mercoledì 11 ottobre 2017

Amo così tanto il mare, di Carla De Angelis




Amo così tanto il mare
di Carla De Angelis






Amo così tanto il mare
che vedrei azzurra anche la morte
se mi cogliesse mentre nuoto
verso l’altra sponda


da Mi fido del mare (Fara, 2017)

La colonna sonora, celeberrima:



Autunno, di Mariangela De Togni






Autunno
di Mariangela De Togni




Alte cime guardano
con occhi di neve e sole,
ancora alte nella loro brevità
di cielo e arrese,
alla lentezza profumata
dell’autunno.


Da Frammenti di sale (Fara Editore, 2013)

La colonna sonora è ad hoc:




E poi è il silenzio, di Renzo Montagnoli





E poi è il silenzio
di Renzo Montagnoli




Nel caldo del giorno
l’aria immota
il cielo vetrificato
s’alza sommesso
un suono lontano.


Un’unica nota
un la che vibra assai piano
ma poco a poco
nel sole che scende
e lascia il posto alla sera


s’accompagna a un brusio
di insetti notturni
un coro smorzato
di bocche ben chiuse.
Ha un tono costante
quell’unica nota


ora potente
in crescendo di forza
è un canto d’addio
al giorno passato
che si spegne nell’eco
di quell’unico suono.


E poi è il silenzio
le luci ormai spente
la gente che dorme
il buio che in punta di piedi
avvolge ogni cosa.


E’ notte ormai fonda
ognuno riposa
ma lavora la mente
è giunto il momento
per infine sognare.




Da Lungo il cammino


La colonna sonora non poteva che essere questa:




La mia terra, di Vincenzo D’Alessio





La mia terra
di Vincenzo D’Alessio




La mia terra ha capelli
spettinati di donna acerba
faggete colme di aquiloni
siepi al sole.


Acqua che spira da caverne
pendici di castagni neri
noccioli avvinti al laccio
della luna. Fanciulla pura


che spia l’infinito, grave
di rocce sui crinali
secolare nelle chiese
di campagna. Ti amo


quando spremi
i succhi di settembre
come la sorte che segni
nella pace clandestina.





Da 
La valigia del meridionale e altri viaggi (Fara Editore, 2012)


La colonna sonora:






C’era una volta un re, di Marina Pasqualini






C’era una volta un re
di Marina Pasqualini




C’era una volta un re, che aveva vissuto la sua vita nell’agiatezza, ma aveva anche conosciuto periodi di povertà, prima di diventare re. Aveva conosciuto la prigione, ma non quella con le sbarre di ferro, bensì di un tipo ancora più doloroso, che era fatta con i limiti della sua mente. E poi la libertà, che ora gli esplodeva nel petto. Questo re aveva conosciuto tutto e il contrario di tutto, ed un bel giorno, affacciato alla finestra del suo palazzo, si fece una domanda, che lo lasciò interdetto: “Ma io cosa desidero davvero, e soprattutto, ho ancora desideri?”