giovedì 6 aprile 2017

Il vecchio, di Piera Maria Chessa

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Il vecchio
di Piera Maria Chessa




Due guinzagli
in una sola mano,
due amici a quattro zampe
ti precedono di poco.
Tu, vecchio,
cammini lento
affidando il peso del tuo corpo
ad un bastone.
L’affetto
compie sempre dei miracoli,
il resto
lo fa la solitudine.


La colonna sonora:








Tornano i lupi, di Vincenzo D’Alessio

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Tornano i lupi
di Vincenzo D’Alessio


Tornano i lupi
sulle montagne
ovili vuoti si cibano
di miti, muoiono solitari
nei boschi di faggi, strilla
la campana nel borgo
sveglia nidi di passeri
unico residuo di fede.


Chissà dov’è la culla
fiorita sotto il tiglio.




Da Immagine convessa (Fara, 2017)


La colonna sonora:








Vento da Nord, di Renzo Montagnoli

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Vento da Nord
di Renzo Montagnoli




Nei giorni più freddi
s’alza un vento teso
che soffoca il respiro.
Viene da lontano
dal grande e gelido Nord
fugge dalla tundra gelida
per portare la voce roca
degli sconfinati ghiacci
di quella zona
che Artide chiamiamo.
Ma se stiamo attenti
ad ascoltare e lasciamo
un po’ correre la fantasia
ci porta anche le leggende
di quelle terre desolate
dove la notte si ritrovano
i folletti a danzare
alla luce della luna.
Ci parla di renne
che libere corrono sulla neve
che s’involano all’orizzonte
come uccelli migratori;
dei grandi alci
udiamo il rauco respiro
e dei guerrieri
che quelle lande popolavano
sentiamo il cozzare delle armi.
Ci porta lontano questo vento
ci conduce a ritroso nel tempo
a viaggiare come in sogno
dove non esiste più il tempo.
E solo allora ci accorgiamo
di quanto di noi è stato
di cui memoria più non abbiamo
E’ forte questo vento
e anziché spazzare via
accumula davanti a noi
le foglie dei sogni
che nella sconfitta d’ogni giorno
avevamo lasciato sul selciato.




Da La pietà


La colonna sonora:








Il suono delle campane, di Renzo Montagnoli



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Il suono delle campane
di Renzo Montagnoli






