mercoledì 15 giugno 2016

Rapporto fra stipendio minimo e massimo, di Ferdinando Camon

Rapporto fra stipendio minimo e massimo
di Ferdinando Camon


Quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 26 maggio 2016

 
È passata inosservata una notizia importante, lanciata dal cuore del Veneto, Padova. Risale a sabato scorso. Ci è stata richiamata alla memoria domenica, quando un’altra notizia, anch’essa importante, è giunta dalla Francia. Rievochiamole e parliamone.
Il direttore generale della Banca Etica di Padova ha informato che il suo stipendio, il più alto nell’azienda, è di 4,6 volte superiore allo stipendio più basso: “Per statuto – ha spiegato -, non può superare di sei volte lo stipendio minimo”. Dunque l’azienda ha stabilito che tra il peggio pagato e il meglio pagato il divario deve stare nel rapporto da 1 a 6. Platone aveva la stessa idea: nel libro La Repubblicapropone il rapporto da 1 a 5. Il giorno dopo dalla Francia quaranta intellettuali denunciavano la pratica delle super-aziende di applicare un rapporto enormemente superiore, e cioè di 1 a 240. E chiedevano al governo di metterci un alt, stabilendo per legge che gli stipendi più alti non possano superare di oltre 100 volte gli stipendi più bassi: il rapporto di 1 a 240 diventerebbe di 1 a 100. Con un taglio di oltre la metà. Quel che è sorprendente, nella notizia francese, è che la lettera con la petizione, partita con 40 firme, in un giorno ne ha raccolte 10mila. E il primo ministro Manuel Valls ha dichiarato: “La penso allo stesso modo, sono convinto che questa sia la strada che dovremo imboccare”. Se quella petizione francese fosse lanciata in Italia, raccoglierebbe anche qui una marea di adesioni, e sarebbe un gran bene. Ma ci lascerebbe comunque un rammarico: il rapporto di 1 a 100 è ancora troppo alto. L’Italia è in crisi, la Francia pure. Bisogna uscirne. Ma, o si esce tutti insieme o non si esce. E per uscire tutti insieme bisogna eliminare le disuguaglianze mostruose, come quella che, dicono i francesi, nelle loro aziende prevedono stipendi annuali da 5.000 euro in basso e da 1 milione e 200mila in alto. Chi sta in basso, non ha da mangiare. Chi sta in alto, compra ville e barche. Che interesse ha, chi sta in basso, a lavorare perché un sistema del genere continui? Se il primo ministro francese dice che prima o poi bisognerà passare al rapporto di 1 a 100, vuol dire due cose: che si può farlo e che è giusto farlo. Non retroattivamente, questo non si può, ma d’ora in avanti. Non è che da noi le cose siano molto diverse. Né per gli stipendi, né per le pensioni. Però, se si deve reimpostare la piramide retributiva, se in basso i francesi hanno adesso salari minimi da 460 euro, col rapporto da 1 a 100 in alto verrebbero ad avere stipendi da 46.000 euro mensili: in tempo di crisi, e per uscire dalla crisi, non è la cifra adatta. Il rapporto fissato dalla Banca Etica, di 1 a 6, ricalcando il modello pensato da Platone, resta comunque inferiore al rapporto stabilito dalla Olivetti, quando la Olivetti nasceva: alla Olivetti il rapporto era di 1 a 10. Ho lanciato la discussione su Facebook, e qualcuno mi ha risposto: però così l’azienda muore, perché i manager migliori se ne vanno. L’esperienza della Olivetti dimostra il contrario: la Olivetti è cresciuta fino a diventare una delle migliori aziende al mondo, arrivando ad inventare una calcolatrice che era l’antesignana del computer. L’aveva chiamata Divisumma. Siamo in crisi, e, come dice il Manzoni, la crisi aguzza il cervello: qualcosa dovremo pensare anche noi italiani. Se la petizione francese girasse anche qui, io la firmerei, ma a malincuore. Preferirei il modello Olivetti, 1 a 10. O, meglio, ancora, il modello della Banca Etica: 1 a 6. Se in un’azienda uno guadagna un sesto dell’altro, sta male, ma è pur sempre un uomo. Se invece guadagna un duecentoquarantesimo, non è più un uomo, ma un subumano. Un’azienda non può andar bene, se una parte dei suoi lavoratori son trattati come subumani.


