giovedì 14 luglio 2016

Crociera fluviale da Mantova a Venezia, di Renzo Montagnoli  

                                                   L'imbarco


Crociera fluviale da Mantova a Venezia
di Renzo Montagnoli
 
Come molti sanno, il fiume Mincio, emissario del lago di Garda, dopo un percorso caratterizzato da rapide e da piccoli salti d’acqua fra le colline moreniche, dopo l’abitato di Goito rallenta sua corsa, fino a scorrere pacato e nei pressi della città di Mantova si allarga in quello che può essere considerato un alveo troppo grande per la sua effettiva forza, formando così tre laghetti, quello superiore, quello di mezzo e quello inferiore. Su questi specchi d’acqua funziona un servizio privato di navigazione che porta i turisti a conoscere le attrattive di una zona umida, quasi paludosa, in cui prosperano numerose ninfee e una moltitudine di uccelli di varie specie.
Per quanto possa sembrare strano, io che abito a 5 km. dalla città e che da giovane e in un non ancora lontano passato solcavo queste acque prima con una barca e poi con una canoa, fino all’11 giugno non ero mai salito su una di queste motonavi che, soprattutto nel fine settimana, vanno su e giù da una sponda all’altra. L’occasione per rimediare è stata una gita organizzata al mio paese, con meta Venezia, e così l’11 giugno sono stato uno dei settanta crocieristi che si è imbarcato al molo del lago inferiore. Quella che segue, senza avere le pretese di essere un racconto di viaggio, è la cronaca di questa mia esperienza. 
Prenotato il posto un mese prima, ero un po’ titubante perche il tempo atmosferico dei giorni precedenti e quello previsto per quello del viaggio sembravano lasciare ben poche speranze: temporali, anche forti, acqua a catinelle, addirittura con grandine. Ma già all’ora fissata per l’imbarco (8,30) se il cielo non era sereno, però non era minaccioso e non c’era pioggia. In attesa di salire, tutti guardavano in su, chi timoroso, chi invece speranzoso e dato che mi ritengo pragmatico mi sono detto che tanta valeva accettare quello che sarebbe stato e che comunque, almeno in partenza, non era poi male.
La motonave, della compagnia Motonavi Andes, era un catamarano, con due ponti, di cui quello superiore scoperto, e con una capienza di 90 posti. Se non vado errato i partecipanti erano appunto settanta e quindi non c’era da star stretti come le sardine. Tolti gli ormeggi, il natante lentamente ha lasciato la riva, puntando verso il largo e quasi scivolando si è diretto alla sponda opposta, dove c’è la raffineria di petrolio da tempo inattiva. Qui apro una parentesi, pescando nei ricordi perché rammento le piccole petroliere, chiamate bettoline, che giornalmente, partendo da Marghera, risalivano il Po e poi il Mincio, trasportando il greggio. Poi, probabilmente perché il Po, in estate, ha delle magre paurose, tali da rendere difficile o impossibile la navigazione, queste piccole navi furono sostituite da uin oleodotto che adesso probabilmente finirà in ruggine. Da lì il passaggio della motonave sotto il ponte della Diga è avvenuto abbastanza in breve, considerando che il varco è veramente stretto e occorre calcolare la manovra al centimetro. 
                                         Il basso Mincio
Una volta sorpassata questa specie di forca caudina siamo entrati nel paesaggio incantato del basso Mincio, in quella località umida, ai bordi paludosa, che viene chiamata Vallazza. A parte i tappeti di ninfee, lì si trovano numerose colonie di cigni, abbondano gli aironi cinerini, le candide garzette, i cormorani, i gabbiani di fiume. C’è una moltitudine di volatili che, se si sta sul ponte superiore, non solo è possibile vedere, ma a volte qualcuno più ardito sfiora la nave stessa. Il corso del fiume è dolcemente sinuoso, con le rive fitte di vegetazione, che comprende anche un buon numero di salici. Oltre gli argini si scorgono campanili e nei tratti in cui sono più bassi, vale a dire già in golena, ogni tanto ci sono ville con il prato all’inglese che scende al fiume. A parte il rumore del diesel della motonave si ode solo il respiro della natura, fatto da lontani richiami e da ronzii di insetti. Dopo un po’ che si naviga si ha quasi l’impressione di trovarsi lontani dalla civiltà, magari in qualche affluente del Rio delle Amazzoni, tanto è la natura che regna e non a caso l’intera zona è protetta ed è parte del Parco del Mincio.
L’unico segno di una civiltà industriale è dato da un paio di idrovore del Consorzio di Bonifica che nei periodi siccitosi aspirano l’acqua per irrigare i campi e in quelli piovosi invece riversano nel fiume quella che è in eccesso sul suolo. Sono costruzioni d’epoca e ben si integrano con l’ambiente, tanto che si finisce con l’apprezzare la loro presenza. 
Lungo tutto il percorso la voce dell’accompagnatore ha illustrato ciò che c’era da vedere e quindi si è stati ben informati. 
                                             La chiusa
Dopo quasi un’ora di navigazione siamo arrivati a un semaforo rosso che è posto davanti alla porta vinciana a monte della chiusa di Governolo. Il Po è generalmente più basso del Mincio e la differenza di quota in estate può arrivare a 5 metri; l’11 giugno il dislivello era di m. 1,40; venuto il verde, aperta questa porta gigantesca e subito rinchiusa dopo il passaggio, ci siamo trovati in un bacino in cui l’acqua lentamente cominciava a scendere. Raggiunto il livello del Po è stata aperta la porta vinciana a valle e abbiamo ripreso la navigazione, portandoci nell’asse mediano del grande fiume. L’imponenza del corso d’acqua, le rive meno fitte di vegetazione mi hanno portato a concludere che il Mincio è molto più bello, per quanto le numerose isole e isolette del Po costituiscano una loro attrattiva, insieme ai paesi di cui si sorgono oltre l’altro argine solo i campanili delle chiese. 
                                            Il Po