Il primo chiarore dell’alba riuscì a infilarsi fra le fitte maglie della grata che chiudeva l’unica finestrella della stalla e un piccolo raggio andò a colpire gli occhi dell’uomo che dormiva in una mangiatoia, steso sulla paglia e coperto appena da un vecchio pastrano militare. Annibale Chiocchetti aprì l’unico occhio che gli era rimasto e, ancora addormentato, si chiese dove mai si trovasse. Poi si sovvenne della lunga camminata che aveva fatto il giorno prima da Reggio a Codisotto, di quella casa colonica in cui si era imbattuto quando ormai erano già scese le ombre della sera, dell’accoglienza ricevuta dai suoi abitanti che non conosceva, del pasto caldo consumato e infine dell’agognato riposo in quella stalla. Vicino a lui sentiva delle mucche muggire e il tipico rumore del latte appena munto che cadeva nel secchio.
Hai dormito bene?
Ero talmente stanco che mi sarei coricato anche per terra.
Il contadino gli allungò una tazza di latte fumante e una fetta di polenta riscaldata nella cenere.
Non ho altro, ma comunque è meglio di niente.
Il Guercio, che era il nome di battaglia da partigiano e che gli sarebbe rimasto appiccicato tutta la vita, ringraziò, poi divorò quell’umile, ma sana colazione.
Se vuoi lavarti, la pompa é nell’abbeveratoio di fuori. E’ acqua fredda, ma risveglia bene.
Sì, era decisamente fredda, un getto gelato che inondava il viso con la barba di tre giorni, ma era quello che ci voleva per affrettarsi a riprendere il cammino verso casa. Il contadino lo osservava, incerto su qualche cosa che voleva chiedergli, poi si decise: -Eri un partigiano?
Sì, un partigiano, operante sull’Appennino e che ha partecipato alla liberazione di Reggio. Poi siamo stati costretti a restare, per consegnare le armi agli americani, ma ieri mattina abbiamo avuto il via libera e allora tutti, con ogni mezzo, ma soprattutto a piedi, ci siamo fiondati verso casa.
Brutta cosa la guerra, brutta cosa soprattutto la guerra civile. - disse il contadino. Poi aggiunse:- Avevo un figlio, anzi ne avevo due, che non torneranno, uno, un partigiano come te, è stato ucciso in un rastrellamento, l’altro non era della stessa idea, stravedeva per Mussolini e dopo l’8 settembre è entrato nelle Brigate Nere. Morto anche lui, durante un rastrellamento. E magari sei stato tu a sparargli, ma poco importa, perché l’uno e l’altro non ci sono più.
Può anche essere che sia stato io a sparargli, ma ho sparato tante volte, anche perché sparavano a me. Sì, brutta cosa é la guerra, un’esperienza che non potrò mai dimenticare.
Il contadino mise in un cesto tre fette di polenta, un mezzo salame e un pezzo di formaggio. -Ti serviranno lungo il viaggio per arrivare a casa.
Grazie. - disse il Guercio e riprese il suo cammino. Fatti pochi passi si voltò per guardare quell’uomo che l’aveva aiutato e solo allora si accorse delle lacrime che solcavano il suo viso.
Brutta cosa è la guerra. - disse a voce alta e quello rispose, correndo dentro la stalla:- Una guerra non finisce mai, anche per chi resta.
Già il sole s’era ampiamente affacciato a oriente mentre il Guercio percorreva la strada diretta al Po, un tempo così ben tenuta, ma ora disastrata, costellata dai crateri delle bombe che l’avevano colpita. Sperò di trovare un passaggio, un camion, un carro, insomma qualsiasi mezzo per arrivare alla svelta, ma era una speranza vana. Pressochè deserta, era percorsa solo da qualcuno che magari si era congedato come lui. Lo stupì il silenzio, l’assenza di suoni, fatta eccezione per i latrati di qualche cane lontano. Era ormai primavera, ma non s’udiva il canto degli uccelli, né si vedevano, forse ancora impauriti dalla battaglia di alcuni giorni prima. Poi udì un suono, un suono di campane che chiamavano alla prima Messa. In verità erano più suoni che sembravano rincorrersi nell’aria, una serie di note che sapevano di tempo andato, tanto che pareva perduto e lui si commosse. Pensò alla sua casa, a cui contava di arrivare il più presto possibile, a sua madre, a sua moglie e al suo bambino e nel rivedere quei volti che l’ultima volta aveva scorto più di un anno prima iniziò a piangere, calde lacrime che non lo stordivano, ma lo facevano sentire meglio, che gli dicevano, scivolando fra i peli della barba, che l’incubo era finito e che era tempo di tornare a vivere.
Sentiva nascere dentro di sé un anelito, una speranza in un mondo diverso, senza più spari, senza più scoppi, ma era inevitabile allora volgersi indietro, ai tanti compagni di quell’avventura che aveva lasciato sotto croci di legno, a gente come lui che mai avrebbe visto la fine di quella catastrofe: il prete rosso, fucilato dai fascisti, Giuanin di Gualtieri, torturato e ucciso, il loro primo comandante Gambalesta che, ferito, era morto per coprire la ritirata dei suoi uomini e di tanti altri di cui non avrebbe mai saputo il vero nome, ma che, fra un passo e l’altro verso casa, sembravano affiancarsi, ombre sfumate che accompagnavano il suo ritorno e che mai avrebbe dimenticato, come non si sarebbe mai scordato gli occhi impauriti e imploranti di una spia che avevano fucilato, niente più di un ragazzo cresciuto dalla parte sbagliata.