 Petizione per ridurre il divario tra gli stipendi

 

Al Presidente del Consiglio

Signor Presidente,
Italia e Francia hanno un problema in comune: l’enorme divario tra stipendio minimo e massimo nelle aziende. A Parigi quaranta intellettuali han denunciato la pratica delle super-aziende di mantenere quel divario nel rapporto di 1 a 240, e han chiesto al governo di bloccarlo per legge al limite di 1 a 100. La petizione, partita con 40 firme, in un giorno ne ha raccolte 10mila. E il primo ministro Manuel Valls ha dichiarato: “Sono convinto che questa sia la strada da seguire”. In Italia il divario tra gli stipendi e le pensioni minime e massime arriva al rapporto di 1 a 250. Un divario del genere non è cristiano, non è marxiano e non è umano. Signor Presidente, possiamo sentire da lei le stesse parole pronunciate dal suo collega francese? Che lei riconosce il problema e condivide il pensiero che quel divario va abbassato di molto? Non retroattivamente, perché non si può, ma d’ora in avanti, magari applicando il rapporto di 1 a 10 della nascente Olivetti o di 1 a 6 della attuale Banca Etica?
(150 firme raccolte su Facebook e 52 su “Petizione pubblica”)

Per sottoscriverla andare su:
http://www.petizionepubblica.it/?pi=P2016N48874




Lì dove sei, di Angela Caccia

Lì dove sei
di Angela Caccia
                                          Lampedusa 3.10.2013
E varrà pure un pensiero
saperti lì dove sei

il nome tuo
di una madre
forse un amore
tutto sulla punta
delle tue dita
e nel ventre di un barcone
          ora
          è sul fondale.

Detriti alla battigia
giungerà qualcosa
anche di te

già sul brecciolino
questo pensiero tiepido
senza odore

il fiore deposto ai morti
per il rimorso dei vivi.

Da Il tocco abarico del dubbio (Fara, 2015)

La colonna sonora:



Mese di maggio, di Renzo Montagnoli

Mese di maggio
di Renzo Montagnoli


Nei giorni che il sole
più incede nel suo cammino
e nell’ora che lento s’accommiata
in quella quiete d’aria
che introduce alla sera
chiama la campanella
per le orazioni dedicate alla Madonna.
E allora s’affrettano i fedeli
stringendo il rosario in pugno.
c’è chi da il via e a seguire tutti altri
mentre le dita corrono sui grani
e le labbra sommesse mormorano.
Un volo d’airone taglia il cielo
le rane gracidano nei fossi
la luce si tinge di rosso
poi incupisce
e alla prima stella
che timida s’affaccia
trovano le dita l’ultimo grano.
La preghiera è già finita.

Da Il mio paese

La colonna sonora:




