giovedì 18 ottobre 2018

Il brutto in salsa aurora, di massimolegnani







Il brutto in salsa aurora
di massimolegnani




Assomigliava a una clavetta da ginnasta o se preferite a un birillo da bowling, insomma immaginate una testa e un tronco sottili, seguiti da un addome svasato, che si slargava verso il basso come per un peso sopraffatto dalla forza di gravità. Di buono c’era che l’aspetto non era peggiorato negli anni, il grave però era che partiva da una situazione disastrosa dalla quale non s’era più schiodato. Un cranio piccolo ed un naso lungo ed affilato erano i tratti salienti, ma non si deve tralasciare il mento aguzzo e la forte miopia che lo costringeva a portare due fondi di bottiglia al posto degli occhiali, elemento questo che contribuiva a conferirgli un’aria poco intelligente. Ma cretino non era, tant’è che era ben conscio del proprio aspetto poco attraente. 
Quando aveva iniziato ad insegnare, per acquistare un minimo di autorevolezza, s’era lasciato crescere una barbetta che era risultata da subito recalcitrante a svilupparsi correttamente. I suoi studenti avevano ben presto notato il comportamento bizzarro del suo apparato pilifero: a mano a mano che l’onore del mento e delle guance cresceva a cespuglietti sparsi, con il medesimo ritmo si diradavano i capelli.
Il nostro professore aveva di certo un nome, ma i suoi colleghi lo avevano dimenticato da quando lo avevano visto pranzare alla mensa scolastica: lui s’ingozzava come un tacchino poco prima di natale e aveva un modo così maldestro di portare il cibo alla bocca che spesso lo perdeva per strada o gli si incagliava tra barba e baffi, lasciando sul volto e sugli abiti enormi aloni indecorosi. Così gli avevano appiccicato il nomignolo di Brutto in salsa aurora che per praticità di volta in volta veniva abbreviato in Brutto o in Aurora a seconda che si volesse rimarcarne l’aspetto desolante o l’atteggiamento troppo schivo che faceva sospettare torbidi retroscena. 
Il Brutto aveva accettato passivamente il suo destino, rassegnandosi presto ai pranzi solitari in mensa e alle ore di lezione trascinate con fatica fino alla campanella. In pratica il nostro professore mirava ormai alla pensione, unico mezzo per potersi prospettare una vita differente. Ma la vita, si sa, non ammette la prevedibilità e spesso di fronte a un’esistenza troppo piatta s’inventa la bizzarria di un’impennata. 
Quando la nuova insegnante d’italiano, arrivata da pochi giorni nella scuola, depose il vassoio di fronte al suo dicendo permette?, lui non capì nemmeno che cosa avrebbe dovuto permettere. Quando poi questa, sedendosi, aggiunse piacere, Aurora, il professore pensando all’ennesimo scherzo dei colleghi reagì di mala grazia e, anziché rispondere pronunciando il proprio nome, infilò in bocca, e nei paraggi, un’enorme forchettata di spaghetti. 
Ma il giorno seguente Aurora era di nuovo lì al suo tavolo. 
Difficile dire se fosse una bella donna, perché gli occhi con cui noi la vediamo sono quelli del Brutto che non erano indubbiamente molto obbiettivi, poco avvezzi alla bellezza e troppo stupefatti per poterlo diventare in questo frangente. Di certo era una persona di carattere, di quelle che mal sopportano che gli altri, soprattutto in un ambiente nuovo, diano dritte precise su chi è simpatico e chi no, e ci possiamo immaginare come le fosse stato descritto il collega di fisica. Così Aurora di pranzare al suo tavolo ne aveva fatto una questione di principio. Ma questo il Brutto non lo sapeva, gli era piombata una ragazza nel piatto e dopo un iniziale sbigottimento aveva deciso di non chiedersi da dove fosse piovuta e perché. Del resto Aurora aveva progressivamente dimenticato il motivo iniziale che la portava ogni giorno a quel tavolo, cominciando a interessarsi sul serio a quel tipo bizzarro e in qualche modo simpatico. Lo trattava con una certa ruvidezza, forse per ricordare a se stessa i limiti di colui che aveva di fronte, ma intanto ne era attratta, le piaceva la sua aria genuina e quel suo parlare lento, vagamente ricercato. Lui, dal proprio canto, era diventato meno sciatto nel vestire e più controllato nel mangiare. 
Quando un giorno, dopo circa un mese di frequentazione, Aurora, nel corso di un’accalorata discussione sul significato etimologico della parola simpatia, gli aveva accarezzato ripetutamente il dorso della mano, forse per convincerlo a darle ragione, il professor Carletto Vinciguerra, in grande confusione, per la prima volta si rammaricò che di lì a poco sarebbe andato in pensione


