domenica 19 marzo 2017

Il biotopo di Ecchen, di Renzo Montagnoli




Il biotopo di Ecchen
di Renzo Montagnoli




Già il termine biotopo lascia pensare a chissà che cosa e invece si tratta semplicemente di un ecosistema, costituito da una superficie di modeste dimensioni (una torbiera, uno stagno, un altipiano anche) che dà luogo a un ambiente in cui vivono organismi animali e vegetali della identica specie o di specie anche diverse che nel complesso formano una biocenosi , che non è altro che una comunità.
Ciò premesso, i biotopi non sono rari, ma ognuno presenta particolari caratteristiche, così come quello di Ecchen. Ci si chiede dove possa essere, con questo nome che ha assonanze con la lingua tedesca; ebbene il biotopo di Ecchen si trova a Costa di Folgaria, sull’omonimo altopiano. Questo piccolo angolo di natura incontaminata sopravvive fra questa frazione del comune di Folgaria e il campo da golf di Maso Spilzi. É costituito da una torbiera, che però ha una caratteristica particolare, e cioè è un rarissimo caso di una zona torbosa sita in un’area carsica. Detto così farebbe pensare a un ossimoro scientifico e invece non lo è, perché lo strato sottostante é costituito da rocce calcaree ricoperte da depositi morenici; c’è una vera e propria conca in cui è situata la torbiera, e che ha avuto origine sia da fenomeni glaciali sia da processi di erosione di tipo carsico. Al centro del biotopo c’è una zona di raccolta dell’acqua il cui livello non è mai costante e varia moltissimo durante l’anno in relazione all’andamento delle condizioni atmosferiche. In questo ambiente che resiste in precario equilibrio proliferano diverse e tipiche varietà vegetali, nonché specie animali, che pur non essendo esclusive, sono però presenti sull’altipiano solo lì (la biscia d’acqua, la rana rossa e il tritone alpino).
Mentre le specie vegetali sono facilmente osservabili, quelle animali normalmente si celano agli occhi del visitatore, ma con un po’ di fortuna e soprattutto con molta pazienza qualche esemplare potrà entrare nel nostro campo visivo. Peraltro, nell’adiacente complesso settecentesco di Maso Spilzi in luglio e agosto è possibile visitare un percorso didattico dedicato ai biotopo e alle foreste.
Ma quel che più conta è che esiste un sentiero, ben segnato e per nulla difficile che corre intorno alla torbiera, parte in un fitto bosco, parte allo scoperto e in pieno sole. É questo itinerario che deve interessare il turista, tanto più che lasciata l’auto in un piccolo, ma comodo parcheggio, prima di iniziare l’escursione gli consiglio una visita al Santuario della Madonnina, un luogo di pace di grande bellezza ed effetto; si tratta di una piccola chiesa la cui costruzione si fa datare al XVI secolo, semplice e povera, ma in cui chiunque, credente o no, ritrae la consapevolezza di essere vicino al mistero della creazione.
Poi si può iniziare il percorso che è di circa quattro chilometri e mezzo fra andata e ritorno con un modesto dislivello di un centinaio di metri, insomma un itinerario che può essere coperto tranquillamente da famiglie con bambini e con anziani in non più di due ore. Ogni tanto si trovano rustiche panchine e una sosta quindi è consentita e si presenta corroborante e più che gradita.
Insomma, al di là della curiosità per sapere cosa è un biotopo, resta tutto il piacere di una sana passeggiata in montagna, in una località non troppo alta (1.250 metri) e in un incantevole scenario, verdeggiante di boschi e disseminato di borghi che sanno ben celarsi per non impattare in modo devastante sulla natura circostante. A meno che non abitiate a oltre duecentocinquanta chilometri, è una gita che si può fare in giornata, considerato che il percorso per arrivare a Folgaria è soprattutto in autostrada e che la strada di montagna, peraltro piuttosto ripida e tortuosa, non è più lunga di una quindicina di chilometri. Il biotopo è visitabile tutto l’anno, ma i periodi migliori sono quelli primaverili, estivi e d’inizio autunno; d’inverno il paesaggio si presenta uniforme per via della neve, ma comunque conserva un suo fascino particolare, reso tanto più marcato dalla possibilità di fare una parte del percorso del biotopo su una slitta trainata dai cavalli.
I ristoranti nelle vicinanze, soprattutto a Costa, non mancano e vi si mangia per lo più bene.