La maestrina di Careste, di Stefano Giannini

La maestrina di Careste
di Stefano Giannini


Oggi sento il bisogno di raccontare della mia iniziazione alla vita, al lavoro e all’amore. Benché siano trascorsi un sacco d’anni, quei giorni ”particolari” escono ancora nitidi dallo scrigno segreto dei miei ricordi  ove si sono conservati pressoché intatti.
Si trattava della mia prima occupazione da dipendente, dopo aver abbandonato il collegio. Il lavoro consisteva nel rimboschimento degli incolti e brulli pendii di parte delle nostre colline, un lavoro duro e faticoso, remunerato con 500 lire il  giorno e una minestra calda,  preparata sul posto da alcune operaie.
Situazioni impensabili per questi tempi di vacche grasse.
Tutte le mattine alle sette e mezzo, noi operai agricoli dovevamo trovarci nel cantiere oltre il monte di Rullato. Chi con la falce tagliava l’erba, altri con la zappa, la vanga ed il badile scavavano delle buche nel terreno, profonde ottanta centimetri circa, a distanza regolare l’una dall’altra. Un altro gruppo poi v’interrava le piantine di sempreverdi. Qualcun’altro apriva dei sentieri per meglio muoverci su quelle ripide scarpate.
I primi giorni, dato che ero il più giovane, appena sedicenne, mi fecero fare il “bocia”, cioè portare l’acqua da bere in giro a tutti gli operai sparsi sul cantiere.
Vi erano anche quattro o cinque donne. Esse avevano il compito di procurare la legna per il fuoco e cuocere da mangiare : spaghetti, maccheroni, fagioli e fare il sugo per tutti.
Ricordo che il caporale era un uomo alto con baffi spioventi, il capo cantiere era una Guardia Forestale, perché tutti quei lavori dipendevano direttamente dal Ministero dell’Agricoltura e Foreste, facevano parte del primo “Piano Fanfani” per la montagna.
Fu per me una grande esperienza, molto importante, che contribuì molto alla formazione del mio carattere e alla conoscenza degli altri. In qui giorni provai delle grandi emozioni e nuove sensazioni.
Considerati oggi, dopo le vicissitudini di una vita travagliata e ormai vissuta, quelli non furono solo giorni pieni di sacrifici e tanta fatica, avevano anche un loro “sapore” di vita. Senza capire il perché, ero felice e contento del mio lavoro. Era importante poter guadagnare quei pochi soldi. Addirittura ero orgoglioso di farlo. Mi sentivo un uomo come tutti gli altri. Ero conscio di fare qualcosa d’utile e importante per la mia famiglia e per la nazione.

Lavoravamo cantando serenate e stornelli con doppi sensi rivolti alle donne, le quali, ci rispondevano con altri altrettanto piccanti.
Dopo il terzo giorno, il capo squadra mi mandò a pulire il sentiero che, attraversando il cantiere, dopo cento tornanti, portava in cima al monte dove l’anno prima gli operai avevano costruito una graziosa celletta in onore della Madonna.
A fine di settimana, il sabato mattino, ritornavamo a casa distante quattro ore di cammino. Ricordo che per strada cantavamo a squarciagola la canzone in voga, molto nota perché aveva vinto il Festival di San Remo di quell’anno :”Vola Colomba”. Mi piaceva tanto la strofa che fa : noi lasciavamo il cantiere lieti del nostro lavoro, e il campanon dindon ci faceva il coro...ecc.