Il mondo di Vicky, di Danila Oppio






Il mondo di Vicky
di Danila Oppio




Mi dicono che sono ricoverata in una struttura ospedaliera, ma io non ci credo.
Mia figlia ha cambiato casa, perché nel luogo che abitava prima d’ora, hanno costruito un ospedale, ma questa nuova casa che ha acquistato, è molto più spaziosa e luminosa. Soprattutto ha moltissime camere, così che la mia ha annesso anche il bagno personale, ma spesso non ricordo dove sia, e così vago per i corridoi, chiedendo in giro dov’è la toilette. Una volta sono scesa dal letto di notte, mentre mia figlia credeva dormissi, e profittando del mio sonno, è andata a prendere un caffè in cucina. (distributore automatico in aerea ristoro).  Però io  sono furba, ho fatto finta di russare, sono scesa dal letto, ho imboccato la porta d’uscita della camera, ma sono scivolata, e quando mia figlia è tornata, poco dopo, mi ha trovata inginocchiata sul pavimento, un mucchietto di pelle ed ossa. Mi ha aiutato a rialzarmi, e per fortuna non mi sono rotta qualche osso. Mi ha accompagnato al bagno e poi rimessa a letto.
Stasera ho mangiato tortellini in brodo, purè di patate con un omogeneizzato di trota e verdure, e una parte di purè di mele e prugne, che non ho finito del tutto. Era tutto buono, perché la cena l'ha cucinata mio nipote. (mensa ospedaliera)
 E' arrivata la nuova badante, che resta con me la notte, nel caso dovessi aver bisogno di aiuto. Me l’ha presentata mia figlia:
     - Mamma questa è Alessia!
Come non lo sapessi! Le ho risposto:
-       La conosco bene.


Mia figlia è convinta che sia la prima volta che la incontro, ma è da tanto tempo che sta con me, come tutte le signorine che girano per casa, per esempio quella è Loretta, è da una vita che lavora nell’Ospedale di Feltre. Mi dicono che mi trovo a Legnano, ma mi stanno prendendo in giro, qui sono nel Veneto. Non sono mica pazza!
Quando guardo la TV, anche se non sento una sola parola, essendo quasi del tutto sorda, vedo molte persone che conosco bene, i miei nipoti, poi amici e parenti. E a proposito di nipoti, ho visto anche il mio ultimo nipote, che mi portava a conoscere il suo piccolino, che è nato durante il viaggio. Mia figlia mi dice che Teo non ha ancora figli, e che non può venire in Italia perché lavora all'estero, ma io sono sicura che mi è venuto a trovare, l’ho visto, gli ho parlato, forse non è andato da loro, perché voleva stare solo con la sua nonna. Anche perché mi ha detto di essere ammalato ed io sono molto preoccupata per lui. (Teo gode ottima salute)
Quando non guardo la TV, il mio sguardo va alla finestra, e da lì vedo persone che camminano sui vetri. Anche a casa vedevo cinesi, e due bimbi africani sugli otto anni, vestiti di bianco, e testimoni di Geova, cani e gatti, la vicina di casa, tutti affacciati alla vetrina dei bicchieri, o sui vetri delle finestre. Mi vengono a fare compagnia e sono contenta, anche se qualche volta penso che siano solo dei curiosi che mi spiano di nascosto.
I miei familiari mi raccontano tante bugie, come per esempio che è venuta a trovarmi l’altra mia figlia con nipote e pronipote, e quell’altro suo figlio con la moglie e un nipote, ma so che non è vero, non ricordo di aver ricevuto visite. Insomma, non mi fregano…io so con assoluta certezza che viene solo mia figlia minore con i suoi familiari, del resto questa è casa sua, ci mancherebbe altro che non siano presenti almeno loro. (ovviamente le visite dei familiari ci sono state per davvero).
Ogni tanto vedo in TV il Ministro Padoan, e ricordo che abbiamo fatto un pellegrinaggio insieme, in pullman. (Ma quando mai?) così come rammento di aver incontrato in treno Padre Turoldo. (Lei non ha mai viaggiato in treno, tanto meno con quel sacerdote).
Mi prendono bonariamente in giro, perché loro non possono sapere tutto, mentre io ricordo benissimo molte cose, soprattutto il periodo vissuto in Sardegna. Ogni tanto parlo con mio suocero, perché a volte mi fa arrabbiare e allora gli dico il fatto suo. (deceduto nel lontano 1964). Quando mi fanno presente che è scomparso da molti anni, mi vien da ridere, perché io lo vedo e discuto con lui.
Potrei raccontarvi tante altre cose, ma poi non mi va di essere smentita. Per favore, credetemi quando vi dico quel che vedo. Perché io lo vedo realmente.