. Allora scavò nella sua mente e nel suo cuore, ma non ne trovò. Era come se un cerchio, alle sue spalle, si fosse chiuso, e lui non sapesse che farsene del tempo che si presentava al suo cospetto e che esigeva di essere vissuto al meglio. Rimase ore a contemplare il cielo, gli alberi, i fili d’erba e gli uccelli che volavano ignari dei suoi pensieri, dei suoi interrogativi. Temette che, se non avesse trovato una risposta, la sua vita futura avrebbe potuto snocciolarsi ed avvolgersi su se stessa, senza un vero scopo, senza sale e senza entusiasmo. Non era né triste né felice. Esisteva e basta, in quei lunghi momenti in cui si chiedeva: “Se mi chiedessero di esprimere ora un desiderio, anche il più improbabile, non saprei che dire” E questa cosa gli sembrava davvero molto grave. Ma niente, il tempo passava, quello strano giorno che aveva tutta l’aria di una resa dei conti, di un inventario, e nessuna ipotesi gli si affacciava alla mente. Poi, all’improvviso, si accorse che sì, un desiderio ce l’aveva, ed era quello di desiderare. Si vestì allora con abiti dimessi, liquidò le guardie, e si diresse fra la sua gente. Era giorno di mercato, i colori, i suoni e i profumi erano accesi, e parlavano di vita. E si mise ad osservare…C’erano i venditori che a squarciagola chiamavano probabili clienti, desiderando vendere loro le loro mercanzie. C’erano dei poveri che desideravano ricevere elemosine. C’erano bambini che per il solo fatto di esserlo, bambini, erano già felici. E il re si ritrovò a sorridere, contagiato da tale e tanta semplicità. Come invidiava i suoi sudditi, in quel momento, avrebbe quasi voluto essere uno di loro, per essere pervaso dal fuoco del desiderio, che in lui pareva ormai spento. A sera, il re dovette tornare nel suo palazzo, i suoi doveri lo reclamavano. Ma quella notte non chiuse occhio o, se lo fece per brevi momenti, sognò il mercato con le sue luci e il suo vociare, e si vide là in mezzo, uno dei tanti. Passarono i giorni ma il re non potè mai scordare le sensazioni provate in mezzo alla sua gente semplice. Si immaginò il resto della sua vita in mezzo agli agi, ai suoi cortigiani ben vestiti, alle sue suppellettili d’oro. Si chiese se mai qualcuno lo avesse amato e rispettato per il solo fatto di essere lui, e non un re da temere e osannare. Ma questo non avrebbe mai potuto saperlo, se lì fosse rimasto. Scrisse una lettera, quella notte, ove annunciò di voler abdicare, raccolse pochi abiti e pochi denari, e lasciò il palazzo reale. La sua vita senza desideri gli stava ormai stretta, e sentiva che era priva di senso. Lo aspettava un futuro incerto, ma nel preciso istante in cui si incamminava verso la sua nuova vita, sentì come uno sfarfallio d’ali in pectore: il fuoco nel camino del suo cuore si stava riattizzando e la sua età sembrò non avere età. Lo attendeva la leggerezza dell’imprevisto. E divenne finalmente re, sovrano della sua vita.