A metà della settimana seguente, finimmo il pane. I miei paesani chiesero al capo squadra il permesso di lasciarmi tornare al nostro borgo per prendere un po’ di pagnotte e degli abiti per cambiarci.
Il mattino seguente, con il mio zaino in spalla, m’incamminai cantando, solo, soletto, per la mulattiera che conduceva verso casa .
Dalle parti di Careste vi fu l’incontro, forse, più bello della mia vita. Stavo uscendo dal sentiero che attraversava un boschetto, quando improvvisamente la vidi apparire in lontananza, veniva verso me a passo lesto. In un primo momento pensai fosse un angelo. Era giovane, mora, con il capelli sciolti che le scivolavano sulle spalle. La figura snella, indossava una camicetta bianca fiorita ed una gonna lunga, rossa. Calzava stivali di gomma. Il terreno era fangoso, avendo piovuto il giorno prima .
Poichè allora ero timido come un passero, il cuore iniziò ad accelerare i battiti, prima ancora d’incontrarla. Due minuti dopo eravamo a faccia, faccia. Non sapevo dove guardare e cosa dirle. Lei, a testa bassa, con un fil di voce disse :”Buon giorno”. Con voce tremante, risposi :”Buon giorno signorina…”.
Avrà avuto, all’incirca, diciotto/diciannove anni. Ci eravamo appena incrociati, e stava per allontanarsi; col cuore in tumulto, facendo una forzatura alla mia timidezza, pensai : ”Coraggioadesso o mai più ”. Pronto, inventai una bugia :”Scusi signorina, nonsonopratico…, vado bene per Sorbano ?”. Lei si rigirò e rispose :”Si..., avanti ancora un po’...è dietro quel colle”. Con più coraggio le chiesi dove andava, rispose che, si recavaaCareste a parlare con il Parroco, Don Antonio Tonetti, per accordarsi sulla scuola. Chiesi :” Perché, che lavoro fa ?” Con una voce dolce, soave, armoniosa, ed un lieve sorriso sulle labbra, mi disse d’essere la nuova maestra, veniva da Bagno di Romagna, le era stata assegnata la scuola elementare di Careste.
Notai che anche lei era timida ed emozionata. Per un attimo ci guardammo negli occhi...Affascinato, mi sembrava di sognare... Ero al settimo cielo !  Avrei voluto dirle tante cose... Un groviglio di pensieri si affastellavano tutti insieme nella mente, ma le labbra restavano saldamente serrate.
Cumuli di fantasticherie mi riempivano la testa in un guazzabuglio indescrivibile. Furono momenti, sconvolgenti, così carichi di emozione e di tensione, certamente unici e irripetibili.
Mi trovavo nel periodo forse più critico della vita, l’adolescenza, con l’improvvisa scoperta dell’altro sesso così desiderabile ma complesso.
Le ragazze erano viste come esseri sublimi ed irraggiungibili. Nei loro confronti, c’erano desideri inespressi ma tutti repressi. Sentivo una fortissima attrazione verso di loro e contemporaneamente l’incapacità di avvicinarle, di iniziare l’approccio. L’emozione e la timidezza bloccavano ogni tentativo sul nascere. In tal modo, accumulando insuccesso ad insuccesso, si formava nel mio io una massa di energia forzatamente imbrigliata e compressa, difficilmente contenibile a lungo.
Quel giorno, per la prima volta, come una bomba, stava per scoppiare, come la rottura di una diga, l’acqua stava tumultuosamente straripando.
L’incontro ed il breve dialogo durarono solo pochi minuti, ma furono così intensi,che per molti mesi ripensai alla scena e mi rammaricai tanto per le cose che avrei potuto dirle. Non le chiesi neppure il nome e tantomeno l’appuntamento per un altro incontro. Quanti accidenti mi sono mandato in seguito per quelle domande rimaste mute !
In compenso, riuscii a vederle bene il viso... : era di un’ovale perfetto, luminoso, guance rosa, occhi grigi e profondi, molto espressivi.  L’insieme un incanto ! Restai letteralmente abbagliato !
Al collo, legato sopra la camicetta, portava un foulard rosso che le donava tanto.

Ricordo le sue ultime parole :”Ora devo andare, si fa tardi... il Parroco mi aspetta,...arrivederci !” Balbettai un :”arrivederci... io vado a Sorbano, ritorno questa sera... forse ci rincontreremo...” Rispose : ”forse !” E subito si allontanò.  Restai attonito e confuso.
Ancora stordito la segui con gli occhi finché scomparve in mezzo al boschetto.
Mi sembra di vedere ancora quella sottana rossa che accarezza frusciando i cespugli di ginestre in fiore formando un cromatico gioco d’intensi colori.
Non la rividi mai più!  Ripercorsi la stessa strada, andando e tornando da Rullato, per almeno altre quattro o cinque volte, sperando sempre di incontrarla, ma invano.
Quell’unico, fortuito incontro, fu come una meteora che, veloce, solcò il cielo della mia anima limpida e innocente, lasciandovi impressa una traccia indelebile


