente a tener vivo l'orgoglio e la dignità professionale. “Ma ora? Cosa accadrà ora?” era l'angosciosa domanda che l'intero gruppo dei pupi si poneva.
Con la morte del loro padrone si spegneva anche la speranza di quei pochi momenti di ribalta. Nessuno succedeva al puparo, i suoi figli erano emigrati verso lidi lontani e,  nella zona,  altri che esercitassero la professione non ne esistevano.
“Che ne sarà di noi?” si chiedevano impotenti i derelitti pupi. “Quale destino ci aspetta? Vogliono forse abbandonarci in qualche umido scantinato?”.
L'Orlando furioso, già collerico per indole, fremeva dalla rabbia: “Giammai mi piegherò ad una vita da pensionato! Ho un'immagine, io, un passato glorioso da difendere!” Provò a tirare due colpi di Durlindana, ma i suoi arti rigidi e pesanti rimasero inerti.
 Senza la mano sapiente del suo maestro, altro non era che ferrame.
 I pupi  dovevano dunque considerare chiuso il loro ciclo? Davvero per loro non c'era più spazio nell'Olimpo degli artisti?
Fortunatamente qualcuno ebbe a cuore il loro destino: l'Amministrazione comunale, particolarmente sensibile al problema dell'arte, rilevò i pupi, patrimonio storico di tutto il paese. Spolverati e lucidati a dovere, per qualche tempo vissero una seconda giovinezza. Esposti al pubblico, nella sala consiliare, in occasione della festa del santo patrono, suscitarono la curiosità e l'ammirazione dei visitatori. Insomma, da attori protagonisti a semplici pezzi da baraccone, non era il massimo della loro aspirazione,  in quel periodo di crisi dovevano però accontentarsi. L'importante era mantenere ancora un ruolo attivo in società.
Passò qualche tempo e, purtroppo, i nostri eroi tornarono nel dimenticatoio. Si susseguirono le stagioni, si susseguirono anche le amministrazioni comunali ma Orlando, Rinaldo e il resto della compagnia non rividero più la luce. Giacevano ammucchiati nel sottoscala della sala consiliare, ruderi destinati alla spazzatura.
Ma… una notte di Gennaio si verificò un fattaccio. Era una notte senza stelle, la pioggia batteva forte come a voler penetrare dentro le viscere dell'inferno e soffiava un vento gelido di tramontana così violento da scuotere le campane delle chiese, che cominciarono a suonare svegliando l'intero paese.
 La gente, colta di soprassalto, si chiedeva smarrita cosa stesse accadendo. E, mentre i più intrepidi scendevano nelle strade sfidando la furia del tempo, qualcosa di stupefacente avveniva all'interno della sala consiliare. Forse per magia o perché investiti dalla scarica di un fulmine, i pupi si erano animati e, stimolati da energie proprie, avevano iniziato a danzare e a riprendere le antiche sfide.
Quanti ebbero l'ardire di salire fin dentro il municipio, attirati dal fragore dei colpi di durlindana, assistettero a uno spettacolo straordinario. Ancor oggi, con gli occhi brillanti di commozione, parlano di un'esperienza fantastica, irripetibile. “Orlando saltava da un banco all'altro come indemoniato! Dovevate vederli: che scintillio, che sfavillar di lame! Uno spettacolo grandioso!”.
La notte dell'Opera dei Pupi nell'aula consiliare, nessuno la dimenticherà. Per questo, quando in quell'interno si svolge il dibattito politico e la discussione diventa particolarmente accesa, tanto da far risuonare le voci alterate fino alla piazza sottostante, se qualcuno chiede cosa stia accadendo, si sente rispondere malignamente: “Niente, niente, è in atto l'Opera dei Pupi!”.


Da Lui mi aspetto quiete, di Aurelio Zucchi


Da Lui mi aspetto quiete
di Aurelio Zucchi


Nell’era del tutto ha un prezzo,
vorremmo barattar con Gesù Cristo
le scialbe prove delle nostre vite
con uno dei Suoi miracoli perfetti.
Ma non chiediamo pani e pesci,
la Croce é ormai monotona leggenda,
non più icona di quell’eterna Fede
che ora é incolta, maltrattata, offesa.