Con la veletta sugli occhi, di massimolegnani





Con la veletta sugli occhi
di massimolegnani




Amavo in lei il furore e il distacco nel piacere, i gusti raffinati, la smania di tormentarsi l’anima e quell’acquietarsi improvviso in un equilibrio raro. Amavo il suo infuocarsi in una partigianeria smaccata, lo scegliere d’impulso il lato su cui stare e quel suo starci poi con convinzione fino al prossimo tormento dello spirito. Amavo l’eleganza dei suoi gesti erotici, le serissime invenzioni dell’istinto, e soprattutto amavo il suo pudore nascosto sotto una sfrontatezza in crosta. Amavo il modo strano del suo amore e la sua rabbia quando ero troppo tiepido. 
Sì, amavo in lei tutto ciò che mi era differente, l’incolmabile distanza dal mio mondo: io, previdente e prevedibile, non facevo un passo che non fosse ponderato, lei che se la guardavi camminare accanto a te, non potevi indovinare il passo successivo. 
Lei una specie di ossimoro, io una frase correttamente piatta. 
Come poteva durare? Ma soprattutto come era potuta cominciare? 
Ancora mi stupisco. 
Quella sera, nel caos di una festa a casa di amici comuni, l’avevo persa quasi subito di vista. La ritrovai in terrazza che beveva vino bianco al buio. Era vestita in modo eccentrico. Per rompere il ghiaccio feci una battuta, quegli scarponcini di vernice nera su una gonna lunga e vaporosa erano un contrasto davvero eccessivo. Lei senza voltarsi mi sibilò un Piantala secco e definitivo. Non mi offesi e per puntiglio restai lì al suo fianco senza ribattere. Mi appoggiai anch’io alla balaustra e per un tempo lungo ci spartimmo il silenzio e lo sguardo sperso sulle luci delle macchine che lontane risalivano la valle. 
Quando finalmente i nostri occhi s’incrociarono, in un soffio caldo mi disse Portami via di qua. Ce la filammo mano nella mano, scendendo le scale a balzelloni, improvvisamente allegri. 
Si fece loquace nel nostro peregrinare insoddisfatti da un luogo all’altro. L’ascoltavo volentieri raccontarmi, seduti in un locale di quart’ordine, la delusione dell’esame d’italiano alla maturità, come fosse accaduto ieri e non vent’anni prima, e poi spiegarmi la posizione delle stelle mentre eravamo sdraiati sull’erba a San Michele. Tentai di baciarla ma lei mi disse un no tranquillo, riprendendo a parlarmi di Sirio e Orione. Rinunciai ad altre iniziative e mi adeguai al ritmo della notte scandito dalle sue parole e dai suoi silenzi. 
Però non mi sorpresi quando mi disse “Andiamo a casa mia, come fosse l’unica cosa logica da fare. 
Eravamo già nudi, quando lei si staccò da me e sparì in un’altra stanza. Riapparve poco dopo con un cappello in testa dalla foggia antiquata, di quelli minuti e tondi come una ciambella che qualcuno ancora usa ai matrimoni. 
Nuda, con il cappello in testa, poteva sembrare ridicola, ma io non risi. Intuivo una serietà speciale in quell’incedere solenne. Senza parlare risalì dai miei piedi come fosse fiume il mio corpo e lei il salmone che ritorna. 
A cavalcioni su di me abbassò lentamente la veletta sul viso. 
Perchè? le chiesi dispiaciuto.
Mi rispose con dolcezza: I miei occhi, la mia bocca, troppa timidezza, non reggerebbero il tuo sguardo. 
E mi amò in un silenzio rotto unicamente dai miei gemiti stupiti.