La strada era accidentata per via dei crateri, ma ogni tanto gli capitava di trovare una bomba d’aereo inesplosa, conficcata nel terreno, e allora era opportuna una deviazione, per sicurezza., magari in mezzo i campi, sempre con il timore che fossero minati. E qui si sorprendeva, sgomento, nel vedere i filari di viti tagliate al piede, gli alberi da frutto schiantati, segno evidente che i tedeschi in ritirata avevano voluto lasciare ancora una volta il segno della loro ferocia, come se un mondo senza il terzo Reich non dovesse essere che desolazione e dannazione. Non seguiva più in pratica la strada, andava per i campi sui quali l’umida erba si cullava al sole primaverile; temette a un certo punto di aver sbagliato strada, ma poi disse a se stesso che in ogni caso era a Nord che doveva andare per arrivare al grande fiume, di cui in distanza gli pareva già di scorgere gli alti argini. Non sapeva che ore fossero, perché non aveva l’orologio, ma dalla posizione del sole pensò che forse erano le 8 o le 9 di mattina e mentre faceva questi calcoli andava, accelerando il passo, così che senza quasi accorgersi si trovò ai piedi dell’argine. Oltre c’era il Po e sull’altra riva il suo paese, la sua casa, quel piccolo mondo che aveva lasciato e che ora fremeva per il desiderio di tornare a farne parte. Salì sull’argine e guardò la grande massa d’acqua, che più sotto scorreva. Come aveva temuto il ponte di barche non c’era più e allora volse lo sguardo a sinistra, verso il ponte in ferro della ferrovia, ma non vide che lamiere contorte e piloni abbattuti.
Il fiume sotto scorreva tranquillo e l’acqua era solcata da alcune barche, con i rematori che, ritti in piedi, affondavano il remo ritmicamente e con apparente tranquillità. Guardò giù e si accorse che sulla riva sabbiosa erano allineati dei corpi intorno ai quali si muovevano alcuni uomini; scese e mano a mano che s’avvicinava all’acqua notò che quei cadaveri, gonfi come otri piene, indossavano una divisa tedesca. Da una barca, attraccata alla riva, ne stavano scaricando altri. Rimase sconcertato e allora uno degli uomini che allineavano i morti gli disse: - Anche oggi la pesca è buona.
- La pesca? - gli rispose Annibale. - Sì, questi disgraziati negli ultimi giorni di guerra, pur di scappare, hanno cercato di attraversare il fiume con qualsiasi mezzo, a volte addirittura aggrappati alle assi per fare la pasta. Si vede che non sapevano che, sotto quell’aria sorniona, il Po è traditore e ne sono annegati a centinaia. É da una settimana che ne tiriamo su; gli americani ci danno 500 lire per ogni cadavere e di questi tempi non si può fare gli schizzinosi. E poi, cosa volete che vi dica, mi fa anche piacere vedere come questi superuomini si sono ridotti. Annibale li osservava, uno per uno e a un certo punto provò sgomento: - Ma sono quasi dei bambini! - Che ci volete fare, ormai, quando mancano le braccia, tutti sono buoni per diventare carne da cannone. Ma a me sembra di conoscervi. Siete per caso del paese?
- Sono del paese e anche voi non mi sembrate un viso nuovo. Il mio nome é Annibale Chiocchetti. - Ma certo, lo sposo della Tilde. Adesso ricordo, ma siete un po’ cambiato; si diceva che stavate coi partigiani. - E’ vero, ero coi partigiani e sono cambiato; con una guerra, prima il fronte greco, poi la Resistenza non si è più quelli.
- “Non so se vi ricordate di me, ma sono Mariin, il figlio della Festona e di Giuachin, gli ambulanti di frutta e verdura. - Ricordo i vostri genitori, ma voi non siete quasi mai stato in paese, mi pare che lavoravate a Milano. - Sì, ma poi, un bombardamento oggi, uno domani, ho deciso di rientrare, anche se poi anche qui, con la faccenda del ponte, di bombe ne cadevano spesso; a essere del tutto sincero, là con il razionamento non si mangiava, ma qui, con la campagna,non ho rischiato di finire a pelle e ossa. Annibale continuava a guardare i corpi, si era incupito e si passava una mano sui capelli.
- Li ho sempre odiati e li odio anche ora da morti. - fece l’altro.
- Anch’io li ho odiati quando facevano i rastrellamenti e incendiavano le case, uccidevano gli uomini e violavano le donne, ma ora, nel vedere questi corpi sfatti, penso che non abbiano mai avuto una gioventù, non siano mai stati in grado di costruirsi un futuro diverso da quello imposto da un folle dittatore, e poi mi vengono in mente le mamme che aspetteranno invano. No, ora non provo odio, ma solo tanta pietà. - disse Annibale.
- Se volete vi do un passaggio fino all’altra riva.
- Sì, grazie, cosa vi devo dare in cambio?
Ma niente, ci mancherebbe altro.
Raggiunta l’altra sponda, Annibale scese, strinse le mani a Mariin e comunque volle sdebitarsi, dandogli un pacchetto di sigarette americane, un regalo molto gradito anche dai non fumatori, in quanto considerato buona merce di scambio.
Si avviò di buon passo, nonostante gli dolessero i piedi; alla meta ormai mancavano solo un paio di chilometri, che tuttavia finirono con il sembrargli molti di più. Anche lì la strada era martoriata dalle buche provocate dai bombardamenti, ma più andava avanti, più ogni cosa gli diventava familiare, e così finì per giudicarla non così malmessa. Le campane suonavano di nuovo, era domenica e la messa doveva essere finita. Nelle orecchie udiva ancora le parole di Don Zeffirino <<Ite missa est>> e gli sembrava di vedere la gente che usciva dalla chiesa per poi fermarsi sul sagrato per scambiarsi le consuete due parole. Sperò tanto di arrivare in tempo e accelerò ulteriormente fino a quando, in fondo al breve rettilineo, scorse il campanile, poi la chiesa e infine la gente, la sua gente che vi sostava davanti. Erano tanti, quasi tutto il paese; qualcuno lo vide arrivare, ci fu chi lo riconobbe e allora si udì un grido: - E’ tornato Annibale!. E un altro, un altro ancora, in breve fu un coro. E quando scorse fra i tanti sua moglie, sua madre, il bambino e Don Zeffirino che li abbracciava felice, si accorse di piangere, non vide più quella calca che fendeva, che voleva toccarlo, non udì più le parole di saluto e gli parve di volare. Si strinse ai suoi, senza parlare, in un lungo fremente abbraccio, da cui si sciolse lentamente per dire, con voce tremante: - Andiamo a casa, la tempesta è finita ed è tornato il sole.