Chiediamo invece nuovi luccichii,
fulgidi denti in un corpo perfetto  
a far strada al manichino genuflesso
capace solo di mettersi in mostra.
Rumori a coprire silenzi,
a rischio è il blu del mare mio,
la fronte delle idee vibrante al sole
e d’animo le incalcolabili bellezze.

Da Lui mi aspetto quiete,
un punto e a capo promettente,
un altro segno d’indiscusso amore
che scuota l’aria, me, le genti.
Quale perdono é da vagheggiare?
Mentre insicuro tento di parlarGli,
mentre vacillo anch’io coi tanti,
da Lui mi aspetto quiete e… prego.


Il vecchio saggio, di Renzo Montagnoli


Il vecchio saggio
di Renzo Montagnoli


Provate a farci caso:
non c’è paese senza il suo idiota
e a volte anche più d’uno
figure a cui con il tempo
ci si abitua
e che quando vengono a mancare
è come se scomparisse
un tassello d’un mosaico perfetto.
Eh, sì, che lo si voglia
o meno credere
ogni paese ha l’anima
di chi vi abita
figure mai sconosciute
di cui chiara s’avverte la perdita.
Rintocchi lenti di campana.
Chi avrà mai oggi chiusi gli occhi?
Sarà Severino che da tempo
sta poco bene?
Sarà Giuseppe che
che da anni non si muove
e chiede solo di partire?
È quasi una scommessa indovinare
ma una cosa sola è certa:
tutti saranno al suo funerale.
E quando morì Gaetanino
se ne avvertì subito l’assenza
perche gli idioti non mancan mai
ma i saggi sono merce rara
di una saggezza che il tempo
e l’esperienza han rinforzato
di una filosofia più spiccia che teorica
magari condensata in una frase
l’unica chei merita d’esser ricordata.
Per lui a ogni problema c’era rimedio
bastava solo lasciar fare
perché diceva che la vita è un gran casino
un insieme scoordinato di tanti fatti
un filo aggrovigliato
che è inutile sbrogliare
perché col tempo tutto s’aggiusta
in un disegno perfetto del destino.
Aveva novanta primavere
e par che prima di esalare l’l’ultimo respiro
abbia mormorato ai figli intorno al letto:
ecco che il mio filo s’è sbrogliato.
La vita è certo un gran casino
ma la morte è un irrimediabile
tiro mancino.

Da Il mio paese


Aenigma, di Lorenzo Beccati



L’«Aenigma» di Beccati tra Milano e la Germania

IL THRILLER. Torna in libreria con un nuovo «giallo» il famoso personaggio televisivo, che ha dato la voce al Gabibbo
L’aggrovigliata matassa di una sanguinosa rapina verrà dipanata dal commissario Ganz

