giovedì 12 maggio 2016

Fine colpa: ora. Fine pena: dopo, di Ferdinando Camon


Fine colpa: ora. Fine pena: dopo
di Ferdinando Camon


Quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 13 aprile 2016



Il Veneto diventa l’epicentro di una battaglia nazionale contro l’ergastolo ostativo. L’ergastolo ostativo è quello senza fine, quello che quando un condannato entra in carcere, sulla sua cartella viene scritto: “fine pena: 31/12/9999”. Il computer non può scrivere “mai”, deve mettere una data, e perciò mette quella data, che equivale a “dopo la morte”. C’è un ergastolano a vita nel Veneto, Carmelo Musumeci, che scrive email, articoli, libri, e tempesta il mondo di messaggi: vuole uscire. L’ultimo libro è di questi giorni. Ha la prefazione di Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte Costituzionale. In contemporanea con questo libro ne esce un altro, di Elvio Fassone, senatore, membro del Consiglio Superiore della Magistratura, intitolato (un titolo che lo riassume) “Fine pena: ora”.
La Corte Costituzionale giustifica l’ergastolo ostativo, ma la battaglia per la sua abolizione è aperta. Vediamo le sue ragioni.
Musumeci ha buona lingua e grande sincerità. Scrive sempre sulla disumanità del “fine pena mai”, sulla cancellazione dalla mente del condannato del concetto di tempo, di speranza e di futuro. Le visite dei parenti, i dialoghi con i figli, le domande: “Papà, quando torni?”, tutto è insensato. Lui non tornerà mai. È un uomo-ombra, espressione inventata da lui. È un ergastolano “senza scampo”, altra definizione sua. Può uno Stato condannare al carcere eterno? Può creare uomini-ombra? Può inventare la figura dell’ergastolano senza scampo? Uno Stato che fa così, non è uno Stato criminale? Incostituzionale? Vedo, dalla prefazione di quest’ultimo libro (Gli ergastolani senza scampo), che un presidente emerito della Corte Costituzionale gli dà ragione. Non porterò le mie deboli conoscenze del Diritto a confliggere con la scienza dei luminari. Ma prego i luminari del Diritto di prendere atto che i diari e le confessioni rivelano verità che sul Diritto devono avere un peso. Per esempio questa: questo ergastolano, capo di una banda mafiosa, non parla mai di quelli che ha ucciso. Chi sono? Quanti? Come li ha eliminati? Perché? Sono domande ininfluenti, per capire la colpa e quindi la pena? Lui dice sempre: “Maledetto lo Stato che mi tiene in carcere”. Perché non dice mai: “Maledetta la mafia, che mi ha fatto finire in carcere”? I figli gli chiedono: “Papà, perché lo Stato è cattivo con te?”. Perché non gli chiedono mai: “Papà, ma tu sei stato cattivo? Hai ucciso della gente?”. In un libro che è una narrazione esemplare del delitto e del castigo, e che ha queste parole nel titolo, l’assassino si tormenta in prigione pensando alle sue vittime innocenti, due donne, e ai loro “occhi buoni”: perché questo ergastolano non pensa mai alle persone che ha ucciso? L’ergastolo ostativo gli vien dato perché ha ucciso insieme con altri, la giustizia cerca questi altri, lui sa chi sono ma non vuole farne i nomi. Li protegge. Dice l’illustre magistrato prefatore: “Non vuole uscire di prigione mandando altri in prigione”. Sembra che mandarli in prigione sia una vigliaccata. Ma non sono assassini? E non è giusto che gli assassini vadano in prigione? Questo condannato è conteso fra due forze, lo Stato che gli chiede “aiutami a fare giustizia”, e la mafia che gli chiede “aiutami a nascondermi alla giustizia”. Lui aiuta la mafia. E continua ad aiutarla ogni volta che si rifiuta di rispondere a chi lo interroga: la sua è una colpa senza fine. Perché lo Stato dovrebbe premiarlo? L’altro libro, “Fine pena: ora”, sostiene fin dal titolo che l’ergastolano senza fine pena deve finire la pena adesso. Sono d’accordo, con una precisazione. L’ergastolano senza fine pena è quello che si rifiuta di aiutare la giustizia e quindi è in colpa, una colpa che non finisce mai. La faccia finire, e finirà anche la sua pena. Fine colpa: ora. Fine pena: dopo.