Da Storie di paese


Tre sentieri per il lago, di massimolegnani


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Tre sentieri per il lago
di massimolegnani




Mentre viaggiava veloce sulla superstrada Michele notò poco lontano, sulla sinistra, un lago piccolo e scintillante. A tutta prima lo bollò come un laghetto di terza categoria, oscurato com’era dalla vicinanza di laghi ben più famosi e grandi, e pure rovinato dallo scempio di asfalto e cemento che arrivava fino a riva. Ma poi rallentò per osservarlo meglio, la sponda opposta sembrava conservare piccole bellezze vergini, paesini abbarbicati a mezza costa, pendii verdeggianti fino all’acqua, rive boscose. Un rapido calcolo degli appuntamenti della giornata, un paio di telefonate necessarie e l’uomo al primo svincolo abbandonò la grossa arteria per inerpicarsi per le strade strette che salivano ai villaggi, la pietra dei muretti al posto del cemento.
Lasciò la macchina nella piazza del primo paese e si avventurò per le vie solitarie, voleva raggiungere l’acqua, dalla parte giusta. Non c’erano indicazioni per il lago né persone a cui chiedere ma immaginò che sarebbe bastato seguire una qualunque via in discesa nell’unica direzione logica.
Così percorse una strada asfaltata che scendeva tra case pretenziose e un furioso abbaiar di cani oltre i muri di cinta. Lo vide laggiù, quasi a portata di mano, e si mise a camminare con passo più spedito preso da una lieve frenesia. Un cancello chiuso gli sbarrò all’improvviso la strada, non era l’ingesso di una villa, era proprio l’accesso al lago che gli veniva impedito con tanto di cartello del sindaco che regolamentava l’afflusso dei turisti (?) e di telecamere di sorveglianza a dissuadere i malintenzionati. Oltre le grate una spiaggetta tristissima, decisamente fuori posto, è altro quello che cerco e poi siamo in autunno avanzato, che me ne faccio della sabbia di Riccione qui in Brianza?
Tornò sui suoi passi, gironzolò per le vie per cercare un altro accesso, come un cane randagio che annusa l’aria cercando tracce odorose di cibo. Vide un viottolo in terra battuta che s’inoltrava nei prati, lo prese. Sembrava il sentiero giusto, ma a mano a mano che procedeva il fondo divenne sempre più molle e il viottolo una traccia sempre più esile fino a sparire del tutto, come per sfinimento, in un nulla di fango ed erba fradicia. Il lago era lì a poche centinaia di metri, irraggiungibile.
Di nuovo fu costretto a tornare indietro, respinto in malo modo da una forza invisibile che non sapeva a chi attribuire. Michele non si arrese, vagò ostinatamente per il paese finchè scovò un vicolo lastricato a ciottoli di fiume che si insinuava stretto come un serpente tra vecchie case malandate. Un puzzo feroce di muffa e di piscio quasi lo fece desistere, ma ecco che, appena finite le case, il viottolo si aprì su scenari inaspettati illuminati dal sole: l’oro e il fuoco di alberi maestosi che facevano corona a più timide betulle, prati di un verde smagliante, arbusti carichi di bacche selvatiche appese a grappolo a tralci color vinaccia. Un ruscelletto scorreva a fianco del sentiero e ogni tanto se ne discostava per immergersi in un piccolo bosco di castagni e faggi e ricomparire poco più avanti, arricchito da minimi affluenti.
L’uomo seguiva il fluire dell’acqua immaginandola come un vero fiume, di portata ben maggiore tanto da sembrare esso stesso il creatore del lago in cui presto sarebbe sfociato per poi uscirne e riprendere la corsa verso il mare. Pensò al Rodano, al Ticino, all’Adda, questo ambiente era una miniatura che replicava qualcosa di più grande, una sorta di plastico naturale su cui, avesse avuto un figlio, poter spiegare l’orografia e l’idrografia della regione.