Dopo «Pietra è il mio nome», ritroviamo in libreria Lorenzo Beccati, celebre voce del «Gabibbo» televisivo, con il suo «Aenigma» (Editrice Nord, pp. 379, 16,90 euro), un thriller fantasy che ci fa supporre la sua simpatia nei confronti di Lovecraft, se non altro per il sentimento d’inquietudine che riesce a generare nel lettore. È sempre nelle giornate qualsiasi che un autore di horror ama ambientare il suo plot narrativo, collocandolo là, quasi per caso, pallida cornice in cui il «dipinto» prenderà connotati ancora più da brivido.È proprio in una di queste giornate scialbe che clienti senza connotati speciali entrano in una banca: una coppia di anziani, una giovane madre, un timido agente di borsa, trasformandosi all’istante in efferati killer.Sparano senza esitare alle guardie giurate e si fanno consegnare un’ingente somma di danaro. Pochi se di borsa, trasformandosi all’istante in efferati killer.Sparano senza esitare alle guardie giurate e si fanno consegnare un’ingente somma di danaro. Pochi secondi dopo, come un tetro fantasma, nell’edificio immerso nel silenzio, compare un uomo vestito di nero che afferra il bottino e se ne va.Non avremmo voluto essere nei panni del commissario Davide Ganz a sgrovigliare questa insolita matassa, dove tutto aleggia in una realtà sospesa che sbalordisce ed inquieta. La soluzione, comprende ad un certo punto il detective, sta nella mente dell’uomo in nero. A dargli man forte sarà Rabiaa, la marocchina che sa trarre segnali dalla gestualità della gente. E noi andremo in «altalena» con questi personaggi da Meersburg, Germania, 1815, alla Milano odierna, con un «cielo novembrino che promette pioggia», pronti a fare un balzo anche nella Foresta dei Violini, 1999. «Aenigma» è l’indovinato titolo del romanzo, dove incontriamo anche un acronimo X Fam, su cui siamo esentati dallo scervellarci, perché ci viene svelato il significato: «Per Franz Anton Mesmer», celebre medico tedesco del ‘700 (da cui deriva l’espressione sguardo mesmerico) unanimemente conosciuto come l’antesignano dell’ipnosi. Pare che i suoi occhi avessero un potere irresistibile, mai più raggiunto in seguito da altri. Al punto che riuscì ad andare oltre l’ipnosi, pensando di entrare dentro il cervello umano. Potrebbe l’uomo nero del romanzo essere un suo imitatore? E in caso positivo, chi è? Avrà una bella gatta da pelare il commissario Ganz, accingendosi a viaggiare dentro la mente dell’uomo misterioso. Chi è curioso proceda nella lettura, gli horror hanno sempre sorprese nell’epilogo.Lorenzo Beccati è nato a Genova nel 1955. Dai primi anni ’80 è il più stretto «complice» di Antonio Ricci, col quale ha collaborato a creare alcuni dei programmi televisivi più fortunati di tutti i tempi. Il suo sito letterario, per chi volesse approfondire, è http://www.lorenzobeccati.com.

Grazia Giordani




Il disertore, di Giuseppe Dessì



Il disertore
di Giuseppe Dessì
Punto di fuga Editore
Narrativa romanzo
Pagg. 224
ISBN  9788887239157
Prezzo € 14,46