Di giorno in giorno, di Renzo Montagnoli


Di giorno in giorno
di Renzo Montagnoli


Di giorno in giorno
assaporo il nettare della vita
mi illumino di serenità
alle albe che fugano le tenebre
colgo il respiro di una notte di luna
mi inebrio a scrutar le stelle
gioisco al sorriso di un bimbo
inseguo con la mente
il volo di una farfalla
mi assopisco dolcemente
al gorgoglio di un ruscello
mi struggo di lieta malinconia
a un tramonto sul mare.
Vivo ogni minuto
quanto di bello
il mondo sa offrire.
Il tempo è breve
e lo colgo di giorno in giorno
di ora in ora
di minuto in minuto
fino all’ultimo istante,
            anche quello.

Da Lungo il cammino

La colonna sonora:




La notte ha il fiato corto, di Cristina Bove


La notte ha il fiato corto
di Cristina Bove

dice:
qualcuno si è seduto sul mio letto
un tocco gelido
dalle sue mani alle mie mani
respirava il mio sonno
aggiunge: sarà questione temporale
_il repentino pianto mi sconfigge_
lui non ha più le forze
per contrastare il freddo
anche l’amore gli è di troppo
se ne sta nel suo bozzolo ovattato
tornato un po’ bambino
avrei da dirgli tante cose ancora
ma ormai ci sente poco
e non posso gridare ad alta voce
ciò che andrebbe soltanto sussurrato.
A gesti gli domando se ha paura
no, mi assicura, ed io
_che non ho il suo coraggio_   mi rifiuto
alla cattiva sorte
non voglio rimboccare le coperte
all’ospite in attesa sulla porta
ma non c’è via di fuga
e mi distraggo
facendo finta che va tutto bene
come nei film americani

La colonna sonora:







A proposito di Mussolini, di Denis Mack Smith



A proposito di Mussolini
di Denis Mack Smith
Laterza Editori
Saggistica storica
Pagg. 55
ISBN 9788842073222
Prezzo € 5,00