Michele ripensò alle barchette di carta costruite tanti anni prima, e con quello spirito raccolse un pezzo di corteccia, vi mise sopra una foglia e la posò nella corrente. Preso da un impulso per il quale non provò la minima vergogna corse avanti fino al ponticello per vederla passare. Aiutò più volte la barchetta a disincagliarsi dalle sponde fino a farle raggiungere la foce. Così si ritrovò quasi senza accorgersene in un piccolo prato che digradava fino al lago, un angolo prezioso di mondo, lontano da ogni mondo. Si guardò intorno, una panchina, un salice ricurvo con i piedi a bagno, un’ampia insenatura nella linearità della costa, il silenzio assoluto se non per il cinguettio di passeri e merli, due anatre che sgambettavano in acqua reclamando cibo, la piccola radura chiusa alla vista da cespugli e alberi, il ruscello che proprio in punto di morte aveva acquistato una minima solennità slargandosi quieto nel lago. Ogni dettaglio era perfetto. Si sedette a braccia spalancate, lo sguardo che vagava trovando ovunque pace, la mente sgombra eppure densa di pensieri lenti come sogni, sono sceso fino al paradiso, il paradiso è in terra e in basso.
Si sentiva in una magica sintonia con l’ambiente e si chiese chi mai avrebbe potuto condividere la sua emozione senza riderne. Un breve vaglio e gli tornò in mente lei. La risucchiò da un tempo lontano fino a sentirla al suo fianco, immutata, fuori dal tempo ma dentro lo spazio, questo suo spazio ristretto. Piegò la testa verso destra e gli sembrò di vederla seduta lì, sorridente e incantata, lui stesso sorrise scostandole i capelli dal viso. Non aveva dubbi, solo lei era capace di entusiasmarsi con la medesima schiettezza ai giochi infantili e a quelli adulti, la vide inseguire festosa la barchetta di corteccia, schiudere i ricci di castagna a cercarne uno che fosse pari, immaginò come reali le sue domande da bambina, sono velenose queste bacche? e le sue richieste più indecenti, la candida determinazione con cui si era accovacciata, la spontanea complicità dei loro gesti, lui le accarezzava la fronte, lei alzava lo sguardo a incontrare i suoi occhi.
I grappoli violacei invitavano al gioco, Michele prese qualche bacca tra le dita e la schiacciò a farne uscire il succo color del vino. Con l’indice impiastricciato fece nell’aria dei gesti ampi e delicati, le stava pitturando i seni, lei non una parola di riprovazione, teneva scostati i lembi della camicia per non sporcarla e lasciava che il suo bambino giocasse con le piccole mele. C’era una parola che lei gli diceva spesso, monello, la sentiva anche ora, pronunciata in un soffio di complicità. Monello, ripetè Michele, ed era la voce di lei che si spargeva nell’aria. Chiuse gli occhi e si concentrò sul pensiero di lei fino a materializzarlo.
Lei si alzò e lo fissò limpida negli occhi, qui, oggi, ogni cosa è giusta. Si piegò in avanti afferrandosi con le mani allo schienale della panchina e lo attese serena, perchè aveva questa prerogativa dell’accoglienza che lo stordiva ogni volta. Entrambi si guardarono intorno, non per timore che sopraggiungesse qualcuno ma per fondersi con la natura circostante, loro erano erba, betulle, ruscello, lago, e nulla era sconveniente nell’incastro dei corpi, nell’affanno ritmato, nell’onda che montava sempre più alta, nei baci e nei morsi.
L’uomo le baciò la nuca, lei gli regalò un sorriso che lui non poteva vedere.
Un silenzio pacifico, Michele fissava un punto impreciso del lago assaporando il nulla che era appena successo. Il trillo del cellulare lo distolse dai pensieri, rispose a voce ferma. Buongiorno ingegnere. Sì, come le ho già detto stamattina, ho avuto un imprevisto con l’auto, ma ora è tutto risolto. Tra un’ora sono da lei. A più tardi.
Michele si alzò e a malincuore disse andiamo. Sembrava si rivolgesse a lei, la vedeva ancora lì. E in effetti in qualche modo c’era, perché ora che l’aveva ritrovata non l’avrebbe più persa. Di questo era certo e s’incamminò con un sorriso per ritornare al mondo.