                                              Il Po
Si tratta di Revere, Ostiglia, Sermide, Castelmassa, Occhiobello, tutte località rivierasche, ognuna delle quali ha un approdo attrezzato. Sempre navigando, a mezzogiorno è stato  servito il pranzo a base di pesce e questa è l’unica nota dolente di un viaggio peraltro bellissimo. In genere a Mantova si mangia bene, sulla Virgilio l’11 giugno si è mangiato male e non perché i piatti non fossero quelli indicati nel programma, ma perché tutto era cucinato in modo pessimo, con l’unica nota positiva dell’ottimo Custoza DOC e del caffè; per il resto meglio non dire altro. All’incirca  alle 14 siano arrivati all’approdi di Santa Maria Maddalena e lì siamo sbarcati, perché ci attendevano  due autobus per portare il gruppo dei gitanti a Sottomarina di Chioggia, dove siamo arrivati dopo circa un’ora dopo aver anche sbagliato strada. E’ stata l’occasione, visto il panorama tipicamente agreste, per un riposino. Arrivati alla località balneare ci siamo imbarcati su un’altra motonave sotto una spruzzatina di pioggia, l’unica che avremmo avuto per l’intero viaggio.  Lì abbiamo trovato un’altra guida che ci ha illustrato ciò che si vedeva lungo l’itinerario in laguna. Dapprima abbiamo incontrato la lunga isola di Pellestrina, una stretta striscia sabbiosa, intensamente abitata, però, e protetta dall’erosione del mare aperto dai murazzi, un’imponente barriera granitica edificata nella seconda metà del XVIII secolo dalla Repubblica di Venezia.  A seguire abbiamo visto altre isole, cioè la piccola Alberoni e Poveglia, pure lei minuscola. Le tranquille acque della laguna, nonostante un venticello non proprio tenue, davano l’impressione di scivolare su uno specchio, ma gli occhi ovviamente erano rivolti a destra, a quel succedersi di isole, di case colorate, di campanili di chiese marittime. 
                              Venezia - Verso l'attracco alla Riva
                              degli Schiavoni