Un pezzo di vita, di Gavino Puggioni





Un pezzo di vita
di Gavino Puggioni




Da bambino abitavo nella mia Finagliosu, uno stazzo situato nell'entroterra fra Stintino e l'Argentiera, non distante da Porto-Torres, l'antica Turris Libisonis di epoca romana.
Quel posto era ed è stato il paradiso della mia infanzia, perduta, ahimè! e ritrovata assai dopo, in quella memoria, mia e nostra, che ha milioni di megabyte che sono ancora, scientificamente, da scoprire.
Di quel paradiso ho ricordi nitidi anche di persone che cercavano di arrivarvi, non tutte buone...molti cattivi, molti maligni, pure raccomandati, per fare i custodi di greggi o per costruire un pozzo o, alla fine, per una semplice battuta di caccia e non solo al cinghiale.
Ma io, da bambino, di queste cose non sapevo niente, credevo di vivere la terra, dentro la terra, quella vera, fatta anche di fango, quello naturale, quello che, a volte, mi sporcava irrimediabilmente le scarpine pulite che si calzavano una volta alla settimana per andare alla Messa domenicale, nella chiesa di San Costantino, a La Pedraia, distante un paio di chilometri, percorsi sempre a piedi, col sole o la pioggia, ai margini di un campo di grano o avena, subito dopo riparato da un tranquillo boschetto di ulivi, oleandri, piante di mirto e querce secolari.
E il cielo sopra, grigio, azzurro o come Lui voleva, mi diceva nonna Feffa che di tempo e di nuvole se ne intendeva, altro che Bernacca!
A qualche chilometro di distanza c'era la miniera di Canaglia, solo ferro, e dopo, ancora, adagiato verso il mare, l'antichissimo borgo dell'Argentiera, miniera di blenda e argento, adesso residuato archeo-industriale, in cerca di altra luce che spero venga a risplendere assai presto.
Ricordi? Certo e anche ricordi bambini perché tali si era in quella natura ancora incontaminata dove nonna Feffa, gli anziani e babbo, seppur giovane, erano i fari sempre accesi, per una vita, la mia, la nostra, per tante vite che si stavano aprendo alla terra, quella terra dalla quale, pochi anni più avanti, avremmo dovuto “fuggire” per colpa del...Fato avverso, oggi presente ma sempre latente.
Ho vissuto in quello stazzo gli ultimi anni di quel “fascio” di vita, non ho e non abbiamo patito la fame, la sete e la miseria di quella guerra, nemmeno persecuzioni. Semmai, tutto il contrario, in quell'oasi, e non era la sola, poiché la campagna era fertile e donava i suoi frutti, era coltivata nel rispetto delle stagioni, popolata da tanti contadini che l'amavano e la rispettavano e babbo era uno di quelli, orgoglioso del proprio lavoro e di donare ad altri quel che loro veniva piano piano a mancare.
Entrambe le miniere, quella di Canaglia e dell'Argentiera, lo venni a sapere dopo, erano obiettivi possibili per bombardamenti nemici, come d'altronde l'Asinara e il porto commerciale di Porto-Torres, e questo per togliere ricchezza che produceva, oltretutto, anche estrema miseria umana, regalata a quegli operai per lavorare ed esserne anche degni e fieri... (lasciamo perdere, per carità!..)
E allora succedeva che, da quelle miniere, due o tre volte alla settimana, forse di più, non ricordo bene, ora, partiva “l'allarme”, sibili prolungati di sirene (mai odissee!) che creavano il massimo panico fra gli adulti perché tutti si aspettavano bombardamenti a raffica, esplosioni e distruzioni di quel poco che esisteva ma che era tantissimo per noi.
L'allarme durava una trentina di minuti durante i quali babbo, mamma, nonna e tutti gli altri si andava di corsa verso una collinetta vicina, alla cui base c'era e c'è ancora una grande grotta di roccia granitica, chiamata “la curona di ri faddhi”, domus de ianas di allora, (la corona delle fate) e là, dentro, decine e decine di persone si rifugiavano, in attesa di quegli eventi tragici che grazie al cielo non sono mai avvenuti. Solo paura, terrore, spavento, anche se a noi, bambini, niente sembrava stesse accadendo se non l'incanto e la meraviglia di vedere tante persone, lì radunate, a guardarsi in faccia, chi a parlare, chi a pregare e si vedeva anche qualche rosario sgranellato da fragili dita di altre nonne assieme alla mia che l'aveva sempre in tasca del grembiule da cucina.
Qualche tartaruga si avvicinava alla grotta, girava tra di noi, non aveva paura, brucava steli verdi e teneri assieme agli amici passerotti mentre alcuni cani, Fido, Nerone, Mani Bianca, ci facevano da guardia ma non capivamo da chi.
Quando l'ultimo dei tre sibili di sirena cessava di farsi sentire, un boato di voci, un battimani all'unisono, quasi una liberazione, gli occhi puntati al cielo terso e...via!, tutti fuori da quella grotta, pacche sulle spalle, qualche abbraccio, perfino lacrime da occhi di coloro che in quella guerra avevano già perso un padre, un fratello, un amico.
E allora, noi bambini, di nuovo liberi, incontrollati in quella campagna, giù nel sentiero che portava fino a casa, fino al patio grande dove svettava il mio olmo, un gigante della natura, vecchio di oltre cent'anni, testimone di altre vite ed ora della nostra, della mia, rimasta nella sua ombra per sempre.