Nota: La fotografia a corredo dell’articolo, relativa al biotopo di Ecchen in un periodo di abbondanza d’acqua, è stata scattata dall’autore dello stesso.


La scomparsa di Davide Azeri, di Renzo Montagnoli


La scomparsa di Davide Azeri
di Renzo Montagnoli






Era uno di quei giorni d’estate dalla calura asfissiante, che nelle prime ore del pomeriggio diventa un vero e proprio inferno, tanto che se lo sguardo volge al di là di qualche metro, si può scorgere nitidamente un tremolio dell’aria che, riscaldata, si leva da terra, per poi ricadere affranta, vinta da un sole che non è calore, ma fiamma viva. In queste condizioni, se non era proprio necessario, non si usciva, si stava rintanati in casa, le imposte chiuse per ripararsi dalla luce abbagliante, madidi di sudore, sprofondati in poltrona o appollaiati su una sedia, limitando i movimenti a un frequente vai e vieni verso il bagno in cui andare a bagnare i polsi, la fronte e la nuca.
Davide Azeri, noto avvocato di una cinquantina d’anni, si sforzava di leggere il giornale, dopo il breve e frugale pasto consumato, senza appetito, assillato com’era da un leggero senso di nausea dovuto a quella temperatura insopportabile. Fece per prendere una sigaretta dal pacchetto, ma si accorse che era vuoto. “Giulia, ho finito le sigarette; me ne puoi dare?” “Davide, lo sai che non fumo più da sei mesi e pertanto non ne ho.”
Gli venne un moto di stizza, gettò il giornale a terra e volse gli occhi al soffitto, dove un ragnetto e una mosca si fronteggiavano. Li vedeva e non li vedeva, nel senso che il suo sguardo rifuggiva da quella realtà, tanto che provava a immaginarsi la bella spiaggia in Sicilia dove era stato una decina di anni prima, o anche le cime innevate della Valle d’Aosta dove ogni anno con la moglie trascorreva una settimana in inverno. Rimase assorto così per una decina di minuti, poi si alzò e disse alla moglie: “Esco a prenderle”. “Con questo caldo?” “Sono due passi, non mi cambio nemmeno, resto in ciabatte e pantaloncini.” “Va bene, contento tu...”
Uscì.
Passò una mezzora, un’ora, un’altra ancora e non tornava. Giulia cominciò a preoccuparsi e allora decise di uscire e fare un salto dal tabaccaio.
Apprese così che lì non era mai arrivato; trafelata ripercorse il breve tragitto più volte, guardò oltre la siepe con il respiro affannato per vedere se magari, colto da malore, si trovasse lì. Tutto inutile. Disperata chiese aiuto ai vicini, fu avvisata polizia; le ricerche iniziarono subito, anche con l’aiuto dei cani. Decine di uomini, fra cui molti volontari, si offrirono e così fu battuto tutto il territorio comunale, palmo a palmo, senza risultati però. Un ispettore di polizia balenò a Giulia l’ipotesi di un allontanamento volontario: “Sa, signora, a volte