Silenzio, solo silenzio


Dopo aver letto lo splendido Paese d’ombre ho deciso che era necessario conoscere meglio questo autore sardo che tanto mi ha stupito per le indubbie eccelse qualità letterarie, onde anche verificare che quella non fosse da considerarsi un’opera unica e fortunata. È così che ho reperito, non senza difficoltà, Il disertore (e mi sto ancora chiedendo come sia possibile che noi italiani ci dimentichiamo i lavori di artisti così grandi, spesso andando a preferire altri, magari accattivanti, ma senz’altro qualitativamente inferiori).
È questo un romanzo più breve, ma più complesso, scritto nel solito italiano perfetto, senza tanti fronzoli, per nulla dispersivo, anzi intenso in ogni frase. Non sto a raccontare la vicenda, di indubbia originalità, con questa povera madre che ha perso gli unici due figli nel corso della prima guerra mondiale che, nella trama, è finita da poco tempo. In verità caduto in combattimento è solo il più vecchio, mentre il più giovane, dato per disperso, ha invece disertato e arrivato, fra mille traverse, nella sua isola va a morire nella capanna in montagna dove lavorava il latte degli ovini.
Il conflitto, quell’enorme mattanza, ha lasciato i suoi segni e il sangue dei morti si è riversato inesorabile sui vivi; in tanti hanno perso un familiare, in troppi c’è una sofferenza che con il tempo s’indebolirà, ma in una madre che è stata privata delle sue due uniche creature, una povera donna in tutti i sensi, si è aperto un tempo senza futuro, una lenta silenziosa agonia in cui il dolore regna sovrano; ci sono poi quelli che hanno sperato in un mondo più giusto, che si sono illusi con le false promesse e che, sulla scorta del successo della rivoluzione bolscevica, reclamano quei diritti sempre a loro negati e inoltre c’è una classe reazionaria che intende mantenere a ogni costo i suoi privilegi, ricorrendo anche alla forza e appoggiando apertamente il nascente fascismo; e infine, in contrapposizione a coloro che soffrono in silenzio i loro caduti, ci sono quelli che vogliono ricordarli pubblicamente, dando vita a cerimonie e monumenti pasciuti di quella retorica che è sempre foriera di nuovi conflitti. In questo scenario, fra scontri di piazza, non solo verbali, tanto che ci scappa anche il morto, ci sono tre personaggi di grande umiltà che danno vita al racconto: la madre dei due figli caduti, Mariangela Eca, una donna che sembra un’ombra, Don Pietro Coi, viceparroco del paese,  un sacerdote scomodo, perché non allineato con i potenti, e il dottor Urbano Castai, medico di un altro villaggio, amico dall’infanzia con il prete, persona capace nella sua professione, uomo libero e indipendente, e perciò visto come strano o addirittura come anarchico. Ognuno dei tre ha un ben preciso ruolo: la prima, la donna, è il ritratto dell’intenso dolore rappresentato dal suo silenzio, il secondo è l’uomo di fede tormentato da un dubbio irrisolvibile (infatti ha assistito il disertore morente, ne ha raccolto anche la confessione, con grande senso di pietà non solo come religioso, ma anche come essere umano e continua a chiedersi se ha fatto bene a non denunciarlo, un obbligo derivante dall’appartenenza allo stato); il terzo, il medico, nulla sa dell’uomo che ha disertato, ma lo intuisce e lo aiuta. Sono tre personaggi emblematici di tre esseri umani che sanno di avere una coscienza, che sono disposti a correre dei rischi per non andare contro questa coscienza, che non conosco alternative, mosse politiche o altro, perché hanno nell’animo quella fiammella che li distingue dalle bestie e inoltre, per loro natura, sono pacifici e di conseguenza, anche se non esplicitamente, aborrono la guerra,
Quindi, come nel caso di Paese d’ombre, i piani di lettura sono più d’uno, anche se nel caso specifico la ricerca intimistica è prevalente.
Sono cessati i fragori dei cannoni, gli strepitii delle armi, per chi se n’è andato, per chi è caduto sul campo di battaglia deve restare solo il silenzio a fronte di roboanti commemorazioni che pretendono di rendere collettivo un dolore che può essere solo individuale.
Nell’assenza di suoni e rumori che chiude il libro si viene vinti dalla commozione, si resta un poco assorti nel pensare alle vittime di quella carneficina e anche noi apprezziamo cosa è il valore e il significato di quel silenzio.
Imperdibile. 

Giuseppe Dessì nacque a Cagliari il 7 agosto 1909 e trascorse a Villacidro, cittadina alle pendici del Monte Linas, una difficile, inquieta adolescenza. La scoperta casuale di una biblioteca murata che custodiva, assieme a tanti altri libri, il Catéchisme positiviste e il Cours de philosophie di Comte, il Discorso sul metodo di Cartesio, l’Ethica di Spinoza, la Monadologia e la Teodicea di Leibniz, il Piccolo compendio del Capitale di Cafiero… fu l’occasione per disordinate letture filosofiche e letterarie che lo portarono sull’orlo della follia.
L’intervento del padre (ufficiale, e eroe della prima guerra mondiale), che mitigò il ‘determinismo’ filosofico con la poesia, e un tardivo corso regolare di studi (Dessì fu allievo di Delio Cantimori, allora giovanissimo storico, al liceo “Dettori” di Cagliari) portarono nel 1931 quello che era stato un tempo uno studente ribelle in una delle città universitarie più prestigiose d’Italia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa.
Lì Dessì frequentò, oltre a Varese (che aveva già conosciuto in Sardegna, grazie aCantimori), Carlo Cordié, Mario Pinna, Carlo Ludovico Raggianti, Aldo Capitini…, laureandosi nel 1936, dopo avere studiato a lungo Tommaseo, con una tesi su Manzoni discussa con Luigi Russo.