Augustus, di John Williams





Augustus
di John Williams
Castelvecchi Editore
Narrativa romanzo
Pagg. 384
ISBN 9788868260187
Prezzo Euro 17,50




Il prezzo del potere






In attesa di poter leggere il ben più noto Stoner ho ripiegato (ma il termine è eccessivo, come emergerà con il mio giudizio) su Augustus, un romanzo storico sul primo degli imperatori romani, su quell’Ottaviano successore designato di Giulio Cesare. L’autore, molto opportunamente, riporta in una nota all’inizio dell’opera una precisazione con cui evidenzia che, per quanto abbia cercato di rispettare rigorosamente gli eventi e i personaggi, così come pervenutici dalla storia, ha dovuto, per esigenze letterarie, commettere errori voluti, inventare fatti, creare personaggi che forse non sono mai esistiti. In buona sostanza ha ritenuto doveroso evidenziare che non si tratta di un saggio, di una biografia, bensì, a tutti gli effetti, di un romanzo storico. La metodologia adottata per parlarci di Augusto è la più varia, ricorrendo a epistole di Cicerone, a brevi brani degli Atti di Augusto e al frammento di un libro perduto della Storia di Tito Livio conservato da Seneca il Vecchio. Comunque siano state le fonti quello che mi preme evidenziare è che Williams è riuscito a darci un ritratto realistico di quello che fu Augusto, inserito perfettamente nel suo contesto storico che ci consente anche di avere un’idea, non vaga, e nemmeno allo stato di ipotesi, di quella che doveva essere realmente la società romana, dei giochi di potere che fermentavano, che dividevano, che minacciavano l’esistenza stessa di Roma, una sorta di politica nefasta e corrotta che presenta straordinarie analogie anche con l’Italia d’oggi. Ottaviano, poi divenuto Augusto, è un uomo esile, dalla salute cagionevole, ma dalla fortissima e determinata personalità, un protagonista assoluto che saprà sbarazzarsi degli assassini di Cesare e poi del rivale Marco Antonio, assicurando a Roma un lungo periodo di quiete e di prosperità. L’uomo più potente della terra, un Dio in terra, è in realtà un abile e accorto politico, che, al di fuori di quella che è la gestione dello stato, ha solo due passioni: la moglie Livia e la figlia Giulia. Per quanto le ami dovrà sacrificarle alla ragion di stato così che questa stella di prima grandezza, che splende di fuori agli occhi di tutti, è in effetti un essere profondamente infelice, che resterà progressivamente solo con la dipartita degli amici fidati, da Agrippa a Mecenate, all’adorato Virgilio. Questa intima malinconia è resa in modio splendido dall’autore, che ha anche avuto l’idea accostare la solitudine della potenza con la serenità degli esseri umili. Al riguardo le pagine in cui si descrive l’incontro, per le vie di Roma, di Augusto con Irzia, che gli fu compagna di giochi e amica quando entrambi erano bimbi, ora una donna un po’ più anziana, non ricca, ma nemmeno povera, amata dai figli, baciata da una serenità contagiosa anche se avverte prossima la dipartita, sono forse le migliori del romanzo. Augusto riconosce l’amica, che lo chiama, come da bambina, Tavio; prova gioia, pur nella malinconia che lo permea, e i due parlano, prima del passato, poi del presente. “Ho dato a Roma una libertà di cui io solo non posso godere”. “Non hai trovato la felicità, dissi io (Irzia),nonostante tu l’abbia data.” .”Così è stata la mia vita”. Si scambiano altre parole e al momento del commiato Augusto poggia le labbra sulla guancia di lei. Credetemi, raramente mi è capitato di leggere pagine in cui il contrasto fra l’aridità del potere e la pace della vita semplice sono state rese così bene. Credo che Williams sia riuscito a carpire dopo tanti secoli la personalità di Ottaviano, e non solo quella, ma anche le altre di Mecenate, di Orazio, di Virgilio e della sua piccola cerchia di amici. Quando parlano sembrano vivi, non si ha cioè quella sensazione di parole messe in bocca a chi non può pronunciarle e forse accade questo perché ci siamo lasciati avvincere dall'opera e ora siamo in lei, camminiamo sul selciato del foro, ascoltiamo le gare poetiche di Orazio e di Virgilio, siamo accanto ad Augusto nei rari momenti di gioia con la moglie e la figlia, lo seguiamo in punta di piedi mentre con passo sempre più stanco si avvia verso la soglia dell’Ade.
Augustus non è stato di certo un ripiego, visto che lo considero un capolavoro.






John Williams (Clarksville, 1922 – Fayetteville, 1994)
Romanziere, poeta e accademico statunitense, dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale prende parte in qualità di sergente dell’aeronautica in India e in Birmania, studia all’Università di Denver. In questo perdio pubblica i suoi primi lavori: il romanzo Nothing But the Night (1948) e il libro di poesie The Broken Landscape (1949), che sarà seguito nel 1965 da una seconda raccolta: The Necessary Lie. Nel 1954 ottiene il dottorato di ricerca in letteratura inglese all’Università del Missouri e, nel 1955, torna all’Università di Denver come docente di scrittura creativa. Nel 1960 pubblica il suo secondo romanzo Butcher’s Crossing, seguito nel 1965 dal celebrato Stoner. ha curato le antologie English Renaissance Poetry (1963). Ha fondato e diretto fino al 1970 la rivista «University of Denver Quarterly». Muore nel 1994, lasciando incompiuto il suo quinto romanzo, The Sleep of Reason.


Renzo Montagnoli




Viaggi. Racconti mediterranei, di Laura Vargiu





Viaggi. Racconti mediterranei - Laura Vargiu - L’argoLibro – Pagg. 94 – ISBN 978-88-98558-60-5 – Euro 12,00