La mente di Vicky è persa nei meandri dei sogni sognati, affetta da allucinazioni, confusa nei ricordi, ai quali non sa dare una collocazione temporale. Se le si chiede a chi vuole bene, risponde:
-       A mio nonno Giovanni, che era tanto buono con me, e poi ai miei genitori, alle mie sorelle e a mio fratello.
E si ferma qui. Come se voler bene alle figlie, al marito, ai nipoti, fosse un optional. Quel che è successo o stato detto cinque minuti prima, poco dopo l’ha già dimenticato. Nella sua mente, tutto è stato cancellato riguardo al presente. Tranne quel che ha lasciato un piccolo segno. Se pone una domanda, la ripete un attimo dopo, perché non ricorda più la risposta, e poi richiede di nuovo, un’altra volta ancora, e ancora per altre dieci volte. Così come quando racconta, dopo aver finito di dire, ricomincia da capo a raccontare la stessa identica storia.
Dimenticavo un piccolo particolare non certo insignificante: Vicky ha novantotto anni!


Il sogno di Marina, di Stefano Giannini






Il sogno di Marina
di Stefano Giannini




Come tutti i bambini delle zone rurali di quei tempi nascevano in casa, anche Marina nacque il 10 Maggio 1934 nella grande vecchia casa padronale denominata “ Il Sasso” nella Parrocchia di Monte Iottone .
La levatrice ebbe il suo bel daffare per convincerla ad uscire dall’utero per vedere la luce e i fiori. Forse non era molto convinta che questo mondo facesse per lei.
Gli Zani, famiglia tipicamente patriarcale, era composta da 16 persone : i nonni, i genitori di Marina e suo zio, fratello del babbo, con la moglie e figli. La famiglia era molto conosciuta e stimata in tutto il circondario. Il papà di Marina era un proprietario terriero onesto e benvoluto sia dalla gente che dagli stessi suoi mezzadri.
L’azdora che conduceva con competenza e saggezza l’economia della grande casa era Zia Vitalina, donna minuta ma dinamica, piacente e simpatica.
Tutti in famiglia erano credenti e praticanti, frequentavano assiduamente la chiesa.
In casa non fu mai pronunciata una parolaccia da alcuno e tanto meno imprecazioni e bestemmie. Tutti i giorni dell’anno si recitava il Rosario e non si iniziava mai il pranzo senza dire una preghiera. In questo clima la piccola Marina cresceva sana nel corpo e nello spirito.
Già a 7-8 anni, oltre che non mancare mai alla Messa e alle lezioni di dottrina in parrocchia, distante più di due chilometri, praticava i primi nove venerdì del mese.
Era anche devotissima alla Madonna. Andando e tornando da scuola si fermava sempre a pregare davanti alla celletta dedicata a Maria che si trovava al fianco della strada.
Mancavano ormai pochi giorni al suo decimo compleanno, quando Marina fu costretta a letto da improvvisa febbre e dolori addominali sempre più acuti. Per i primi tre giorni, i genitori non si allarmarono più di tanto, pensando ad una comune indigestione o piccola intossicazione. Si dicevano: “saranno delle febbri intestinali, solite nei bambini e presto passeranno”. Il quarto giorno, il babbo, preoccupato, si recò col calesse a Mercato Saraceno a prendere il dottore per una visita a domicilio.
Arrivato a casa, la visitò e la sua diagnosi fu quella che si trattasse della appendicite infiammata. “ Se entro domani non le passa la febbre dovrete portarla in ospedale per un probabile intervento,” disse accomiatandosi.
Il giorno seguente Marina si aggravò: il termometro arrivò a segnare i 42 gradi, non riusciva ad ingoiare né tisane ne liquidi in genere. Sudava copiosamente. Tutto il suo corpo era come un braciere incandescente.
I genitori preoccupatissimi non sapevano che fare: portarla in ospedale in quello stato era impensabile, troppo rischioso. Mentre Zia Vitalina andava a chiamare il parroco, lo zio correva a prendere il dottore.
Il parroco arrivò per primo, le diede la Comunione, che ricevette con gratitudine e commozione. Pur rendendosi conto della gravità dello stato di Marina, il parroco non ritenne che fosse in imminente pericolo di vita e si accomiatò.
Sarebbe ritornato il giorno seguente.
Dopo aver fatto la Comunione, Marina si assopì. Poco dopo, riaprì gli occhi e, con il sorriso sulle labbra rivolta alla mamma chinata su di lei a fianco del letto le sussurrò : “ sai mamma è venuto un uomo luminoso e, sulle mie labbra, mi ha detto che oggi morirò e andrò con lui ”.
Detto questo entrò in agonia e dopo un’ora quel fiore fu reciso.
Era il 10 maggio 1944, il giorno del suo decimo compleanno.
Mentre Marina moriva, fuori c’era la guerra; si udivano le cannonate dei carri armati americani che avanzavano sulla strada sparando contro le ultime postazioni militari dei tedeschi in ritirata. La gente del borgo, atterrita e sgomenta, rivolta al cielo, a mani giunte, implorava pietà…!
Al medico, giunto poco dopo, quando non c’era più niente da fare, non restò che constatare la causa della morte per “ peritonite acuta”.
Al funerale vi fu tanta gente, diverse centinaia, con tutti i bambini della scuola elementare vestiti di bianco e con mazzetti di fiori in mano. Io ero fra loro, avevo otto anni.
Era una giornata primaverile splendida e quella cassa bianca coperta di gigli, agli occhi degli astanti, rifletteva la luce del sole.