Mussolini spogliato del mito


A distanza di più di mezzo secolo dalla sua morte e quindi sopite le passioni credo sia opportuno chiedersi chi sia stato veramente Benito Mussolini, al di là di quel che tutti sappiamo di lui (il capo del fascismo, il dittatore, l’uomo che portò l’Italia alla sventura della seconda guerra mondiale e che poi alimentò quella guerra civile che tanti lutti ha causato al paese). Era il capo di stato che con atteggiamento marziale passava in rivista le truppe? Era il padre di tutti, sorridente e affettuoso, quando si presentava agli italiano? O era forse il lavoratore che dava l’esempio nel corso della battaglia del grano? Era colui che prometteva gloria all’Italia e che invece la condusse alla rovina?
Chi lo conobbe, almeno per essere stato comandato da  lui nel ventennio, sembra in preda a un mito indistruttibile che anzi nel trascorrere del tempo si autoalimenta (ormai sono rimasti in pochi, ma fra i vecchi fascisti aleggia sempre la figura del Duce come fu a suo tempo costruita), e questo nonostante la realtà dei fatti, ma i vecchi si possono scusare, perché in fondo vivono del passato. Mentre quelli che non hanno alcuna giustificazione sono i giovani, quelli che parlano di un Mussolini come non è mai stato, tanto da pensare che lo vagheggino. A questi e a chi vuole sapere di più consiglio di leggere questo piccolo libro di Denis Mack Smith, in cui sono ben delineate le ossessioni, la retorica, i tradimenti e il narcisismo esasperato del duce. 
Ne esce una figura tragicomica, un individuo dalla dubbia sanità di mente, pur con quella capacità che gli deve essere riconosciuta di aver incantato, almeno fino alla seconda guerra mondiale, il popolo italiano. Vi sono raccontati episodi che se non avessero poi condotto allo sfacelo del paese sarebbero anche divertenti, con quest’uomo convinto di sapere tutto e che invece sa poco e niente, che non ascolta - ma nemmeno vuole – i consiglieri, che gioca d’azzardo con la pelle degli altri, che è abituato a raccontare menzogne a cui finisce con il credere anche lui. È un uomo che di anno in anno accentra sempre più potere e la cui mente va di pari passo oscurandosi.
Il partito, che ha forgiato, finisce con l’identificarsi con lui che agli inizi forse aveva qualche capacità politica, che poi però, in assenza di concorrenti, è svanita, tanto che non trova di meglio per liberarsi di due personaggi pericolosi per il sui potere di mandarli in pratica in esilio (Grandi ambasciatore a Londra e Balbo governatore in Libia). Fra tante incapacità, in una vanità smisurata ci sarebbe almeno da attendersi un buon carattere e invece era crudele (non certo come Hitler e Stalin), ma comunque feroce con chi, a suo giudizio, poteva mettergli il bastone fra le ruote, come nel caso di Ida Dalser, sposata solo in chiesa, e del figlio avuto da lei Benito Albino, non solo osteggiati, ma perseguitati e rinchiusi in manicomio affinchè non parlassero.
Il mito dunque é stato un bluff, perché nessuna di quelle caratteristiche positive che gli erano state costruite rispondeva a verità; anzi, Benito Mussolini era quasi una nullità e forse in questa nullità si ritrovava una parte di un popolo che amava sognare. Il giudizio è troppo severo? Beh, vediamo cosa dicono tre personaggi suoi contemporanei che non possiamo certo definire di parte avversa.
La moglie, donna Rachele, l’ha ricordato così:”mio marito pareva un leone, e invece, tutto sommato, era un pover’uomo.”.
Il genero, Galeazzo Ciano, dando un consiglio a Bastianini, destinato alla carica di sottosegretario agli Esteri, lo avverte che in passato “fu possibile parlare a Mussolini ma adesso non vuole più sentire nessuno e vuol aver ragione lui, ma per fortuna le sue opinioni mutano come il vento.”.
Ma il giudizio più preciso ed esauriente è quello di un fascista notoriamente colto, Bottai: “Mussolini è l’unico uomo che Mussolini non abbia mai tradito; é stato indotto in una serie di errori dagli anni, dalle donne, dalla lue, dall’ulcera, dall’invidia e dall’odio.”.
Vi consiglio, anzi raccomando vivamente la lettura di questo piccolo grande libro. 
    

Denis Mack Smith  (Londra, 3 marzo 1920) è lo storico inglese più noto nel nostro Paese e ha scritto libri relativi alla storia italiana dal risorgimento in poi.