Dopo una quarantina di minuti abbiamo cominciato a scorgere Venezia, a cui siamo arrivati dalla parte d’accesso probabilmente più bella, cioè quella che consente di avere un colpo d’occhio su piazza San Marco e sul Palazzo Ducale. Da lì a poco ci siamo messi in fila, come in un parcheggio pieno in cui si attende che qualcuno lasci libero un posto, per attraccare alla Riva degli Schiavoni, che non erano degli schiavi grossi, ma così erano chiamati ai bei tempi della Serenissima i mercanti che provenivano dalla Dalmazia e che i veneziani chiamavano anche Slavonia o Schiavonia. Lì approdavano con le navi mercantili e avevano anche il posto fisso per esporre la loro merce. Dopo una decina di minuti di attesa abbiamo attraccato, siamo scesi e lì ci attendeva un’altra guida turistica, una bella e simpatica signora dai capelli biondi. Dato il limitato tempo a disposizione (all’incirca due ore) si è limitata ad accompagnarci in Piazza San Marco per mostrarci esternamente i suoi monumenti: il Palazzo Ducale, la Basilica, il campanile, la torre dei tre orologi, con i due mori che battono le ore, il Caffè Florian, forse il più antico al mondo (e anche uno dei più cari!). 
                             Piazza San Marco con sullo sfondo
                             un transatlantico

                             Venezia - Gondole
Inoltre, desiderosi di mangiare un buon gelato, anche per saziare lo stomaco gravato dal pessimo pranzo, e senza spendere un capitale, ci ha condotto, attraverso ponti e stradine, a una gelateria di cui siamo risultati tutti soddisfatti. 

Laguna al tramonto

Indi, alle 19, abbiamo lasciato Venezia a bordo di una motonave diretta a Fusina, dove ci attendevano gli autobus per il ritorno. Lì, siamo ripartiti alla volta di Mantova via autostrada, non senza aver sbagliato percorso nella zona industriale di Marghera (una vicenda anche ridicola, perché siamo andati dentro a uno stabilimento). Stanchi, ma soddisfatti siamo arrivati a Mantova alle 22,45.
 
 
Fonti: Motonavi Andes Negrini
 

Nota Bene: Le fotografie a corredo dell’articolo sono state scattare dall’autore

Desiderio d'immortalità, di Nino Silenzi  

Desiderio d'immortalità
di Nino Silenzi
 

Se il Fato mi desse la possibilità
di tornare indietro
per rivivere la mia vita,
non accetterei.
Sceglierei caso mai
di trascorrere un'altra vita
cosparsa di illusioni e sogni
per chissà quanto tempo,
(vorrei essere un castagno,
almeno vivrei duemila anni),
piuttosto che ripercorrere una strada
già battuta, disseminata
di sassi e irti spini.
Meglio il sogno
che la dura realtà.
Si dice che vivi la vita
che ti costruisci,
percorri il sentiero
che tu scegli
per giungere alla fine
nel mondo dell'eterna felicità.
Quante false promesse ci propina
il desiderio d'immortalità!
È il Caso che ti impone la via.
Puoi solo sperare
che sia la meno pericolosa e dolorosa.
È come trovarsi al buio,
brancolare in cerca di un appoggio,
vedere di rado una fievole luce,
una stella che presto scompare
dietro una nera nuvola invisibile.
Così è l'uomo in balia dell'Ignoto,
manovrato dalla mutevole Sorte,
un granello di misera polvere
nel fitto pulviscolo dell'infinito Universo.


La colonna sonora:








Eravamo più giovani, di Renzo Montagnoli

Eravamo più giovani
di Renzo Montagnoli
Come ci pare ora un tempo migliore
di quando, fra casa, scuola e chiesa,
le ore passavano veloci
ma già speravamo
che l’indomani arrivasse in fretta.
Tutto ci sembrava possibile
tutto avremmo cambiato
e il mondo sarebbe diventato diverso,
sarebbe stato finalmente migliore.
Questo è il ricordo di un tempo felice
di corse a perdifiato
di sogni su sogni che affollavano la mente.
Eravamo più giovani
e forse ci illudevamo di essere felici.
Sorridiamo, un ironico sorriso,
ora che gli anni pesano,
ora che si spera che il tempo rallenti.
Viviamo così di ricordi
di epoche che credevamo felici
e nel disincanto
di tanti sogni irrealizzati
pur tuttavia a quell’età ci affidiamo.
Possibile che noi siamo cambiati?
No, ancora una volta creiamo
l’illusione che sia solo il mondo
a essere cambiato.
Da Lungo il cammino 


La colonna sonora:







Firenze senza fretta, di massimolegnani

Firenze senza fretta
di massimolegnani
Forse perché già avvezzo alla città o forse per un’inclinazione naturale, ma in questi giorni da turista tendo a trascurare le opere sfarzose a vantaggio dei dettagli,  una grata antica a una finestra, gli anelli in vecchio ferro sulle pareti dei palazzi, le pietre consumate sotto ai piedi, come fossero questi il cuore segreto di Firenze . Così mi soffermo alla facciata nuda di San Lorenzo, ammiro la potenza della semplicità e immagino i rosoni, le statue, i fregi che non misero, mentre tiro dritto ai marmi presuntuosi che decorano il Duomo.
A S.Maria Novella passo veloce tra le navate cariche di magnificenza e mi dilungo per i chiostri lastricati a tombe di gente sconosciuta. Immagino la storia dei morti al di là delle vaghe allusioni delle epigrafi: questo signore definito ingenuo sulla pietra forse è stato scaltro a impalmare una sorella appresso all’altra. E mi chiedo che cosa avrà combinato in vita quest’altro a cui i parenti hanno negato il nome intero e il giorno della nascita, sulla lapide compare solo la data della morte, come una maledizione.
In una chiesetta romanica a cui le guide riconoscono un unico pregio, “è di fronte a OrsanMichele”, ascolto le note solitarie di una spinetta ad ala, brani di Bach suonati deliziosamente per i pochissimi presenti; penso a certi blog lontani dalle rotte consuete di navigazione, dove piccoli capolavori sono trascurati dai lettori.
Al Forte Belvedere è un catenaccio infisso al legno ad assorbire la mia attenzione, passo minuti a contemplare la bellezza della ruggine che sa di secoli sommatisi nel tempo e mi stordisco a pensare al numero infinito di volte che mani dopo mani hanno fatto scorrere il chiavistello nei ferri ricurvi a chiudere e riaprire quel portone. Alle opere moderne sparse nei giardini, scarabei di rame, vasche da bagno, dedico pochi sguardi d’obbligo privi di stupore, non amo la prosopopea degli artisti di grido che vogliono stupirti a tutti i costi.
Questa la mia Firenze minima, non meno amata. Solo di notte, passeggiando per vie casuali, m’imbatto in monumenti che il buio intorno rende superbamente umili. E ritrovo meraviglia per i marmi rischiarati dalla luna, Giotto che svetta, il Duomo che sembra quasi una camelia bianca.