La fontana magica, di Renzo Montagnoli






La fontana magica
di Renzo Montagnoli


Come ogni favola che si rispetti è d’obbligo iniziare con C’era una volta e infatti sarà così, ma, se leggerete con attenzione, noterete che il tema trattato non ha tempo.
 
C’era una volta, talmente tanto tempo fa che non è possibile ricordare quando fu, un piccolo staterello, un borgo medioevale arroccato su una collina con tanto di castello, di armigeri, di principi e principesse.
All’intorno digradavano i campi coltivati dai villici e quasi ai suoi confini, dove la terra sembra toccare il cielo, un fitto bosco dava ospitalità ad animali selvatici e anche a qualche brigante da strada.
Gli unici a penetrarvi erano il signore del castello e la sua scorta, nelle battute di caccia al cervo o al capriolo, ma, non del tutto infrequente, nonostante i rischi se sorpresi, si aggiravano improvvisati bracconieri, tesi ad integrare con un po’ di carne di qualità lo scarso e povero cibo di ogni giorno.
E uno di questi è proprio il personaggio di questa storia, un povero servo della gleba; né brutto né bello, né alto né basso, Girolamo – così si chiamava – era il settimo di una famiglia che non riusciva a combinare il pranzo con la cena. Era giovane, e anche abbastanza forte, e senza spirito di ribellione ogni tanto si avventurava nel bosco a metter trappole per le lepri, che vi abbondavano.
Un giorno, mentre faceva il giro delle tagliole per vedere se qualche bestiola vi era imprigionata, nel prendere per sbaglio un altro sentiero, a lui sconosciuto, arrivò a una radura dove al centro troneggiava una fontana di granito, come quella della piazza davanti la chiesa, e, assetato, si accostò per bere. Fu allora, che fra i cerchi mossi dall’acqua che cadeva, vide riflesso il suo viso, con la barba tutta incolta e la pelle che già iniziava a raggrinzirsi, nonostante la giovane età.
Rimase triste a guardare l’immagine della sua modesta condizione, ripensò alle ore di lavoro per il suo signore, al poco cibo con cui si sostentava, ma, soprattutto, vide accanto a sé il volto stupendo, dallo sguardo altero, della giovane principessa, un sogno del tutto proibito per lui. Si prese la testa fra le mani e iniziò a piangere e quando le lacrime, lasciando il suo viso, presero a cadere nell’acqua della fontana, udì una voce:
- Chiedi e sarai esaudito.
- Chi parla?
- Io.
Girolamo si volse all’intorno impaurito e non vide nessuno.
- Dai, non fare lo sciocco; sono io, la fontana.
- La fontana che parla? Gesù, Maria, Santissimi Apostoli, o sono pazzo, o c’è il diavolo.
- Ma no, non temere. Ti ripeto: chiedi e sarai esaudito. Che cosa vuoi? Ti piace la bella principessa, vero?
- Sì, è vero, ma io sono povero e brutto.
- Formula un desiderio alla volta, qualsiasi desiderio, e io lo tramuterò in realtà.
- Mi piacerebbe essere bello, almeno come lei.
- Ecco fatto.
Girolamo si specchiò nell’acqua e non si riconobbe: davanti a lui c’era un giovanotto, alto, biondo, dagli occhi azzurri e con un volto dai lineamenti regolari e delicati.
Grazie, grazie – e corse via.
Quel giorno iniziava il torneo dell’Immacolata e tutti si raccoglievano intorno al campo di gara, plebei e signori.
Girolamo si fece avanti con forza nella calca del settore dei servi, ma alla fine si mise in prima fila, proprio davanti al palco dei principi e la vide subito, splendente nella sua bellezza altera.
Si agitò per farsi notare e infatti lei lo degnò di uno sguardo; fu solo un attimo e poté leggere nei suoi occhi l’interesse improvviso, ma altrettanto rapidamente subentrò un chiaro atteggiamento di disprezzo.