La perfezione della seconda curva, di massimolegnani

La perfezione della seconda curva
di massimolegnani



Aria e ora perfette. Immaginati a metà mattina in un maggio d'Austria, un’aria trasparente che non vedi nemmeno in controluce ma senti mulinare nei polmoni ogni respiro, e un’ora che ti aspetta lì, al punto esatto, precisa come un appuntamento che non avevi dato.
Dai boschi di Seefeld a scendere fin al fondovalle, laggiù sull’Inn, il percorso è un serpente nero che si aggomitola e si snoda in un invito senza mela e senza inganno. La bicicletta da grandi viaggi, un mastodonte carico di ogni necessità, è meno agile di un TIR, dipende solo da te sentirti senza peso, un’oca prima che sia piumino, quando ancora sa essere leggera all’aria e muove la mole in un lieve, poderoso, volo. E allora ondeggi per le curve, le pennelli, ne prendi ritmo e slancio, come una musica dove una nota s’aggancia alla precedente e fa da traino a quella che verrà. E non a caso in testa hai Mozart che ti accompagna e guida.
È un piacere ancora bambino rotolare a valle come una biglia nel circuito sulla spiaggia, è un godere adulto accarezzare le curve e scendere lungo i fianchi stretti della valle come le dita attente sulla pelle di una donna. Non sei solo, i tuoi amici hanno la tua stessa faccia e anch'essi piedi fermi sui pedali, che c’è l’intesa di non usare il motore delle gambe, siamo barche affidate al vento, siamo le vele si gonfiano, siamo i marinai che le governano.
Con loro scivoli veloce sull’asfalto, che ti sembra neve, poi acqua, aria, in un accavallarsi di sensazioni esatte e brevi. E mentre gusti il tuo piccolo mondo e il modo, Fabio e Mauri ti scorrono in avanti sfruttando meglio la pendenza come un vento con cui tendere le vele. Inesorabili li vedi allontanarsi, senti la risata che rimbomba nella valle, sembra una battaglia persa. Eppure sei tranquillo perché oggi ti senti la perfezione addosso e sai che occorre solo aspettare il momento e il luogo giusti, che tu sei pronto.
E quando la discesa si fa più ripida ti chini sul manubrio, la faccia a prendere gli schizzi dalla ruota, il cuore a dare la cadenza dell’inseguimento. Recuperi terreno tagliando le curve come fette di coraggio e dimenticando i freni, ma loro sono ancora distanti. Riesci a lanciare un’occhiata in basso e vedi il punto dove attaccherai, quella curva verso destra che gira con un gomito irregolare, prima ampio, invitante, poi più stretto, insidioso e che termina in contropendenza come un trampolino a volare sulla valle. Devi essere alle loro spalle prima di quella curva, il resto lo farà la perfezione. Molleggiandoti con i piedi sui pedali rendi più fluida la discesa e con piccoli spostamenti del bacino trasformi le curve in un lungo rettilineo, che è facile da dire, ma basterebbe un movimento troppo brusco perché la bici imbizzarrisca.
Ormai sei a pochi metri dalle loro schiene, Fabio si è voltato, non puoi più contare sulla sorpresa. Trenta metri alla curva, hai pochi istanti per studiare traiettoria e strategia. L’istinto sarebbe di ritardare la frenata e affiancare gli altri all’imboccatura, ma poi arriveresti rallentato all’uscita mentre è importante essere veloci in quel punto per superare di slancio la breve salita. Allora decidi di anticipare i tempi, ti alzi, freni fino a trovare la velocità giusta da mantenere per tutta la curva. I tuoi compagni sembrano di nuovo sfuggirti in avanti. Ma tu ora lasci correre le ruote, ti pieghi e disegni la traiettoria curvilinea come avessi il compasso, il peso delle sacche ti aiuta a mantenere l’aderenza a terra. Ora sei più veloce di Fabio, vedi lo spazio stretto tra lui e la corda della curva, il minimo errore e volereste di sotto entrambi dove tuona il torrente, ma tu t’infili di precisione, diventi ineluttabile come un destino mentre gli sfili lentamente accanto attento che la ruota davanti ti ubbidisca al millimetro. Tra poco la curva chiude restringendo il raggio e invertendo la pendenza, non frenare, tranquillo, è tutto calcolato, l’insaccata da ammortizzare di gomiti e ginocchia e la forza centrifuga da contenere, la forza che di forza ti proietterà verso l’esterno dove un muretto di pietre argina  il poggio a prato. Per un istante ti ricordi della curva dei garages mezzo secolo prima, quando cercando la perfezione di bambino trovasti il muro di cemento a spegnere coscienza e speranza di esattezza. Ma oggi è diverso, oggi ogni gesto è giusto, pennelli la curva come una carezza calda al culo di una donna, le dita a sfioro che non calcano e non tremano. Così non contrasti la tangente con i freni, lasci scivolare la bici verso l’esterno come fosse un’altra resa al muro, la lasci correre fino sull’erba del bordo in un difficile equilibrio ma la riprendi con un guizzo all’ultimo e di magia trasformi in slancio il pericolo scampato poggiando la ruota proprio lì, alla base del muretto che ti faccia da rimbalzo. Mauro lo superi d’inerzia sul dosso come una boccia che rotola puntuale fino al pallino.
È fatta e già finita, che la gloria è un breve istante. Ma per costruire una memoria futura ti volti a rivedere la perfezione tua che precisa l’avevi in mente ed esatta l’hai disegnata sull’asfalto.
E intanto in testa Mozart col clarinetto s’inventa un tango prima che sia il suo tempo.