gli uomini, arrivati a una certa età, vorrebbero sentirsi ancora giovani e si trovano un’amante, con cui fuggono. É solo un’ipotesi, ma non la escluderei. Vede, la scusa delle sigarette é tipica in questi casi. Ha mai notato signora un cambiamento del carattere in questi ultimi tempi?” Giulia stava zitta, ma negava con il capo, cancellandosi dalla mente quell’ipotesi assai improbabile. Cercavo di immaginarselo arrembante con un’altra donna, lui che aveva appeso l’arnese al chiodo da almeno un lustro, tutto casa e lavoro; no, era del tutto impossibile, ma allora, dov’era? La gente cominciava ad andarsene, la polizia le disse che avrebbero ulteriormente esteso le ricerche ad aree più lontane, ma lei quasi non sentiva; affranta, accaldata, se ne stava seduta in un angolo della sala, incapace di dare una minima risposta a quella domanda. Era come intontita e aveva sete, una gran sete; aprì la porta del frigorifero, ma di bibite fresche non ce n’erano. Si ricordò allora che nel garage c’erano un paio di lattine d’aranciata e disse fra sé che sempre liquido erano, anche se calde. Entrò dalla porta secondaria e accese la luce: la rimessa era in buona parte occupata dalla grossa Mercedes, a cui gettò uno sguardo per via di quel color crema che proprio non le piaceva. Fece per prendere le lattine, ma si fermò di colpo, perché qualche cosa l’aveva colpita in quell’occhiata al colore dell’auto, qualcosa che non era fuori, ma dentro. Il cuore prese a batterle forte, si avvicinò, apri la porta anteriore sinistra e...”Davide!Davide!”, un urlo che le si strozzò in gola. Seduto, riverso sul volante, giaceva il corpo senza vita dello scomparso. Il medico, che stilò il certificato di morte, scrisse deceduto per infarto. Si tentò di ricostruire come si erano svolti i fatti: Davide Azeri era uscito con l’intenzione di andare a piedi, ma il caldo l’aveva dissuaso e allora aveva pensato di andare in auto; era così rientrato senza che la moglie se ne accorgesse – probabilmente era andata in bagno a rinfrescarsi i polsi - , era andato in garage e, salito sull’auto, era stato colto dal fatale malore.
Durante il funerale i presenti parlarono, a bassa voce, delle illazioni che nel corso delle infruttuose ricerche erano state fatte e ricordò che lo stradino ebbe a dire:” Si era cominciato a pensare a una fuga d’amore, anche se, dato il soggetto, pareva poco probabile, ma si sa che il caldo gioca sempre degli scherzi e a lui purtroppo l’ha giocato proprio brutto. E tutto per un pacchetto di sigarette.”.
E’ trascorso molto tempo, da allora, la moglie è andata ad abitare con la sorella in un altro paese e credo che ben pochi abbiano memoria di questa vicenda che ho voluto ricordare per la sua venatura di giallo, un giallo senza assassini.