Dire che rimase deluso è dir poco, perchè si rese chiaramente conto che la sua bellezza passava in secondo piano rispetto al suo stato sociale.
In preda allo sconforto, ma deciso di ritentare corse al bosco, si affannò a cercare il sentiero per giungere alla fontana e quando il sole già cominciava a calare lo trovò.
Arrivato alla radura si accorse che già stava sorgendo la luna; stremato si lasciò cadere e fu vinto dal sonno.
Fu una notte di cui ebbe a lungo memoria, con sogni popolati da sabba di streghe, da diavoli danzanti intorno a un fuoco, da lontani suoni di cornamuse.
Il primo sole lo svegliò e ancora con gli occhi piccini si appressò alla fontana per tergersi il volto.
- Sapevo che saresti tornato.
- Sapevi?
- Certo. Agli uomini non va mai bene niente.
- Non ho avuto fortuna e, soprattutto, per lei non conta la bellezza, ma la classe sociale.
- Niente di nuovo sotto il sole; da quando esiste il mondo conta più l’apparenza.
- Fammi diventare nobile, trasformami in un cavaliere di alto lignaggio che partecipa al torneo.
- Nessun problema; per quanto ovvio, però, fisicamente ritorni quello di prima. Per te è lo stesso?
- Certamente.
- Detto, fatto.
Girolamo non ebbe nemmeno bisogno di specchiarsi, mentre si sentiva avvolgere dall’armatura e prendeva le redini del bianco cavallo che uno scudiero gli porgeva. Poi fu aiutato a issarsi sul destriero e finalmente si incamminò verso il borgo.
All’arrivo sulla piazza del torneo tutti si volsero ammirati nel vedere il nuovo cavaliere, nella sua lucente armatura. Quando il maestro di cerimonia gli chiese il nome gli venne spontaneo:
- Sono Girolamo Barbarico da Cortona, duca di Forlimpopoli e visconte di Castrocaro.
Sotto la celata i suoi occhi corsero al palco, a cercare la principessa. Lei era là, splendida come al solito, e lo guardava stupita.
Si diede inizio alla tenzone, ma lui che non pensava ad altro, che non vedeva che quella leggiadra figura femminile, al primo scontro fu disarcionato e, quel che è peggio, un pezzo di legno della lancia gli si conficcò nel costato.
Corse subito il cerusico, ma lui, nonostante il dolore, era lei che cercava e invece la bella principessa stava lanciando il suo guanto di candida seta al cavaliere che lo aveva sconfitto.
Gli si fecero intorno, lo sollevarono di modo che l’occhio clinico constatasse la gravità della ferita e l’insigne e dotto medico si limitò a scuotere il capo.
Con il poco fiato che gli restava, Girolamo pregò gli astanti d’esser messo sul suo cavallo, così da cercare di andar a morire a casa sua.
Fu accontentato e allora incitò il cavallo a correr più veloce del vento, a raggiungere il bosco in un baleno, ad accostarsi ancora una volta alla fontana.
Così fece la bestia e stramazzo affranta, disarcionando il suo cavaliere che finì dentro la vasca d’acqua fresca.
- Un po’ di educazione! Mi fai traboccare. Capisco, però, il motivo. Hai un ultimo desiderio da esprimere.
- Fammi ritornare me stesso.
- Siete strani, voi umani. Cercate di essere sempre diversi per poi alla fine desiderare che nulla sia cambiato. E va bene, non preoccuparti. Sarai di nuovo tu e non morirai; però, resterai un povero servo in un mondo che sarà sempre fatto di tanti servi e di poche principesse.
Girolamo si ritrovò nei vecchi panni, senza più ferite al costato; uscì dalla vasca e prese la via del ritorno. Giunto al margine della  radura si volse un attimo a guardare la fontana da cui non usciva più acqua.
Alzò la mano in segno di saluto, poi corse alla sua capanna.     