PERIPLO MEDITERRANEO




Conoscenza diretta di luoghi e culture traspare da questa raccolta di racconti, secondo lavoro editoriale della scrittrice sarda Laura Vargiu. Il primo di essi richiama subito Ibn Battouta , uno dei più grandi viaggiatori di tutti i tempi, marocchino del XIV secolo sconosciuto a chi ha studiato la storia in prospettiva eurocentrica e conosce a malapena Marco Polo; entrambi hanno lasciato le loro corrispondenze dall’estero. Così parlava di sé il viaggiatore di Tangeri: « Sono partito da solo, senza compagni con cui potessi vivere a stretto contatto, senza una carovana di cui potessi fare parte; era come se fossi spinto da un forte impulso dentro di me e dal desiderio nascosto nel mio cuore di visitare quegli illustri santuari. Quindi decisi di separami dai miei cari, donne e uomini, e abbandonai la mia casa come gli uccelli abbandonano i loro nidi. Mio padre e mia madre erano ancora vivi. Mi rassegnai a separarmi da loro, e questo fu per me come per loro causa di dolore. »
Il viaggio dunque al centro di queste brevi narrazioni, sintetiche ed efficaci come nel lavoro d’esordio della sarda. L’omonimo di Ibn Battouta in una Tangeri moderna , dilaniata dal profano orizzonte costellato di antenne televisive, sogna anch’egli la partenza, il riscatto chissà se il suo sogno sarà più forte delle sue radici, della sua appartenenza. Talvolta (“La partenza”) il partire è segnato da un destino di guerra non voluto né cercato, né bagagli né mete certe attendono i soldati destinati ai campi di prigionia dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia. Si passerà il mare, l’Africa attende. Andate e ritorni tra le sponde di uno storico e triste e melmoso bacino: oggi galleggiano altre esistenze, gaudenti in imbarcazioni di lusso, piangenti e moriture sbalzate da un misero legno sovraccarico. Bello anche il terzo racconto (“Frontiera”) nel quale la precarietà dell’esistenza è segnata da un passaggio di confine , estremamente regolamentato, sospetto, pericoloso laddove il desiderio di chi viaggia è solo viaggiare, conoscere, capire. Ma si può capire la guerra?
Altre volte la partenza può essere ostacolata da eventi imprevedibili che ingabbiano le persone permettendo loro però di conoscere meglio la realtà nella quale vivevano da stranieri, è il caso di “ Giovanni Azzolini, nativo di Felino, piccolo centro nel Parmense, inviò ai familiari l’ultima lettera dall’Algeria, dove era emigrato per lavoro, comunicando loro di essere in partenza per la Francia e promettendo di scrivere il prima possibile” ma di lui non si seppe più nulla; gli regala un destino di umana comprensione e accettazione mista a nostalgia per la patria il racconto alle sue vicende ispirato.
Tra i racconti spiccano anche delle epistole e non a caso: una richiama il viaggio infinito di chi è costretto a migrare e tenta di assimilare una cultura diversa dalla sua per permanere in un Paese ospitante che lo ripudia come cittadino e lo condanna all’eremitaggio perpetuo, viaggio infinito appunto alla ricerca di una convivenza che chi ospita non ha l’intelligenza di elaborare. Un’altra, molto interessante, è di un bambino egiziano che immigrato in Italia si rivolge ai suoi coetanei parlando loro del Natale, dimostrando di conoscere i riti cristiani perché già condivisi nel suo Paese natale con l’amico cristiano copto. Affida alla lettera una semplice richiesta: né telefoni cellulari, né giochi elettronici solo che sparisca la crisi economica che potrebbe togliere il lavoro al padre.
La dimensione del viaggio assume poi i contorni teneri quando sono i bambini ad agognarlo semplicemente per far ritorno ai loro Paesi d’origine anche se solo per le vacanze (“Emigranti”) o quando ancora diventa un modo per ritrovare se stessi e rimanere fedeli alla propria anima (“Il ciclista palombaro” , “Bosa”).
Le narrazioni si alternano in una piacevole lettura in passaggi temporali che permettono di ricordare episodi significativi e taciuti di infiniti drammi umani legati al secondo conflitto mondiale o ancora di riemergere nelle difficoltà del presente quando protagoniste sono giovani ragazze, acculturate ma disilluse da una precarietà esistenziale la cui cifra più alta si specchia nella precarietà lavorativa o in rapporti interpersonali difficoltosi.
A conclusione un’estrema partenza, quella di una nonna tanto amata.
Sto scoprendo una narratrice di talento, pochi tocchi capaci di toccare l’animo, se fossi in lei tenterei un romanzo di ambientazione contemporanea, ne sarebbe sicuramente capace, sulla scia di alcuni suoi racconti contenuti in questa raccolta; molti di essi sono stati premiati del resto …




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