Dove porta la neve, di Matteo Righetto




Dove porta la neve


Dove porta la neve quasi una favola «firmata» Righetto


La trama si sviluppa sotto Natale fra dolore, amicizia e rinascita




Chi aveva letto con piacere il toccante romanzo «Apri gli occhi» di Matteo Righetto, nei prossimi giorni troverà in libreria «Dove porta la neve» (Tea, pp. 147, euro 13), per alcuni versi una favola di Natale. Gli appassionati del genere ricorderanno come da Ch. Dickens in poi, l’argomento sia stato variamente trattato. E in Righetto prende una allure tutta particolare, dove il binomio profondità e delicatezza percorre la pagina da cima a fondo.
È la vigilia di Natale e Padova sta per essere coperta da una nevicata memorabile, così realistica che ne sentiamo le falde cadere sui nostri ombrelli e sui nostri cappotti. Carlo, Down , ormai quarantottenne, come ogni mattina da parecchi mesi, va a trovare in clinica Nora, la madre, che sta morendo lentamente, logorroica  nella sua agonia, dove racconta agli altri – in particolare alla sensibile volontaria dll’AVO Bianca, ma soprattutto a se stessa -, la cascata dirompente dei suoi ricordi.
«La neve era la cosa che amavo di più al mondo – le dice – Ogni anno aspettavo con gioia la prima neve (…) la amavo. Quando avevo tre anni o forse quattro anni, mia madre m’insegnò che la neve non era tutta uguale. Per noi, lassù, c’erano tanti modi per chiamare la neve. C’era la nevera, come si chiamava una nevicata grande e copiosa, c’era la zijena, cioè la neve asciutta e farinosa, c’era la mola che era la neve bagnata e pesante dell’autunno . . .».
Carlo, il Down, affezionatissimo alla madre, descritto con pochi teneri tratti ( quel suo ripetere infantile le ultime parole di una frase, quel suo restar bambino, seppur autosufficiente, per forza di cose, orfano del padre), incontra in maniera fortuita e stravagante il settantaquattrenne Nicola, abbandonato dalla compagna, in possesso di un’auto antidiluviana per età, addolorato di aver perso l’ultimo lavoretto di Babbo Natale davanti ad un centro di vendite, dove avrebbe avuto il compito, non ottemperato, di attirare clientela di bambini ai fini commerciali.
Carlo crede, ingenuamente, a Babbo Natale e quindi spera che Nicola abbia il potere di far avverare il sogno di un vero regalo per la madre. Contagiato dal suo entusiasmo, Nicola organizza un breve viaggio per realizzare il sogno dell’uomo/bambino. La sua malandata Fiat 124 si allontana da Padova, sotto l’imperversare della tempesta di neve e, dentro il gelido abitacolo due uomini soli e abbastanza incoscienti riscoprono il valore sublime di un abbraccio.
«La gente dice sempre: “Un abbraccio, ti abbraccio”, ma poi nessuno si abbraccia mai per davvero . . . Io vorrei vivere abbracciato!».
E noi vorremmo più libri di questa finezza, capace di commuoverci, senza leziosità. In epoca in cui la letteratura è cupa, labirintica, alla ricerca di colpi di scena, il padovano Matteo Righetto, classe 1972 sa farci sognare con intelligente semplicità.
Il suo «La pelle dell’ orso» è diventato un film interpretato da Marco Paolini, per la regia di Marco Segato, ed è uscito nelle sale a novembre 2016. I suoi libri sono tradotti in inglese e francese. E siamo certi che una luminosa carriera lo attenda con un caldo abbraccio. 


Grazia Giordani




La bolgia delle eretiche, di Marinella Fiume




La bolgia delle eretiche
di Salvo Zappulla


Marinella Fiume è una mia cara amica, e di ciò ne sono orgoglioso, quindi potrei sembrare poco obiettivo quando parlo di lei e dei suoi scritti, lasciarmi influenzare dall’affetto che provo nei suoi confronti. Ma così non è. Nell’ambiente scrittorio siciliano ci conosciamo un po’ tutti, simpatie e antipatie personali ritengo devono rimanere ai margini quando si scrive di un’opera letteraria, altrimenti tutto assume il contorno di una farsa. Questa premessa è d’obbligo prima di addentrarmi nel cuore de “La bolgia delle eretiche”, edito da Bonanno. Di Marinella ho letto gran parte della produzione letteraria e a ogni nuovo libro che pubblica non finisco mai di stupirmi della sua forza, della rabbia interiore da cui è animata per ristabilire verità nascoste, ingiustizie nei confronti dei più deboli. Così è stato per “Celeste Aida”, così è per questo nuovo romanzo. Ci sono donne nate per godersi la vita, aspirare alla quiete, al benessere materiale, alla serenità o, al limite, accontentarsi di vivere all’ombra di un marito. Marinella è nata guerriera, si erge a paladina di tutte le donne oppresse, donne che nel passato hanno lottato per affermare il proprio talento e la propria personalità; hanno lottato spesso invano, censurate da una società maschilista e bigotta, subendo restrizioni e condanne a morte. Non a caso in questo libro si parla di bolge e di eresia. L’Inferno è qui, sulla Terra. L’Inferno è nella mente degli esseri umani quando scaricano la loro brutale cattiveria contro altri esseri umani. Penso che la stessa autrice di questo libro se fosse vissuta nel Seicento non sarebbe scampata al giudizio severo della Santa Inquisizione. Marinella ha capelli rossi, sguardo magnetico, “vivacità” di linguaggio; idiosincrasia per le cose storte, tendenza a spiattellarti in faccia la verità, o almeno la sua verità. Insomma, le cose non le manda a dire. Se non strega, un po’ “mavara” lo è veramente.
Per fortuna è nata nel nostro secolo e ce la teniamo ben stretta.
Questo libro è un libro sofferto, scava nel dolore di donne innocenti, vittime dei peggiori soprusi; fantasmi che vagano nelle tenebre; fantasmi che non trovano quiete per la loro anima violentata. Mariannina Coffa, la fragile poetessa netina che null’altro chiedeva se non di poter incidere i propri pensieri su un foglio di carta; Peppa la cannoniera, analfabeta eroina risorgimentale, forse suo malgrado, inconsapevole strumento di una Patria maligna. E tante altre ancora: Suor Agueda, Francisca, Garronfola, Sofonisba. Tutte accomunate da un unico tragico destino. Tutte riportate alla luce da una scrittrice mai doma di scavare nel passato; mai doma di rendere giustizia a chi non ne ha avuto.