Mare d’inverno, di Grazia Giordani




Mare d’inverno
di Grazia Giordani



Credevo scherzasse. Faceva sul serio, invece, più rapida nel muoversi che nel dire, tanto dava per scontato che l’avrei accompagnata verso il suo tanto amato mare invernale. Valigetta pronta, scarpe da casa rapidamente sostituite con calzature più robuste, la riottosa soltanto nel volermi accontentare (ricordate la mia richiesta di una biografia?), ma fulminea nel prepararsi al viaggio - non sapevo nemmeno verso quale precisa località -, ha indossato un corto giacchetto di un’improbabile pelliccia, suppongo sua coetanea, chinandosi poi ad arrotolare alla caviglia i risvolti dei jeans scoloriti, con la disinvoltura di una ragazza.
Speriamo di persuaderla durante il tragitto in auto, mi sono detto.
Vedovo da anni, i figli fuori casa, non dovevo giustificarmi con nessuno. Potevo andare ovunque, denaro permettendo. Anche per questo motivo avevo cominciato a palpeggiarmi le tasche, prima di salire sulla gelida auto, lucida di ghiaccio. E se avessi scordato nel cassetto lo sguarnito portafoglio o l’altrettanto magra carta di credito, costantemente a dieta?
Quasi mi leggesse nel pensiero, la mia fortuita – non oserei definirla fortunata – compagna di viaggio, mormorò, aspra, quasi senza guardarmi in volto: «Non pensi alle spese. Quello è affar mio».
«Non sono ancora diventato un gigolo, Signora, dissi cercando di apparire spiritoso» .
«Non s’illuda. Per me ci vuole ben altro. È solo che mi seccava prendere un mezzo pubblico. E poi, tutto sommato, la sua storia m’interessa. Sono una ladra di racconti…»
«Intende dire che userà per sé la mia storia?»
«Forse che sì, forse che no. Del resto dovrebbe ritenersene onorato».
Ma lo disse col suo impercettibile sorriso obliquo che regalava mistero a quel suo insolito volto triangolare, dove le rughe attorno al mento non davano fastidio, quasi una cipria del tempo l’avesse ingentilito.
La Lotus fece i soliti capricci. Singhiozzò più a lungo del consueto, prima di entrare in marcia con un gemito lungo, anche lui partecipe dei miei umani dolori.
«Che strada prendiamo?»
«Verso Volano, nel Bassoferrarese. Là posseggo da anni un minuscolo monolocale, quasi un ventre materno. Ma non pranzeremo in casa. Ci sarà certamente qualche locale aperto, anche se siamo del tutto fuori stagione.»
M’imbarazzava l’idea di questo tête à tête con una sconosciuta. Condividere un pasto non è solo posizionare all’unisono posate all’interno della bocca, piene di cibo che magari non ti piace. Sono astemio e, una volta, in Scozia, ho fatto morire quasi un intero giardino, irrorandolo del wisky che non riuscivo ad ingurgitare. Però, la speranza di indurre l’imprevedibile signora ad interessarsi veramente alla mia biografia, mi ammorbidiva e piegava fino al punto di mostrarmi arrendevole.
«Questi sono stati i luoghi delle mie beate vacanze infantili – mi raccontava, con voce addolcita, le guance ravvivate da un calice di vino di cui m’infastidiva persino l’odore (ormai sapete quanto sia schizzinoso il mio olfatto) – arrivavamo in questa spiaggia, allora desolata, veleggiando lungo il Volano. Era solcato da vele di molti colori. C’erano i burchi dei comacchiesi che vivevano la loro pigra vita corale di gente d’acqua, all’aperto, senza ritegno. Avevano, sulle loro barche, il cane, il gatto, il lavoro a maglia, la