Da Storie di paese


Se lo ami lo lasci, di Marina Pasqualini


Se lo ami lo lasci
di Marina Pasqualini






L’aereo sfrecciava nella notte sopra il vecchio continente. Lei, la madre, stava accompagnando il figlio a sposarsi, il suo unico figlio. E lì sarebbe rimasto, oltre gli Urali, a vivere con lei, la sua amata sposa. Furtivamente guardò il suo profilo, quasi a volerlo imprimere per sempre nella sua memoria. Certo, lui sarebbe tornato, qualche volta, a trovare la madre, magari insieme a qualche figlioletto. Stava andando ed edificare una nuova famiglia, ed era giusto così. E’ nella natura delle cose che i figli se ne vadano. Sorrise tra sé, incitandosi ad essere forte, ad essere realista. Ma il suo cuore piangeva: avrebbe voluto farlo tornare con lei, avrebbe desiderato che lui le dicesse che no, era un errore, non se ne fa niente. Ma sapeva di mentire a se stessa. L’aereo atterrò, e si ritrovarono a respirare l’aria di quel paese straniero, con i suoi odori particolari, quasi fosse una persona. Salirono sull’autobus, diretti all’albergo. Due singole, ovviamente. Un’ultima notte con lui accanto, oltre la parete, ancora single, ancora il suo caro figliolo, che aveva amato e che continuava ad amare più della sua vita. Appese con cura l’abito da cerimonia nell’armadio anonimo, e si sedette, quasi in trance, alla toeletta. Lo specchio le rimandò un’immagine di sé inedita, dall’espressione indecifrabile anche a lei stessa. Proprio perché ti amo, ti lascerò volare, si ripeteva. Ma io non sono come gli uccelli, o i cani, e non ho voglia di scoccarti dal mio arco. Non mi davi fastidio, anzi. Sarei rimasta accanto a te, a servirti, per il resto dei miei giorni. La notte fu lunga e troppo breve. Poi la cerimonia, e la festa. Erano tutti allegri, intorno a lei, e parlavano e cantavano in una lingua a lei incomprensibile. Sarebbe scoppiata volentieri a piangere, ma poi si voltò, per caso, e li vide: vide lo sguardo di suo figlio, pieno d’amore per quella bella ragazza, per lei straniera, per lui il centro del mondo. E capì: non c’era più il primo posto per lei, nel cuore di suo figlio, ma lei era scesa di un gradino, mentre sua nuora era salita sul trono del suo cuore. Non le restava allora che fare la cosa più saggia e più giusta, anche se dolorosa: accettare. Bisognava evolvere, pena la sparizione della specie umana. Solo così il calice amaro poteva sembrare meno amaro. La sera lo salutò, anzi salutò qualcosa di diverso: lui apparteneva a quella giovane donna, ora, e lei doveva mettersi da parte. Non aveva più l’esclusiva né del suo cuore, né della sua mente. Vi era una nuova inquilina, in quei luoghi, e lei era stata sfrattata. Abbracciò entrambi e recitò in silenzio una breve invocazione a Dio, affinchè li proteggesse. Il suo compito era finito lì, ora cedeva le armi alla giovane donna, che avrebbe fatto le sue veci portando un valore aggiunto. Più gradito a suo figlio.
La sua vita continuò, uguale a se stessa ma profondamente diversa nella sua percezione. E quando saliva la nostalgia, si imponeva di pensare a quegli occhi innamorati, che si perdevano nell’azzurro degli occhi di lei, e capiva quale fosse ora il suo posto. L’unica medicina possibile era ora dedicarsi un po' a se stessa. Si sarebbe iscritta a qualche corso, avrebbe conosciuto persone nuove che avrebbero aiutato a tenere lontano lo spettro rappresentato da quel vuoto. E poi continuava a ripetersi che è meglio un figlio felice lontano da sé, che un infelice che vive nella nostra stessa casa. E a quanta sofferenza vi è nel mondo, a quanta gente avrebbe preferito trovarsi nella sua condizione, piuttosto che nella propria. Era proprio un peccato lamentarsi, in fondo suo figlio aveva fatto una scelta libera e consapevole, e lo aveva fatto per amore. Anche lei avrebbe curato le sue ferite sanguinanti, grazie a questo pensiero: lui era felice così. E prima o poi anche lei avrebbe imparato ad esserlo, in nome di quel sentimento che li aveva accomunati per tutta la vita, fino ad allora. Lui era stato il centro del suo universo, ed ora le veniva imposto di cercare un altro centro. Lo avrebbe trovato dentro di sé, e da lì non se ne sarebbe più andato.


Il popolo, di Bernard Malamud




Il popolo – Bernard Malamud - Minimum fax – Pagg. 395 – ISBN 9788875217327 - Euro 15,50




Sono un indiano ma sono anche un ebreo”




Sedici racconti inediti o poco conosciuti scritti nell’arco temporale compreso tra il 1940 e il 1984, presentati in ordine cronologico, più un romanzo inedito “Il popolo”, costituiscono questo volume apparso per i tipi della Minimum fax nel mese di maggio del 2016. Volume splendidamente corredato di una prefazione eccellente sui libri incompiuti, firmata Alessandro Zaccuri, e di un’introduzione di Robert Giroux, colui che fu amico ed editor di Malamud e che ebbe il merito di far pubblicare postumo “Il popolo” nel 1989.