La casa di Barbara La camera degli sposi, di Edgarda Ferri



La casa di Barbara
La camera degli sposi
di Edgarda Ferri
Tre Lune Edizioni
Narrativa romanzo breve
Pagg. 72
ISBN 9788889832899
Prezzo € 9,90

La signora con due bande bianche sui capelli

Mi corre l’obbligo di una opportuna premessa: se avete visto, nel corso di una gita a Mantova, la famosa Camera degli sposi o Camera picta, che si trova nel Castello di San Giorgio, imponente fortezza adiacente il celebre Palazzo Ducale, oltre a rimanere stupiti per la straordinaria bellezza dell’affresco di Andrea Mantegna, forse vi sarete chiesti chi sono i personaggi ritratti e che occasione, del tutto particolare, il grande pittore aveva voluto celebrare
A queste domande risponde Edgarda Ferri con La casa di Barbara, uno strano romanzo storico che ha più della storia narrata che della prosa, per quanto, considerando alcuni aspetti, fra i quali la fluidità del racconto, la capacità di sondare interiormente i personaggi e un pizzico, ma è solo un pizzico, di creatività, tutto sommato si è indotti giustamente a pensare che non è un vero e proprio saggio.
Visto che il titolo è La casa di Barbara, la Ferri ha voluto ripercorrere, almeno fin dal momento del suo arrivo a Mantova, la vita di Barbara di Brandeburgo, nipote dell’imperatore Sigismondo, promessa in sposa quando aveva solo dieci anni, al diciannovenne Ludovico, figlio ed erede del Marchese Gianfrancesco Gonzaga. Il matrimonio fu celebrato un po’ più tardi, ma lei era ancora poco più di una bambina. Fu un matrimonio combinato come si usava fra nobili, con tanto di prezzo della sposa, che costò ai Gonzaga ben 25.000 fiorini. Eppure l’unione fra questa fanciulla non bella e che all’inizio non sapeva una parola d’italiano, e Ludovico, che pure non era certo un adone, fu uno di quelli rari in cui la coppia combinata da altri visse d’amore e d’accordo. Barbara era una donna intelligente, colta (parlava quattro lingue), tenera, ma anche decisa; lui, spesso assente per le guerre, finì con il trovare in lei quel porto sicuro a cui ritornare. Di figli non ne nacquero pochi, ma purtroppo tutti con il segno della tara ereditata dalla madre di Lodovico, Paola Malatesta. Infatti, sia i maschi che le femmine, chi più chi meno, portavano sulla schiena quella gibbosità che è più conosciuta con il nome di gobba. Se era meno difficile trovare una moglie per i figli maschi, era quasi impossibile che qualche nobile accettasse di sposare una femmina con quella protuberanza, come accadde con Dorotea, promessa a Gian Galeazzo Visconti, che però poi rifiutò decisamente di unirsi a una deforme. Dorotea per il dolore morirà giovane, gettando un’ombra di perenne mestizia sui genitori. Barbara è un personaggio straordinario, una donna che sa governare, ma che conosce la pietà e rifulge fra tutte quelle figure che sembrano messe lì apposta affinchè i visitatori le ammirino, desiderando di sapere i loro nomi e le loro vite. Le mani prodigiose e la mente fuor del comune di un pur tignoso Andrea Mantegna li hanno consegnati ai posteri, dando loro una presenza anche dopo la morte.
La capacità di narrare dell’autore ci porta a conoscerli, ad ammirarli o a coprirli di disistima, ma in ogni caso a renderci partecipi di vite che hanno brillato tanti secoli fa. Senza per forza cercare di indulgere alla commozione, la Ferri ha saputo toccare le corde giuste e, pur rigorosamente attenta ai fatti storici, è riuscita a suo modo a realizzare anche lei un dipinto, con mano ferma, ma lieve, senza ricorrere alla retorica e arrivando anche a vette sublimi.
Leggetelo, perché è imperdibile, e poi magari venite a Mantova, andate a vedere la Camera degli sposi e vi sembrerà di trovarvi di fronte ai ritratti di vecchi amici.