I giovanili racconti della Sposa in città e il primo romanzo, San Silvano, segnarono nel 1939 il felice esordio di uno scrittore che con opere di narrativa e teatro avrebbe confermato nel tempo, nel panorama italiano, la scelta di una presenza letteraria e culturale costante, coerente, coraggiosa, discreta. Salutato da Gianfranco Contini come il “Proust sardo” (il saggio-recensione a San Silvano apparve nell’aprile del 1939 su “Letteratura” con il titolo programmatico di Inaugurazione di uno scrittore), Dessìavrebbe proseguito su una strada di ricerca e scrittura originale e personalissima (del 1942 il romanzo ‘bipartito’ Michele Boschino), pubblicando, nei lunghi intervalli tra un romanzo e l’altro, in rivista (e poi in volume) numerosi racconti. Del 1949 una fiaba-libro per ragazzi e adulti, Storia del principe Lui; del 1955, in pieno clima di neorealismo, I passeri, un romanzo che continua ad obbedire alle leggi più tipicamente dessiane della relatività della conoscenza sullo sfondo di grandi avvenimenti storici; del 1959 l’Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, primo romanzo esplicitamente dedicato a quell’alter ego che sarebbe stato costante presenza nella narrativa di Dessì, a partire dal primo racconto-prefazione alla Sposa in città fino alla postuma Scelta. Del 1961 Il disertore, romanzo breve che si muove su piani diversi di sentimenti, di spazi, di tempo, e del 1972 l’ultimo libro compiuto, Paese d’ombre, tentativo di offrire su un impianto di tipo tolstoiano la storia di un personaggio, di un paese, sempre approssimata altrove per sparsi frammenti.

Quasi sempre lontano dalla Sardegna, pur sempre presente alla sua tensione narrativa, sfondo costante di romanzi e racconti drammatici (al teatro di Dessì, rappresentato spesso con notevole successo di pubblico e di critica, vanno ascritti testi di preciso impegno politico: La giustizia, Qui non c’è guerra, Eleonora d’Arborea; mentre La trincea inaugurò nel 1962 la seconda rete televisiva), Dessì fu costretto a spostamenti continui (dopo la Pisa degli anni universitari e Ferrara – dove avrebbe fatto parte del gruppo dei cinque amici di cui parla Bassani in Concerto -, Sassari, Ravenna, Teramo,Grosseto…) da una contrastata carriera di Provveditore agli Studi che si concluse a Roma, dove si trasferì negli anni 50, distaccato all’Accademia dei Lincei. Ma con la Sardegna, dopo la Pisa (e la Toscana) della giovinezza, altre città hanno avuto un’incidenza determinante nella privata biografia e nell’opera: la Ferrara degli anni 40 e Roma, dove visse per oltre un ventennio fino alla morte avvenuta il 6 luglio del 1977.

Premiati in numerosi concorsi (si ricordi almeno il Premio Strega assegnato nel 1972 a Paese d’ombre, tradotto subito nelle più importanti lingue) i libri di Dessì non sono ancora conosciuti e diffusi come meriterebbero, sia in Italia che all’estero; non è stata data l’importanza che meritava al romanzo incompiuto, La scelta, pubblicato postumo nel 1978 da Mondadori, né alle raccolte degli scritti dispersi sulla Sardegna, che si possono sicuramente includere tra le sue pagine più belle e che meritano di essere studiate, come il resto della sua opera, quale produzione di un “classico” del Novecento.
In seguito a generosa donazione della moglie Luisa Babini e del figlio Francesco Dessì-Fulgheri le carte Dessì sono da anni depositate all’Archivio Contemporaneo “A. Bonsanti” del Gabinetto G. P. Vieusseux di Firenze, a disposizione degli studiosi.
(Dalla Biografia a cura di Anna Dolfi, ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Firenze)
Fonte Fondazione Giuseppe Dessì

Renzo Montagnoli


Il mio nome è Asher Lev, di Chaim Potok



Il mio nome è Asher Lev – Chaim Potok -  Garzanti – Pagg. 317 – ISBN9788811632153 -  € 13,00