La bolgia delle eretiche – Marinella Fiume – A & B Editore – Pagg. 168 – ISBN 9788877284051 - Euro 15,00


La casa dei Krull, di Georges Simenon




La casa dei Krull – Georges Simenon – Adelphi – Pagg. 210 – ISBN 9788845931383 – Euro 19,00




Chez Krull




Scritto nel 1938 e dato alle stampe l’anno successivo,”La casa dei Krull”, torna ora in lingua italiana grazie ad Adelphi che continua a ripubblicare le opere del belga. Il romanzo oggi parrebbe quasi profetico rispetto alle sfide inclusive richieste alle nostre entità statali, ma prima alle nostre menti e ai nostri cuori, dai continui flussi migratori, dal cosmopolitismo crescente, dalla stessa globalizzazione. Eppure , preferisco darne una lettura prettamente letteraria e non politica, geopolitica, antiamericana, non c’è bisogno … all’occorrenza basta guardare casa nostra. O meglio entriamo a casa dei Krull accompagnati da un cugino tedesco che sta arrivando in taxi e che con la sua presenza, con la sua condotta o più semplicemente con il suo sguardo lungo, mette a repentaglio delicati equilibri consolidati nel tempo eppure fragili come un vetro filato.
I krull sono dei crucchi, abitano in un paese del nord della Francia, in una dimora al limitare dell’abitato, lungo una triste prospettiva scandita dalle chiuse di un canale navigabile. Possiedono un emporio e Cornelius, il capofamiglia, ha un laboratorio annesso nel quale si dedica all’intreccio del vimini. È la moglie a gestire la merceria che viene frequentata, insieme alla mescita per la compravendita di alcolici al banco, soprattutto dalle mogli dei cavallanti, i quali con le loro famiglie vivono in chiatte semigalleggianti al limite della società. I vicini di casa dabbene preferiscono servirsi altrove. La famiglia si completa di tre figli: un giovane laureando in medicina e due ragazze, dedite al cucito e allo studio del pianoforte. L’arrivo del cugino Hans, figlio del fratello di Cornelius, rompe la monotonia di una casa nella quale tutto pare essere cristallizzato e coincide, dopo poco tempo, con il barbaro assassinio di una ragazzina. In un crescendo di tensione la famiglia si ritrova coinvolta nell’omicidio, vero capro espiatorio di una comunità che fatica ad integrare il diverso. Protagonista assoluta della rappresentazione- lo scritto vive di una teatralità necessaria e assai funzionale- è la gente, quell’insieme di identità indefinite capace di tutto, cui fa da contraltare proprio il giovane Hans che con il suo fare disinvolto, con la sua superiorità mentale, con la sua furbizia da mascalzone, mantiene integra la propria identità schierandola apertamente non dalla parte del decoro civile. Paradossalmente sarà colui che, a conti fatti, uscirà integro da una vicenda capace di sconvolgere un’intera famiglia, quella dei suoi parenti più prossimi. Al contrario il cugino, suo coetaneo, schiacciato da un vissuto di inadeguatezza, dovrà ricostruire la propria identità, forse già scritta …
Essenziale, perfetto, lucido, spietato, il romanzo si attesta come l’ennesima prova di bravura nella quale i tratti incisivi sono i movimenti scenici , gli ambienti perfettamente descritti, la fusione di questi due elementi usati indirettamente per rappresentare pensieri, emozioni, tensioni, silenzi , rumori , tutti fondamentalmente sospetti.


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La casa di Giada, di Madeleine Chapsal




La casa di Giada
di Madeleine Chapsal
© 1989 TEADUE Pag. 333 € 4,50
ISBN 88-7819-118-3