Le pecore di Giuseppe, di Stefano Giannini

Le pecore di Giuseppe
di Stefano Giannini
 
 
Era lunedì 23 settembre 1944, la guerra, da mesi, manteneva il fronte su queste nostre contrade. Postazioni tedesche in trincee con nidi di mitragliatrici e batterie di mortai erano sparse un po’ ovunque pronte ad accogliere l’arrivo del nemico.
Quel micidiale mostro di guerra dell’esercito tedesco sferrava gli ultimi colpi di coda prima di abbandonare l’Italia, anche da questa parte della “Linea Gotica”, grosso baluardo di resistenza all’avanzare dal sud delle forze alleate che lentamente, ma inesorabili, occupavano sempre più terreno. Gli scontri e le conseguenti battaglie si susseguivano intense e cruente. Le rappresaglie, gli eccidi di persone civili inermi o d’intere comunità, come a Tavolacci, dove furono trucidate 64 persone, fra cui diversi bambini, erano purtroppo frequenti.
Attraverso le dolci colline della media e alta Valle del Savio, ai due lati della strada statale n° 71, gruppi di soldati tedeschi, come antichi predatori, scorrazzavano nei borghi, nei villaggi, nelle case sparse razziando cose, animali e uomini. Rabbiosi e crudeli perché intuivano l’imminente definitivasconfitt, avevano smarrito ogni sentimento di pietà
Gli animali da cortile servivano loro per rifocillare le truppe che da mesi non ricevevano più scorte e rinforzi, i bovini, per trasportare carri di munizioni e vettovaglie, gli uomini, per lo più contadini strappati dalle loro case o dai campi, erano condotti in Germania a lavorare nelle fabbriche rimaste a corto di personale, giacché tutti i loro maschi oltre ai 14 anni erano stati inviati sui vari fronti di guerra.
Quando queste pattuglie, o per meglio dire “ bande”, passavano per il  “rastrellamento” (così era chiamata la loro razzia), la gente dei villaggi si allertava a vicenda del loro imminente arrivo con segnali convenzionali e passaparola.
Quel giorno, anche nel borgo chiamato “Cassandra”, giunse l’allarme che in breve, come un tam tam, echeggiò di casa in casa : " una pattuglia di soldati tedeschi sta rastrellando Sorbano Alta, poi arriveranno da noi …, stare all’erta ! "
Immediatamente, gli uomini sotto i 60 anni, dopo aver messo poche cose nello zaino, velocemente si dileguarono verso il bosco.
Le donne e gli anziani condussero nelle macchie vicine, mucche , vitelli, asini, nascondendoli in mezzo a folti cespugli.
L’agricoltore Giuseppe d’anni 56, già da qualche tempo, aveva nascosto il grano in diverse damigiane e sotterrate nel campo, così pure un baule di biancheria (il corredo da sposa della moglie Mariuccia). Non aveva bovini e  asino ma solo polli, conigli e due pecore; queste erano un grosso provento per la sua famiglia. Davano formaggio, lana e agnelli, perciò sarebbe stato un grosso danno economico se le avessero  razziate  i soldati tedeschi.
Fu così che decise di nasconderle in un luogo sicuro. C’era poco tempo, i soldati stavano per arrivare. Sotto il porcile (allora senza inquilino), c’era un angusto vano scavato in parte nella roccia che non veniva usato, la cui piccola porta d’entrata non era visibile, essendo esposta dalla parte di un dirupo coperta da ortiche e rovi.
Ritenendo fosse questo il posto ideale, con difficoltà vi condusse le pecore, vi portò erba e fieno a volontà, sperando vivamente che non avessero belato.
Ai suoi tre bambini fu imposto di stare chiusi in casa, buoni e zitti.
Poco dopo arrivarono, erano in cinque, armati di fucili e pistole. Giuseppe, con la barba incolta di mesi per sembrare più vecchio, e sua moglie Mariuccia li attendevano sotto il portico. A voce alta e piglio deciso uno di questi apostrofò Giuseppe in tedesco, chiedendogli l’età e se aveva visto dei partigiani in zona, mentre gli altri, avvicinatisi al porcile, chiedevano dov’era il maiale e se aveva altri animali. Fortunatamente Giuseppe conosceva abbastanza bene il tedesco (nel 1918 era stato prigioniero in Austria e successivamente aveva lavorato in Germania). Rispose di avere 65 anni, di non aver mai visto dei partigiani da quelle parti, che il maiale era stato venduto e non possedeva altri animali perché era una famiglia povera la sua.
Uno di loro, furibondo, lo minacciò con la pistola e, afferratolo per il petto, gli urlò che lo avrebbe ucciso se non diceva la verità.
A quel punto Mariuccia, d’istinto, si gettò sulla mano del militare che impugnava l’arma cercando di strappargliela con tutta la sua forza, senza riuscirvi.
Il tedesco reagì con rabbia scaraventandola a terra, poi urlando e imprecando, scaricò la pistola sulle galline che razzolavano nel cortile uccidendone tre.
Intanto un soldato era entrato in casa a rovistare nelle stanze e dentro i pochi mobili, un altro, gironzolando per il cortile notò in terra delle palline scure, i tipici escrementi delle pecore; puntando il fucile al petto del povero Giuseppe, perentoriamente voleva sapere dove erano nascoste. In quel momento una muta preghiera sgorgò spontanea dal suo cuore : “ Signore ! Fa che le pecore non belino ! “
Anche a quella violenza Giuseppe non reagì, mantenne la calma e raccolto tutto il suo coraggio cercò di convincerli che non possedeva né pecore né altro bestiame oltre ai polli e ai conigli.
Quello, per lui, fu certamente un gran brutto momento, denso di tensione e paura, perché se le pecore, che erano vicinissime, avessero emesso anche un solo belato, Giuseppe e forse tutta la sua famiglia sarebbero stati fucilati sul posto senza pietà. Curioso ma probabile : la vita di una famiglia che dipendeva da un belato.
Fortunatamente, le brave e buone pecore di Giuseppe restarono mute per tutto il tempo, quasi consapevoli della gravità dell’evento.
Dopo aver messo a soqquadro capanni e ripostigli attorno a casa, ed essere entrati e usciti più volte dal porcile, sotto il quale stavano le pecore, cercandole affannosamente, rivolsero con ira altri avvertimenti e minacce ad entrambi i coniugi atterriti, poi, raccolte le tre galline morte ed un paio di conigli se n’andarono verso il vicino casolare a ripetere le loro brutalità e barbarie con altre persone inermi.
Quando, scampato il pericolo, Giuseppe e sua moglie, ancora tremanti di paura, rientrarono in casa, trovarono i loro tre figli: un maschietto di otto anni, e le due femminucce di sei e quattro anni, terrorizzati, rannicchiati in un cantuccio a fianco del camino, spaventati e ammutoliti avendo essi assistito a tutta la scena.
Da dietro le persiane semichiuse della casa di fronte, due donne, trepidanti, che non si erano perse un solo attimo del fattaccio, subito accorsero a rincuorarli.
Le drammatiche immagini di quel giorno, al maschietto, oggi felice nonno, gli sono rimaste stampate nella memoria e così le racconta ai posteri.