I sentieri della vena narrativa di Potok sono caratterizzati da costanti che rendono ogni suo scritto al contempo familiare e originale. Le ambientazioni, le tematiche, gli stessi personaggi sono riconducibili alla rappresentazione della comunità ebrea di New York pur assumendo valore assoluto e universale così da rendere il contenuto e il messaggio validi in ogni quando e in ogni dove.  Sempre e ovunque.
I personaggi sono in primo luogo  membri di una comunità allargata e religiosa e insieme di una famiglia: accade ovunque dalla notte dei tempi; vivono intime fratture rapportandosi con se stessi e con gli altri: quando è accaduto il contrario? Entrano in conflitto con la cultura che li ha generati: evolvono, involvono, patiscono, soffrono, in una parola vivono.
Asher  Lev , pittore ebreo  ormai affermato, osannato, criticato e  ripudiato non sfugge al dolore del mondo e ce lo racconta prendendo parola e affermando il suo punto di vista nel tentativo di smitizzare la sua persona, semplicemente offrendosi nella sua integrità morale ed etica consapevole della prepotente doppiezza che suggella ogni animo umano: insieme bene e male, virtù e vizio, eccellenza e mediocrità.
È  in lui  il dono della pittura che lo domina e  ne guida il suo sentire e il suo comunicare. Esso scavalca tradizioni, sentimenti, mina i rapporti comunitari,  i legami famigliari, conduce all’isolamento cui costringe, spesso, un’affermata individualità.  A niente valgono  le raccomandazioni :”Molte persone quando sono giovani sentono di possedere un grande dono. Ma non sempre ci si abbandona a un dono. Una vita la si dedica a ciò che è prezioso per se stessi ma anche per la propria gente”.
Tutta la comunità assiste alla crescita di Asher contribuendo anche  a mantenere intatta almeno l’integrità religiosa così sentita dai Chassidim Ladover, accettando  quindi l’apertura verso il mondo della rappresentazione figurativa, aprendosi alla possibilità di aver generato un ebreo osservante e artista. Quando però il sentire artistico porterà al limite il codice iconico e simbolico e con esso il  suo doloroso messaggio,   la frattura sarà inevitabile.  Potenti  tutti i personaggi , eccezionale la loro carica umana a partire dal trittico  di famiglia : un padre, una madre, il loro unico figlio, loro e della comunità tutta. Funzionali , misteriose e formative il Rebbe e il pittore  anziano. Immancabile la contestualizzazione storico- politica e con essa l’impegno culturale e sociale, imperdibili i riferimenti al mondo dell’arte e della cultura in generale.
Il romanzo è corposo, tenero e pungente al tempo stesso, doloroso, intimo e prezioso come  sa esserlo un rapporto di parentela, ma soprattutto è prezioso perché aprendo il mondo chiuso degli ebrei ortodossi di Brooklyn , facendoci familiarizzare con il loro universo permette di superare le barriere culturali per ribadire l’universalità del sentire umano.  È inoltre un’interessante e presumo autobiografica riflessione sulla tensione creativa,  sull’essere artista, sul rapporto realtà e rappresentazione, sulla funzione dell’arte, sul rapporto, infine,  tra l’artista e le sue opere.

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Miracolo a Piombino, di Gordiano Lupi



Gordiano Lupi
Miracolo a Piombino
Historica edizione
2016
Candidato al Premio Strega 2016