Edgarda Ferri, giornalista, saggista e scrittrice.
Le sue biografie di Maria Teresa d’Austria, Piero della Francesca e Giovanna la Pazza e La gran contessa (Matilde di Canossa) sono ripetutamente ristampate negli Oscar Mondadori. Per Skira ha pubblicato Il cuoco e i suoi re (2013), sulla figura di AntoninCarême.

Renzo Montagnoli


Gli occhiali d’oro, di Giorgio Bassani



Gli occhiali d’oro – Giorgio Bassani -  Feltrinelli – Pagg. 96 – ISBN9788807880124 - € 7,50

 “Il romanzo di Ferrara” : secondo libro

Ci si addentra con questo racconto lungo, quasi romanzo , nel corpus di quello che lo stesso Bassani definì “una specie di poema romanzesco di quasi mille pagine”; sono evidenti infatti i riferimenti  intertestuali  in particolare ai personaggi già menzionati nelle “Cinque storie ferraresi” e colpisce il lento incedere, quasi una  sorta di passerella letteraria verso il famigerato giardino degli schivi Finzi – Contini.
Si  ha il tempo con questo intermezzo di familiarizzare ancor di più con le atmosfere ferraresi, non solo gli scorci paesaggistici o la prepotenza della Storia; ci è consentito infatti  entrare dentro le famiglie borghesi di estrazione ebraica, in particolare dentro quella del narratore che è spontaneo identificare col giovane Bassani.   Si tratta di uno studente  universitario, unico del suo gruppo di amici a studiare Lettere,  i primi anni della vita trascorsi in quel “clima di agitazione, di distrazione generale entro cui si svolse la prima infanzia di tutti coloro che sarebbero diventati uomini nel ventennio successivo...” Racconta il giovane la sua Ferrara, l’ovattato clima provinciale, il perbenismo, la devozione al regime fascista e il suo lento incrinarsi. È un società classista quella nella quale vive, il pubblico e il privato tendono a collimare rovinosamente nelle bocche mai sazie di pettegolezzo e negli animi che facilmente vengono attratti quanto preme in loro la necessità di essere rassicurati. È pertanto ben accetto anche il nuovo otorinolaringoiatra: i suoi modi sono cortesi e discreti, evidente è il disinteresse che accompagna l’esercizio della sua professione   nel pubblico e ancor più nel privato.  Non c’è però una signora Fadigati e presto strane, stranissime voci circolano sul medico. La rappresentazione della sfera privata di questa esistenza è delicata, il lettore percepisce l’inclinazione sessuale dell’otorino che il narratore rende esplicita progressivamente calandoci nella narrazione. Il dottore frequenta la compagnia universitaria e condivide gli spostamenti in treno per Bologna, alcuni giorni della settimana. Gran parte dell’azione successiva si svolge tra Bologna e la riviera romagnola. Ferrara fa da sfondo al ricordo con eleganti e suggestive pagine che trasfondono l’immenso amore di Bassani per la città soprattutto quando termina l’idillio vacanziero e le tremende  legge razziali si concretizzano agli occhi dell’operosa borghesia cittadina di estrazione ebraica, mentre si chiude anche la vicenda umana di un’altra diversità. Ferrara sarà allora il porto sicuro: “Mi era bastato recuperare l’antico volto materno della mia città, riaverlo ancora una volta per me, perché quell’atroce senso di esclusione che mi aveva tormentato nei giorni scorsi cadesse all’istante. Il futuro di persecuzioni e di massacri che forse ci attendeva (fin da bambino ne avevo sentito parlare come di un’eventualità per noi sempre possibile), non mi faceva più paura.”
Storia della metamorfosi subitanea ma presagita  in una “razza inferiore”.
Tra l’ottobre del  1943 e il febbraio del  1945, più di 7.000 ebrei italiani furono deportati nei campi di  sterminio nazisti , 5.969 furono uccisi, 837 sopravvissero, un migliaio i dispersi.

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