La raccolta ha sicuramente il pregio di fungere da ottima selezione di un trentennio di attività di scrittura e chi conosce la produzione malamudiana ci ritrova personaggi, ambienti, situazioni già incontrati nei suoi bellissimi romanzi. In molti di essi è rappresentato il tema dell’incomunicabilità in seno alla famiglia, oppure il delicato equilibrio dei rapporti sociali; i personaggi di questi racconti ambiscono ad un’altra vita ( “A new life”?), si nutrono di speranze, di arditi slanci, di vere e proprie ribellioni ma poi finiscono quasi sempre per soccombere e riallinearsi al loro vissuto dal quale hanno momentaneamente deragliato rischiando di cambiare tutto e per sempre. Chi osa è solo un pazzo (“Confessione d’omicidio”) ma forse non è riuscito neanche lui e la pazzia è un tarlo come il ronzio che solo Zora sente temendo di divenire matta (“Il ronzio di Zara”). Tra i racconti “Esorcismo” a evocare i rapporti intercorsi tra Malamud e il giovane Philip Roth e due “biografie immaginarie”: una dedicata a Virginia Woolf e l’altra ad Alma Mahler. Due gioiellini.
Il popolo” invece è la bozza di un grande romanzo che Malamud non ha potuto terminare e che iniziò a scrivere quando la sua lucidità intellettuale non era più integra anche se non venne mai meno l’abnegazione verso l’arte dello scrivere. Rivedeva le sue opere infinite volte con un metodo di revisione molto preciso: nulla era casuale o affrettato o ,peggio ancora, superficiale. Valutare pertanto uno scritto postumo, un incompiuto è per me far torto all’autore. Si può dunque solo accennare al contenuto. Yozip è l’ebreo errante fuggito dalla sua patria (?) per evitare il servizio militare, che incappa in una serie di casi fortuiti i quali lo portano a diventare venditore ambulante, falegname, sceriffo, portavoce dei diritti di una tribù indiana, dopo essere stato dagli indiani rapito, capotribù infine di quel Popolo.
Fortemente ironico nelle situazioni e nei toni, al limite del disincanto tipico della fiaba, è un’allegoria che ricalca il destino di un altro popolo, quello ebraico. Che differenza passa infatti tra un pogrom e un assalto ad un accampamento indiano? Quale differenza tra un esodo e una riserva? Il male, la sopraffazione accomunano i popoli, gli uomini: chi lo subisce e chi lo fa , perché, quando uccidi, il primo a morire sei tu.


Siti


Insomnia, di Stephen King




Insomnia
di Stephen King
© 1994 Stephen King - © 1995 Sperling & Kupfer Editori S.p.A.
Pag. 744 €8,33 ISBN 88-8274-195-8 86-1-02