Renzo Montagnoli




Il bottone di Puskin, di Serena Vitale



Puskin e il bottone
un giallo storico
nella Russia di ieri


La slavista Serena Vitale analizza come in un film la vita del poeta

Chi ha letto mesi fa «Il defunto odiava i pettegolezzi», inerente il grande Majakovskij, della slavista, glottologa e scrittrice Serena Vitale, non potrà non fare un passo indietro per vedere anche quanto aveva scritto del più grande poeta russo, paragonato al nostro Leopardi. «Il bottone di Puskin» (pp. 487, 13 euro) ha raggiunto la quarta edizione in versione economica, perché Adelphi vuole dare agio a sempre una più larga cerchia di lettori di godere di simili gioielli storico/letterari. L’autrice è di casa in Russia, cultrice della lingua e della letteratura, sua materia di insegnamento all’Università Cattolica di Milano. Siamo di fronte ad un capolavoro con un’idea di partenza nota: indagare sul duello in cui fu ucciso Aleksandr Puskin alla fine di gennaio del 1837, ricostruendolo in tutte le sue fasi. Lo sfidante era Georges d’Anthès, figlio adottivo del barone Jacob VanHeeckeren, ministro dell’ambasciata dei Paesi Russi a Pietroburgo. La causa del duello: l’insistente, provocatorio corteggiamento di d’Anthès a Natal’ja, l’affascinante moglie di Puskin. Senza tacere il fatto che i due contendenti erano diventati da poco tempo cognati, visto che d’Anthès aveva sposato la sorella di Natal’ja.Come per il caso Majakovskij, anche sul caso Puskin si sono moltiplicati leggende, falsi, manipolazioni. E deve essere proprio questa una delle ragioni che induce la Vitale a frugare con occhio da letterata detective dentro matasse difficili da sbrogliare, instancabile segugio filologico, pronta a rovistare negli archivi di mezza Europa, stanando diari, appunti, testimonianze, una vastissima bibliografia.E invece di farne una monografia, confortata da tutto questo materiale, la Vitale, con un colpo d’ala che sa volare alto, crea un montaggio, quasi un film di carta, con suture di racconti a tenerne legati i pezzi.E così ci troviamo sotto gli occhi uno splendido romanzo dove l’autrice ci fa capire tutte le complesse ragioni che hanno spinto Puskin ad affrontare il duello e in sostanza a cercare la morte: l’umiliazione sociale (insultante il titolo di kamerjunker attribuitogli dallo zar, la noia di gendarmi che lo spiavano costantemente), l’esasperazione provocata dallo sfidante; la viscosità della Pietroburgo 1836 nei suoi sempre più difficili confronti.Forse, i racconti di sutura sono la parte meno nobile del libro, col loro sapore di gossip, ma la Vitale ci ha regalato comunque un giallo storico di rara bellezza, con una suspense che non ci fa staccare dalla pagina, avidi di entrare sempre più dentro le pieghe di quel mistero che pian piano ripulisce dalle chiacchiere e dalle dicerie.Carlo Fruttero e Franco Lucentini scrissero sulla Stampa: «Si dice che la ricerca accademica sia in pratica affine all’indagine poliziesca, ma si dà molto raramente il caso di un professore di università che, mettendo nero su bianco le sue puntigliose scoperte, tenga conto non solo dei severi colleghi sparsi per altri centri di dottrina, ma anche di chi professore(in questo caso di slavistica) non è». Quanto al bottone del titolo, si sono fatte varie ipotesi: quello mancante dalla dotazione della marsina del poeta, oppure «non assomiglia forse, quel bottone, all’accento tonico che all’improvviso spicca il volo dal giambo e svanisce nel nulla»?o

Grazia Giordani


La Primavera e La Resistenza in cucina, entrambi di Roberta Pieraccioli



Roberta Pieraccioli
La Primavera (2015)
Euro 12 - Pag. 160
La Resistenza in cucina (2014)
Euro 12 - Pag. 175
Ouverture Edizioni - www.ouverturedizioni.it

Non ci potevano essere due libri più adatti per celebrare il giorno della memoria, entrambi firmati da Roberta Pieraccioli e pubblicati di Ouverture Edizioni. La Primaveraè una raccolta di racconti sul filo della memoria tra Firenze e la Maremma, due luoghi geografici che rivestono grande importanza nella vita dell'autrice. La Resistenza in cucina racconta le ricette in tempo di guerra - buone anche nel periodo di crisi che stiamo vivendo - ma non è soltanto un originale ricettario di cucina povera in cinquanta pietanze, quanto un viaggio a ritroso nella nostra storia, tra mercato nero, autarchia e piccoli trucchi per mettere in tavola il poco che si riusciva a trovare. Due libri che raccontano in modo diverso il secondo conflitto mondiale, tra storie di povera gente e avventure quotidiane, fatti realmente accaduti e analisi del mondo dal punto di vista del popolo che si arrangia, resiste e sopravvive. Lo stile dei racconti è semplice ma letterario, ricorda le storie di guerra di Cassola e Flaiano, permeate di Bianciardi e Vittorini. L'autrice ha fatto buone letture e la sua scrittura ne risente in modo positivo. Le ricette sono insolite, precedute da una sorta di piccolo saggio sul modo di cucinare negli anni Quaranta e sulla necessità di far bastare le poche cose reperibili sul mercato. Frittata d'ortica, torta di pane, polpettine di borragine, bucce di baccelli lessate, fiori d'acacia fritti, farinata di castagne, sformati di piselli e ceci... ma anche frittate senza nulla a base di acqua (latte, nel migliore dei casi) e farina cucinate per merenda da nonne amorose. Roberta Pieraccioli dirige la Biblioteca e i Musei di Massa, ha pubblicato racconti con PaolaZannoner, in questo caso attinge ai ricordi culinari di nonna e madre, mentre dedica le storie alla memoria dei genitori, abili narratori di vicende del passato, alla cui fonte si è abbeverata. Quando si parla di libri utili per la memoria storica del nostro territorio, d'ora in avanti non potremo prescindere da questi due titoli.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi



Vita di Antonio Gramsci, di Giuseppe Fiori



Vita di Antonio Gramsci – Giuseppe Fiori -  Ilisso – Pagg. 368 – ISBN 9788887825596 - € 7,00


Due grandi  pensatori riuniti in un solo volume: Antonio Gramsci  e  Peppino Fiori.
Giuseppe Fiori è un dono della mia splendida terra: è stato giornalista, romanziere (Sonetaula) ma ancor prima biografo (Gramsci, Michele Schirru, Berlinguer, Lussu, i Fratelli Rosselli) e parlamentare. La sua vena biografica si è certamente e prevalentemente imbevuta di Sardegna e ciò gli fa onore perché la sua opera ha restituito ritratti a tutto tondo come solo un conterraneo può fare e non per vicinanza emotiva, ideologica, geografica ma per humus, quello che solo la terra di ciascuno di noi può instillarci.
Questa biografia fu la sua prima, venne pubblicata nel ’66 ed ebbe grande risonanza perché restituiva una lettura del grande pensatore sardo nutrita di fonti di prima mano, di lettere inedite, di testimonianze di amici e di parenti ma soprattutto  perché rompeva vetusti schemi e ideologie “della vecchia ortodossia a quel tempo dominante nel Pci” (Fiori nell’avvertenza contenuta nella  ripubblicazione  per i tipi di Ilisso nel  1995). Osò insomma far emergere contraddizioni, dissidi, lacerazioni di cui mai si era apertamente parlato e che in realtà furono l’essenza dell’originalità del pensiero gramsciano.
Instillata la dovuta curiosità, non avrò l’ardire di addentrarmi ad analizzare il pensiero politico, mi propongo invece di attirare il maggior numero di lettori avvicinandoli ad un eccellente biografia.
Il primo obiettivo di Fiori è sicuramente quello di regalarci un ritratto a tutto tondo e fedele, inizia quindi con lo sfatare la credenza che vedeva Gramsci nascere da umile famiglia, in realtà il padre nato a Gaeta dirigeva l’ufficio del registro, possedeva licenza liceale, finì in carcere ingiustamente  e solo questa sventura gettò la famiglia nella più assoluta povertà . Peppina Marcias, la sua cara mamma, sola, riuscì ad allevare la numerosa famiglia e nel contempo a garantire ai figli l’istruzione. Fin dall’infanzia il fisico minato da una inspiegabile deformità  permise al nostro di affinare la sua forza di volontà. Leggere di una noce sulla schiena, dei consulti medici e della terapia consistente nello stare appeso ad una trave del soffitto lascia uno sconcerto profondo. Tuttavia non si  percepisce una figura mitizzata, basta la realtà dei fatti a investirlo di  un‘ aura speciale. La sua prima infanzia viene contestualizzata con un’efficace quadro della situazione socio- politica dell’isola: le catastrofi bancarie, il collasso agricolo, l’assenza delle industrie, il riversarsi  della forza lavoro nei bacini minerari del Sulcis e la nascita di una larvale lotta  collettiva al sistema, superato l’atavico, mitico, oltreché individualista approccio che nutrì tanto banditismo. Fu il piemontese Cavallera ad alimentare la neonata congrega sindacale che sfociò nel famoso eccidio di Buggerru  (tre morti del sottoproletariato minerario) il quale avviò il primo sciopero nazionale italiano. Nel 1908 Gramsci frequentò  il liceo Dettori a Cagliari, sottoponendosi a numerose privazioni ( mangiò per otto mesi una sola volta al giorno)  ma entrando anche in contatto con il professor Raffa Garzìa, trentatreenne  direttore de “L’Unione Sarda”; sono gli anni in cui si sentirà maggiormente attratto dall’imperante “social sardismo eterodosso” che imponeva la lotta di classe contro i continentali ricchi. Seguirono gli anni dell’università a Torino resi possibili, ma a prezzo di enormi sacrifici non solo economici , grazie alla borsa di studio istituita dal Collegio Carlo Alberto a favore degli studenti poveri delle province dell’ex regno. Dalla Sardegna due candidati ottennero il beneficio: Palmiro Togliatti dal Liceo Azuni di Sassari ( secondo posto in graduatoria)  e Antonio Gramsci (nono posto).