Che cosa succede quando finisce un amore?
Questa frase è stampata sotto il titolo del romanzo.
A dire il vero non amo i romanzo d’amore, non fosse che ho trovato questo libro in uno scatolone di altri romanzi che mi hanno donato, non avrei mai pensato di acquistarlo.
L’ ho letto e la conclusione è stata: questa scrittrice è favolosa!
È difficile, a volte impossibile, riuscire a scrivere un romanzo d’amore senza cadere nella banalità. Nel già scritto, nel già sentito.
Ebbene, la Chapsal riesce a catturare il lettore in un vortice di emozioni che spaziano dal prima, al dopo, all’ora.
Il romanzo è scritto in prima persona dalla protagonista, che, come ci assicura la scrittrice, è un personaggio di fantasia.
La protagonista sta scrivendo la sua storia dopo aver tentato il suicidio.
Scrive della sua storia d’amore, un amore assoluto, quasi riportato scarnato fino alle ossa per mostrarcelo in tutti i suoi momenti e le sue sfaccettature.
Ci parla di una donna che ha rinunciato a se stessa per questo amore, accettando anche i tratti violenti di un uomo insicuro e pieno di problemi.
Eppure parla d’amore.
Quando questo amore non serve più a lui, la protagonista viene cacciata, umiliata, annullata, cancellata.
La scrittrice ripercorre, scrivendo insieme alla protagonista, tutte le tappe di questa lunga storia d’amore, fino alla sua conclusione, alla sua consumazione.
È scritto in una maniera mirabile, intenso da leggere per le donne, necessario da leggere per gli uomini.
Come troviamo scritto: “…l’analisi lucida e impietosa del suo dolore diventa un romanzo appassionato, tanto vero da poter essere la storia di ognuno di noi”.
Non è un libro recente, è datato 1989, ma è attualissimo e assolutamente ricco.


© Miriam Ballerini


Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie?, di Mariangela De Togni




Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie?
di Mariangela De Togni
Prefazione di Rosa Elisa Giangoia
Fara Editore
Poesia
Pagg. 56
ISBN  978 97441 88 5
Prezzo Euro 10,00




L’essenza di Dio




Di Mariangela De Togni avevo già letto un’altra silloge (Frammenti di sale), che mi aveva colpito in modo particolare per l’abbandono mistico che la caratterizzava, frutto di interazione con il Creato, una sorta di sensazioni ed emozioni derivanti non solo dall’osservazione della natura, ma dalla continua ricerca di compenetrarsi in essa. Stupore, meraviglia, ma soprattutto una grande serenità emergevano dai versi delle sue poesie. Anche in questa nuova raccolta ho potuto constatare quanta gioia interiore traspaia nelle singole poesie e come l’autore abbia saputo cogliere indirettamente l’essenza di Dio in tutto ciò che naturalmente ci circonda. Non si può che essere partecipi di questa emozione quando ci si accosta a versi come questi: “Si fece leggera la sera / nel penetrare l’ombra /della volta antica, / i candelabri accesi / dall’oro del tramonto. /...”. Di fronte ai miei occhi si è materializzata un’immagine ieratica, ma al tempo stesso semplice, quale può essere quella dello spettacolo di un tramonto, e mi sono sentito pervaso da un romantico languore, mi sono sentito trasportare in un’altra dimensione diversa da quella del mondo frenetico a cui appartengo. Nulla sfugge all’analisi della poetessa e così anche il tempo, il fuggevole tempo, diviene protagonista (Fugace il tempo / appare come sospeso / fra bianchi petali di pruno / in contrappunto / al silenzio dei cipressi. /…). Credo proprio che Mariangela De Togni abbia colto l’essenza di Dio, quel Suo esserci ovunque, nell’umile fiore come nella cima innevata, una presenza che si può avvertire a ogni passo, purché lo si voglia, purché non si dimentichi che anche noi siamo parte della natura, in un equilibrio talmente perfetto, in un disegno talmente complesso che se ci risulta troppo difficile per capirlo, però ci consente di gioirne perché anche noi vi rientriamo. E sono dell’idea che in una specifica poesia di pochi versi Mariangela sia riuscita a sintetizzare tutto il suo pensiero. Si tratta di Il mio cuore (Il mio cuore é rimasto / fra le onde del mare. / Conchiglia piena / della sua voce.) E in questo cuore immenso c’è tutto il mondo, lei compresa, e c’è anche Lui, il Dio Creatore di tutto.
Da leggere, senza dubbio.




Mariangela De Togni, nata a Savona, è suora delle Orsoline di Maria Immacolata (Piacenza). Insegnante, musicista, studiosa di musica antica. Membro dell’Accademia Universale “G. Marconi” di Roma, ha pubblicato le raccolte di versi: Non seppellite le mie lacrime (1989), Nostalgia (1991), Una Voce è il mio silenzio (1995), Chiostro dei nostri sospiri (1998), Profumo di cedri (1998), Un saio lungo di sospiri (2000), Flauto di canna (2004), Nel sussurro del vento (in Quaderni di Letteratura e arte, 2005), Le visioni del Verso (2008), Cristalli di mare, Fiori di magnolia, Frammenti di sale (2013). È presente in agende, antologie e riviste di poesia contemporanea. Numerosi i premi e le segnalazioni di merito.


Renzo Montagnoli


MondoBlog del 6 aprile 2017

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