Nella vita si è spesso a un bivio e massimamente nell’adolescenza. Marco possedeva tutte le incertezze, i malumori, le crisi tipiche dell’età adolescenziale e la consapevolezza indotta dagli adulti che era arrivato il momento di cambiare rotta. Avviene però che proprio in quel momento si fratturi il dialogo di emozioni e di affettività con i propri genitori e ci si chiude in se stessi in un indecifrabile mutismo, incapaci di trovare un punto d’incontro.
Forse per questo Marco  trovava nei gabbiani del porto degli amici a cui poter idealmente confidare le proprie pene. Proprio come il gabbiano Robert a cui la vita aveva riservato il dubbio dell’avvenire, l’incertezza di quel che sarebbe stato. Pensieri che questi rimuginava in solitudine lontano dallo stormo degli altri gabbiani impegnati ad essere sempre proni col becco sulla scia dei pescherecci alla ricerca di cibo.
Emerge in tutto il suo valore metaforico il parallelismo tra il giovane Marco e il gabbiano Robert. Spicca il ruolo della memoria, soprattutto in tale momento cruciale della vita, soprattutto quando la Vita, quella del vecchio nonno, sta per avere fine, ma non così le storie da lui narrate al nipote quando costui era piccolo, rimaste impresse nell’animo al punto da farne mezzi con cui ancorarsi al passato contro le intemperie e le incertezze del futuro.
L’unico conforto sempre lui, il gabbiano, reietto e solitario pure lui, a cui confidava i segreti pensieri e il desiderio di imparare a volare, senza però ottenerne risposta, o forse la risposta c’era ma Marco non riusciva a comprenderla. Bisogna adottare lo stesso linguaggio per comprendersi o almeno avere l’animo sgombro da pregiudizi.
In entrambi tuttavia si percepiva il desiderio di un mutamento o forse di una fuga.
Quando ci si sente diversi o quando gli altri sembrano diversi non rimane che la fuga, dalle mode, dall’ovvio, dal conformismo, in una parola la solitudine, e il tentativo al contempo di scoprire realtà altre che diano il senso della libertà, condizione unica per l’autodeterminazione, per poter essere quello che ci si sente di essere. Soprattutto nell’età in cui “niente era chiaro ma tutto era possibile” (pg.44).
Il protagonista dunque anela a null’altro che a fare le scelte, le sue, negli studi, come nella musica, e in genere nella vita secondo le sue inclinazioni.
Un ribelle, dunque, proprio come il gabbiano Robert; insofferente dello stereotipato mondo degli adulti l’uno, come delle regole del vecchio Rudy l’altro.
Il romanzo si snoda lungo una serie di quadri giustapposti che si intersecano e si sovrappongono tra similitudini e metafore nel dedalo di strade, vie, profumi di casa, panchine di fronte al mare, fiori arsi dal sole e dalla salsedine, tra lo scrosciare delle fontane e il frastuono dei pennuti in cerca di cibo, il sibilo lontano della sirena dell’acciaieria e lo sferragliare dei treni sulle rotaie. Eppure tutto questo scenario, registrato con dovizia di particolari annodati dal filo del ricordo, è inadeguato per chi anela a scoprire il senso della vita.
Intanto prende consistenza la fuga dal reale e il perdersi nella lettura dei romanzi di eroi e di malinconia, mentre la mente era lacerata dal rancore verso “una piccola città, bastardo posto” in cui vigeva ancora una situazione di micro feudalesimo clientelare, e il sogno di un mondo altro, lontano, magari di “raggiungere la fine del mondo”.
I rischi, i pericoli sono sempre in agguato quando si cerca di vivere secondo le proprie scelte a riprova che non è possibile recidere i legami col mondo che ci circonda nonostante l’irrefrenabile voglia di solitudine.
Il solo essere nel mondo ci lega al mondo in tutte  le sfaccettature e c’è sempre un momento in cui appare evidente l’attrito con la “normalità”, e il dolore di altre fratture, insospettabili, inattese, come la morte della persona amata, come la sua Sara, naturalmente è seguito dal crollo dei sogni e delle speranze. Di qui lo sperdimento, la paura, la tristezza e il rifugio nella memoria come unico stridente conforto.
“Ti nascondo dalle pene del mondo” lo confortava un volto di bambina emerso dal limbo della memoria, provocando una scia di rammarico, persino di rimorso nel suo animo.
 E si sentiva profondamente infelice, nonostante non avesse ancora vent’anni.
“Avevo vent’anni, Non permetterò
A nessuno di dire che quella è la più
Bella età della vita”
I versi di Paul Nizan gli martellavano in testa.