Gli occhiali d’oro, di Giorgio Bassani



Gli occhiali d’oro
di Giorgio Bassani
Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo
Pagg. 96
ISBN 9788807880124
Prezzo € 7,50
 
 
Il dramma dell’emarginazione
 
 
L’essere perseguitati in base a una legge perché si è nati ebrei e l’essere emarginati solo perché si è nati omosessuali sono i percorsi quasi paralleli di cui tratta questo romanzo breve di Giorgio Bassani, parte integrante di quel grande progetto letterario che molto opportunamente chiamò Il romanzo di Ferrara.
La vicenda del dottor Fadigati, conosciuto e stimato medico otorinolaringoiatra, con avviato studio in città, può essere solo un pretesto per delineare l’esistenza di chi, per natura o per legge, è definito un diverso, ma è anche emblematica di un falso puritanesimo che al giorno d’oggi farebbe sorridere, ma che negli anni 30’, in cui in Italia predominava tanto da sembrare eterno il fascismo, era più che mai radicato. Stimato si è detto questo clinico, almeno fino a quando, pubblicamente, non rivela la propria sessualità, perché allora, all’impietosa luce del sole, si insinua nei cittadini dapprima un senso di scherno e di ilarità e poi una vera e propria emarginazione che si traduce in un calo marcato della clientela dello studio medico, in un isolamento in cui l’interessato avverte colpe che non ha. Non è un caso, poi, che pur non approvando il suo comportamento, l’autore e la sua famiglia non lo evitano, già in procinto di essere considerati pure loro diversi in quanto ebrei. Sintomatico di questo atteggiamento, se non di consenso, almeno di comprensione, è quel puvraz che pronuncia il padre dell’autore, apprendendo, raggiunta la famiglia a Riccione per le vacanze, che quella persona che così tanto stima – e che continuerà a stimare – ha manifestato pubblicamente, con grande scandalo, le sue tendenze accompagnandosi al Grand Hotel con un giovane studente sfaccendato, amico del Bassani. L’amante non è altri che un gigolò, senza alcuna morale, che va con le donne, ma che non disdegna gli uomini quando questa compagnia sia ben fruttifera. Gli spasimi di Fedigati, le sue gelosie, il lento scendere nel baratro sono descritti in modo splendido e con una penna guidata da un grande senso di pietà; sono pagine in cui l’autore riesce a cogliere il tormento dell’esistenza che può avere solo un innamorato tradito e un uomo che avverte palpabilmente un progressivo isolamento, da cui non potrà uscire se non con un gesto estremo, con un suicidio che i giornali di regime faranno passare per incidente. La vicenda si svolge mentre già la stampa comincia ad attaccare gli ebrei, tanto da parlare di imminenti leggi razziali, che di lì a poco in effetti verranno promulgate. L’ansia di questi israeliti, che memori di antiche persecuzioni sono sempre attenti a cogliere sintomi avversi, è ben esposta e procede di pari passo con le chiacchiere e gli atteggiamenti dei ferraresi nei confronti del dottor Fadigati.
Due diversità, dunque, ed entrambe incolpevoli, un senso di graduale afflizione che pervade gli animi, che rende insicuri, un’inconscia sensazione di colpevolezza quando invece colpevoli non si è, incidono le pagine come rasoi, descrivono in un italiano colto e ricercato il passaggio dai timori alla disperazione, condannano senza se e senza ma l’atroce delitto dell’emarginazione, un altro crimine di cui si macchierà il fascismo, incapace di fornire agli italiani un ideale diverso da quello che gli fu proprio, cioè la violenza per la violenza, la discordia civile, il senso dell’inutilità di una vita non libera di essere vissuta.
Non ho altro da aggiungere, salvo che questa piacevolissimo libro, che appaga in tutto e per tutto, lascia alla fine un senso di disorientamento, quasi di incredulità, come se certi fatti – e non dico quelli del romanzo – non possano essere accaduti, quando invece sappiamo che altri ben più gravi avvennero, come l’Olocausto conferma.  
 