Rigidi inverni torinesi, fame, freddo, problemi di salute, sessioni di esami inevase, i primi scioperi (novantasei  giorni di lotta), il diritto di voto esteso agli analfabeti  che fece di Gramsci un socialista. Le lettere di questo periodo,inedite  al tempo, testimoniano e raccontano la disperazione di un ragazzo studioso e volenteroso lacerato da seri problemi di salute e da estrema abnegazione oltre che  da un intimo senso del dovere. Al quarto anno di Lettere l’orientamento filosofico era  crociano, Fiori mette indubbio le testimonianze che tendono a retrodatare la formazione marxista secondo lo studioso da addebitarsi ad un’età più matura.
13 .04. 1914 : ultimo esame, tra la fine del ’15 e i primi del ‘16 “nasceva il rivoluzionario professionale”.La redazione de”L’Avanti”, la rubrica  “Sotto la Mole”, il credere al metodo maieutico di educazione delle masse,  il rifiuto dell’anticlericalismo, la Rivoluzione  russa, l’ ”Ordine Nuovo”, il primo numero terminati gli anni bui del primo conflitto mondiale. I consigli di fabbrica, le divisione del PSI, i Congressi dell’Internazionale. 
Profumo di storia.
 Lenin che riconosce le tesi gramsciane, la frazione comunista, la nascita dell’omonimo partito avendo cercato prima  di rinnovare al massimo il partito socialista. Gramsci escluso per accuse di interventismo, inaccettabili. Gramsci anticipatore della pericolosità del fascismo. Gramsci e l’amore. Il primo mandato d’arresto, l’illusione di poter sconfiggere il fascismo e dentro quell’illusione  la speranza di un’ Italia migliore, l’esperienza parlamentare e l’immunità, l’esperienza dell’Aventino e il tentativo, fallito, di lanciare il Primo sciopero generale politico.   Gramsci antistanilista. Un cervello lucido anche nei periodi più difficili, un uomo solo, votato al sacrificio estremo, una sentenza a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni, un P.M. capace di sentenziare un tristissimo: “Per vent’anni dobbiamo impedire  a questo cervello di funzionare”.
Un cervello che nell’immobilismo carcerario non si fermò mai e  vergò a mano 2484 pagine in trentadue quaderni: l’eredità per le nuove generazioni.
Una mamma morta alla quale scrive perché nessuno gli può comunicare una notizia così dolorosa, un padre a Ghilarza che ancora lo attende invano mentre giunge, impietosa, la nuova della sua morte e una casa si riempie di cordoglio. Un padre che va via due settimane dopo, trascorso  il suo ultimo doloroso tempo a rileggere le righe di un figlio alla mamma che non sapeva morta:” La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori  alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”.
Opera tradotta in dieci lingue, un successo letterario meritato e durevole nel tempo, uno scritto capace di istruire, sorprendere, commuovere. Fondamentale.

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MondoBlog del 12 maggio 2016

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