Questo romanzo ha per protagonisti degli anziani e prende spunto da un problema che spesso accompagna le loro notti: l’insonnia.
Insomnia è ambientato nella Derry post It. Vi troviamo molti riferimenti che ci riportano alla memoria i fatti accaduti in quel romanzo e alcuni intelligenti riferimenti ai libri della saga La torre nera.
King, come sempre, è abile nel lanciare questi sassolini che sanno creare ampi cerchi nel lago dei suoi libri “comunicanti”.
Ralph Roberts, un signore anziano, dopo la morte della moglie non riesce più a dormire, se non per poche misere ore per notte.
Ciò che più lo turba è il cominciare a vedere strani personaggi che nessuno vede, nonché delle aure colorate, intorno alle persone. La loro essenza vitale?
Ben presto dovrà affrontare un’avventura soprannaturale e in questo non sarà solo, ma verrà aiutato da Lois, una cara vicina di casa con il suo stesso problema, l’insonnia, e il suo stesso dono: il vedere quel mondo che è la porta verso un’altra dimensione.
Ecco, allora, che King chiama questi personaggi che stanno in quel limbo, incaricati di togliere la vita, con i mitici nomi di Cloto, Lachesi e Atropo.
Ralph e Lois dovranno salvare un bambino che, se tolto alla vita ora, non potrebbe adempiere a un compito vitale che lo aspetta nel futuro.
Mentre Derry è alle prese con l’arrivo di una nota abortista, contrastata dagli amici della vita, personaggi presi da un altro libro di King Rose madder, i due anziani dovranno comprendere come fare per riuscire nella loro impresa.
Apprezzabile in questo libro è la descrizione del mondo visto dagli anziani, dalla loro vita tenuta ai margini.
King, pur scrivendo di storie fantastiche, non manca mai di rivestirle di un senso nel quale riconoscersi.
Il finale è commovente e quando ci si arriva, ci si accorge di essersi affezionati ai personaggi che per tante pagine ci hanno accompagnato.


© Miriam Ballerini


La scala di ferro, di Georges Simenon



La scala di ferro
di Georges Simenon
traduzione di Laura Fausin Guarino
Edizioni Adelphi
Narrativa romanzo
Collana Biblioteca Adelphi
Pagg. 179
ISBN 9788845930508
Prezzo Euro 18,00




Il sospetto




E’ difficile arrivare all’ultima pagina senza essere presi dall’ansia di chi vuol sapere, di chi paventa una fine che magari non sarà come quella immaginata, perché La scala di ferro è un vero e proprio thriller che riserva non poche sorprese e l’ultima di certo è quella meno prevedibile, anche se logica. Étienne, entrato nel cuore di un’avvenente, ma più anziana donna, che sospetta aver avvelenato e in tal modo ucciso il marito, poco a poco si convince che la prossima vittima designata non potrà che essere lui. Certi atteggiamenti della moglie, che ha sposato dopo un anno della sua vedovanza, e soprattutto le analisi di un medico gli confermano la fondatezza dei suoi sospetti. Già accusa dei disturbi causati dall’arsenico che gli viene propinato gradualmente in alcuni piatti ed Etienne, invece di andarsene, rimane perché senza quella donna non può più vivere e anche perché la nuova situazione rende più attiva la sua vita. Il tema del sospetto è un classico in questo genere di letteratura ed è stato introdotto con notevole successo nel cinema da Alfred Hitchcock, tanto da dirigere una pellicola intitolata appunto Il sospetto con interpreti Cary Grant e Joan Fontaine. E come nei film del grande regista inglese, nelle pagine di La scala di ferro troviamo una progressiva e crescente tensione che nel caso specifico non direi causata dalla paura perché ciò che si instaura fra Etienne e la moglie è un conflitto, con lei che procede nel suo disegno omicida e lui che cerca di salvare la pelle; inoltre, se lui sa dei propositi del coniuge, non è improbabile che anche lei si sia accorta che il marito nutre dei sospetti. É quasi una partita a carte scoperte, i cui contendenti tuttavia preferiscono nascondere, proprio per il sottile piacere provocato dalla tensione. Chi uscirà vincitore? Ovviamente non dico nulla lasciando a chi leggerà l’affannosa ricerca della verità.
La trama é particolarmente avvincente e l’analisi psicologica dei personaggi è assai approfondita, come è d’uso con Simenon; si entra piano in questa spirale di sospetti, ma poi tutto scorre rapidamente sotto ai nostri occhi, con sullo sfondo sempre quella scala di ferro, quella che porta dal negozio all’appartamento, l’ideale congiunzione fra la vita pubblica di tutti i giorni e le violente passioni private, che i protagonisti si sforzano di occultare.
Da leggere, ovviamente.




Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a JeanPauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».


Renzo Montagnoli




Musica nera, di Leonardo Gori




La Versilia «noir» di Leonardo Gori
fra delitti e cinismo





Temi civili e politici si intrecciano in un poliziesco mozzafiato




Ancora un thriller di Leonardo Gori, un autore molto amato dai cultori del genere. «Musica nera» (Tea, pp. 349, 14 euro, con una «Coda» di Marco Vichi) ci porta in Versilia, anno 1967. Mentre lo scenario internazionale è dominato dalla Guerra Fredda e dall’escalation americana in Vietnam, l’Italia si gode i frutti della ripresa economica. Il benessere non è più un sogno irrealizzabile, gli anni della fame e del fascismo sono solo un brutto, lontano ricordo. La 500 e le vacanze al mare sono ormai alla portata di quasi tutti. Nei juke-box impazzano Rocky Roberts, Gianni Morandi e Caterina Caselli.Eppure, lungo il litorale turistico di Viareggio, qualcuno sembra molto distante da questo clima di euforia collettiva. Si tratta di un gruppo di donne in nero che, sul pontile del Cinquale, si ritrova ogni sera per guardare il mare senza sosta, e lo scrutano silenti, misteriose. La stranezza non passa inosservata agli occhi del colonnello dei Carabinieri Bruno Arcieri, venuto al funerale di un vecchio amico, un ufficiale della Marina militare, morto per un’apparente disgrazia in un fosso inquinato, pieno di schiuma. Ma sarà il jazz della sua giovinezza, suonato dalla misteriosa tromba di un musicista che è come emerso dall’abisso del tempo, a condurlo a una trappola mortale a cui sfugge in modo inspiegabile. Gli appassionati dei gialli di Gori, che già hanno apprezzato «L’angelo del fango» (Premio Scerbanenco 2005), solo per citare il capostipite della serie, non si stupiranno per la sagacia di questo detective sui generis, che pure, nonostante il suo proverbiale intuito, fuorviato dal jazz della sua giovinezza, sta per cadere, come dicevamo, in un trabocchetto assassino. Proprio per prenderne reale consapevolezza e scoprire la radice di plurimi omicidi insoluti – una famiglia ebrea massacrata nel 1944, un faccendiere segreto legato ai servizi di Salò, l’equipaggio di un sommergibile colato a picco nel Tirreno – Arcieri condurrà un’indagine privata destinata a fare luce su un’intricata matassa di trame eversive e di interessi personali di efferato cinismo. Ma non è finita qui, perché la sorpresa delle sorprese sarà proprio nell’epilogo del ben congegnato romanzo. L’autore, da sempre è maestro nell’intrecciare temi civili e politici che ancora condizionano la vita d’oggi, plasmandoli in un poliziesco mozzafiato, giocoliere della vera Storia, frammista a quella inventata, dove vero e verosimile si rincorrono, facendoci correre a nostra volta, nella curiosità della lettura. In buona sostanza, potremmo dire, che dalla lettura di questo giallo, fuori dai canoni consueti, traiamo l’impressione di aver viaggiato nella memoria di una generazione che ha ricostruito l’Italia a favore di tutti, ma per il vantaggio di pochi. Si resta impressionati, leggendo questo labirintico noir sociale, dalla capacità di Gori di dosare con preciso acume i vari ingredienti che fanno di un romanzo del genere non solo una trama che si legge premuti dalla curiosità di scoprire il colpevole, ma anche una spinta alla riflessione. E il detective d’eccezione, Bruno Arcieri, inchiesta dopo inchiesta, attraversando i decenni più aggrovigliati del Novecento italiano, ci offre, nel ciclo di romanzi dell’autore, un ritratto vivido e stigmatizzante della realtà in cui viviamo.


Grazia Giordani




MondoBlog del 19 marzo 2017

MondoBlog


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