 
Giorgio Bassani nacque a Bologna il 4 marzo 1916 e morì a Roma il 13 aprile 2000.  Di famiglia ebraica, patì le persecuzioni razziali e durante gli anni di guerra partecipò attivamente alla resistenza. E’ solo dopo il 1945 che si dedica all’attività letteraria in via continuativa, sia come scrittore che operatore letterario (suo è il merito di aver caldeggiato all’editore Feltrinelli la pubblicazione de Il gattopardo).
Poeta raffinato, Bassani ottenne il successo di pubblico con Il giardino dei Finzi Contini, di cui fu curata anche una trasposizione cinematografica da parte di De Sica.   
 
Renzo Montagnoli


Paese d’ombre, di Giuseppe Dessì 



Paese d’ombre – Giuseppe Dessì – Ilisso – Pagg. 360 – ISBN 9788885098794 - € 11,00
 
 
LASCITO
È un libro d’amore, fondamentalmente d’amore.
L’amore è quello di Giuseppe Dessì per Villacidro, il paese dietro il quale si cela il toponimo Norbio. È l’amore dell’autore per la sua terra e per la sua storia misto ad un disappunto che inframmezza lo scritto con severi rimproveri ad una certa sardità, quella fatta di rassegnazione passiva rispetto ad un destino di popolo colonizzato.
Sardegna, colonia d’Italia; Sardegna, terra da sfruttare; Sardegna, eterno fanalino di coda.
Eppure traspare in tutto lo scritto la necessità impellente di credere in un futuro migliore per la sua terra. Ripercorrendone la storia a cavallo dei secoli  XIX  e il XX ,si assiste ad una “focalizzazione sarda” della storia nazionale e di alcuni scenari internazionali che irrompono in una terra magicamente statica in balia di un destino severo, cupo, disgraziato ed ineluttabile.
Chi può dunque garantire quel messaggio di speranza?
È il piccolo Angelo Uras che sia affaccia alla vita e al cancelletto di legno di Don Francesco Fulghieri. È orfano di padre, povero, legatissimo alla madre Sofia. Diventerà il destinatario di un’immensa fortuna: possedimenti, terre, frutteti e oliveti che gli garantiranno un’insperata mobilità sociale . Il romanzo narra di lui, l’homo novus, il contadino povero, il povero che ha uno spirito grande, un’intelligenza viva, una sensibilità d’animo che nessun rango può eguagliare. Viene spontaneo crescere con lui, amare, soffrire, evolversi in un’empatia continua che ogni evento nodale riesce a suscitare destando viva commozione grazie all’uso sapiente di una prosa che va dritta al cuore.
I numerosi pregi del romanzo non sono però solo riconducibili all’impianto narrativo, alla trama, allo stile intriso di forte soggettivismo. Il testo oltre ad avere il pregio di rappresentare un messaggio di speranza, pienamente avallato dalla bellissima frase finale, ha il potere di restituire un vissuto che ancora perdura. Scrive chi vede una mamma ancora oggi segnarsi, dopo uno spavento umettandosi la gola con un dito bagnato di saliva, chi sente il proprio genitore rispondere al telefono con un “Commandi” se all’altro capo  c’è una persona che viene percepita importante o tante altre piccole sfumature culturali che ancora resistono nel tempo.
Oggi  la modernità ha cambiato l’aspetto del paese, un mantello orripilante per alcuni versi lo ha tradito camuffandolo di intonaco, la storia ha inflitto nuove violenze ma non ha modificato il ciclo della vita né lo ha incrinato. Prosegue inesorabile in altri destini percorrendo nuove traiettorie storiche, sociali, culturali, consapevole di un tempo che fu.
Dessì è riuscito a restituirci il nostro passato dosando storia e fantasia, rappresentando l’anima di un territorio che amava profondamente, consegnandocelo in dono come solo un padre può fare. Un’opera per soli sardi? Affatto! Un’opera per tutti perché “ogni punto dell’universo è anche il centro dell’universo”(introduzione a I passeri, 1955): uguale è la vita, l’amore, la morte.
 
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