Infatti proprio a causa di questo amore che non aveva mantenuto la promessa di vita, il cui ricordo pesava come un macigno, il senso di colpa gli toglieva la serenità facendolo sprofondare in incubi tetri.
Per antitesi il suo Alter ego, il gabbiano, godeva una vera e propria situazione paradisiaca in un mondo neppure tanto diverso da quello che aveva lasciato sentendosi pienamente realizzato in una diversa dimensione pur ancora raminga e solitaria. Ma altra era la disponibilità verso la vita.
Essere al mondo significa stare nel mondo e non poter eludere gli incontri neppure quelli casuali. I quali a volte si rivelano decisivi e fondamentali, capaci di infrangere la barriera di solitudine ed isolamento, perché due solitudini possono affrontare insieme il futuro, non escludendosi dalla comunità.
Alla fine l’ignoto non era un luogo da conoscere nelle spiagge deserte o tra gli scogli lontani all’orizzonte. Era un grumo nel cuore e un’asfissia dell’anima che andavano risolti in altro modo.
E la gabbianella ne aveva tutto il merito “perché vicina al suo mondo interiore”.
Sicché alla solitudine di prima pian piano va sostituendosi, grazie all’incontro con la compagna, solcata ugualmente da intensi passati dolori, un pensiero d’amore che scaldava l’anima e apriva gli occhi alla vita, al tempo il quale ogni giorno è una conquista da vivere come un dono.
Questo è guardare al futuro: accettare quello che avviene ogni giorno, giorno dopo giorno, nelle nostre vite.
Per antitesi Marco non riesce a liberarsi di un amore appena vagheggiato e già finito, di una febbre d’amore che l’aveva bruciato e di cui ora vegliava le ceneri, del fremito dei baci destinati a rimanere inerti per sempre.
Eppure sente di dover reagire, pena la sua perdizione, comprende che la solitudine non è una gabbia d’oro, è solo una gabbia che rischia di trasformarsi in assenza e fare di lui un assente nella vita.
Non rimaneva dunque che ribellarsi al destino che egli stesso stava tratteggiando. Occorreva uno sforzo d’amore per la vita, uno slancio vitale che significasse speranza e non ripiegamento sul passato, capacità d’amare e non tristezza  per un amore perduto. Riuscire a conciliare il passato e il presente, a preparare tramite il presente il futuro, proprio come fosse un miracolo, anche per Robert il gabbiano, per miracolo, fu l’inizio di una svolta di vita e l’abbandono della solitudine.
Tutto ciò per capire che “è inutile cambiar sede se l’anima è malata” (Seneca) e che non esiste mondo migliore di quello in cui sono radicati affetti profondi, antichi, vecchie memorie da custodire perché rivivano in noi e non siano ceneri da contemplare in sterile silenzio.
Dunque ritornare alla terraferma equivaleva rinascere a nuova vita, dato che nuovi erano i sentimenti con cui guardare al già noto. 
Pertanto l’isola a cui approdare per rinascere non è lontana da noi, è in noi purché si abbiano occhi tersi per guardare alla vita.
Solo così il passato non è sinonimo di angoscia o di rimpianti e rimorsi ma una fucina a cui attingere con rinnovato esperienza.
La metafora del volo, aspirazione alla conoscenza del noto gabbiano Jonathan Livingston dell’omonimo romanzo di Richard  Bach,  diventa in questo piccolo ma prezioso romanzo l’epilogo felice che vede in Robert il Maestro, in Marco il discepolo finalmente diventato docile e pronto ad accogliere consigli e insegnamenti, a spezzare la solitudine per ritornare spiritualmente nell’ambiente che l’aveva visto crescere, con consapevole gratitudine, repressa  dapprima e quasi odiata a causa di un eccessivo ed egoistico amore di sé, mal interpretato e fonte di altri dolori.
Il volo era iniziato, la libertà si era dischiusa sulle ali di un gabbiano. La nuova vita guardava al futuro.
In conclusione, un romanzo con un importante messaggio, scritto in stile piacevole e scorrevole, quasi fotografico, maggiormente fantasioso nelle pagine in cui protagonista è il gabbiano,  ricco di particolari, alquanto eccessivo nelle citazioni, che rischiano di apparire sfoggio erudito. 
Notevole il corredo di suggestive fotografie in bianco e nero dell’artistaRiccardoMarchionni. Conclude il libro il racconto Il ragazzo di Cobre che affronta, che affonda lo sguardo nella condizione complicata dell’adolescenza in realtà obiettivamente difficili, come quella del terzo mondo.
E su tutto campeggia il  grande amore per Piombino.

Adriana Pedicini