suocera, lo zio e sempre risonanti zoccoli di legno ai piedi. Parlavano una lingua strascicata e comprensibile, forse, solo a loro, tanto ostica era ai nostri orecchi. Le donne erano pienotte, languide nell’occhio e candide nella pelle. I fiume aveva un fascino quasi magico su di me e questo senso dell’acqua mi è rimasto nelle vene come una voce cantante; raramente mi abbandona e mi fa pensare ai perlati grigiori del Tamigi, alla canzone senza fine delle vene sotterranee di Granada, allo sciabordio del mare aperto, al satanico suono della tortuosa cascata del Varone, come se tutte le acque avessero un’origine unica, per poi differenziarsi secondo cause contingenti…»
Che lagna! – pensavo fra me e me, sempre più desideroso di interromperla, per riprendere il filo della mia disgraziata infanzia sarda, dei colpi mancini che mi aveva inferto la vita.
«Beata lei, Signora, che ha avuto un’esistenza così piena di dolcezza, mentre io facevo il pecoraio, il necroforo di bambini, quasi il mendicante…»
«Stia zitto, non interrompa il flusso dei miei lirici ricordi. Dal fiume ebbero origine le mie prime vacanze al mare. Dopo due ore o più di lentissima navigazione, accompagnati in cielo dalla bianca ala di famelici gabbiani, sul barcone dal rumore assordante del motore e dal cicaleccio delle varie nonne e mamme onuste di prole e di sporte, credo che avremmo mangiato anche un piatto del Burundi. A proposito, anzi a sproposito, lei non sta mangiando e bevendo quasi niente. L’annoio, forse?»
«No, no. È solo che speravo di interessarla alla mia vita. Agli altri casi dolorosi che mi sono capitati: moglie morta giovanissima, dopo atroci sofferenze, una giovane cognata, finita sotto un camion, una figlia caduta nel tunnel della droga….»
«Quisquilie, ma cosa vuole che sia! Banalità della vita di tutti i giorni, prive di poesia. La gente non ne può più di questi fatti noiosi. Ormai nulla fa più notizia. Non vede com’è diventato il mondo? Si è fatto tardi, riprendiamo la strada di casa, non prima di aver fatto una corsetta digestiva verso il litorale».
Rapida, pagò il conto e si diresse verso un mare incolore come le sue vecchie chiome, mentre un fiacco sole tentava di aprirsi un varco in un cielo di latte.
Oddio – ho pensato – mi ha attaccato la malattia e mi son messo a parlare quasi come lei, mentre meditavo e ponevo in atto lo sleale proposito di salire sulla Lotus che partì ubbidiente e complice nell’abbandonare quell’egocentrica scrittrice dentro l’estasi dei suoi ricordi.







Memoria di un Natale, di Vincenzo D’Alessio






Memoria di un Natale
di Vincenzo D’Alessio




Il Natale è la festività più calda dell’anno: fuori c’è freddo e nelle case un tepore di festa che illumina le famiglie e i luoghi dove vivono gli esseri umani.
A squarciare il buio della notte che incombe sul genere umano c’è la luce di una Cometa che attraversa i cieli e se non è una cometa è la luce di tutte le stelle che brillano in questa particolare notte.
La furia degli uomini si ferma dinanzi a questo evento facendo memoria della Nascita di un Bambino e il ricordo della loro stessa nascita da una madre.
Quanto accadde nel Natale del 1943 è ancora memoria viva.
Raimondo era un giovane prete, appena nominato parroco di una piccola comunità delle province campane dove la povertà è radicata come l’ortica delle siepi.
La Seconda Guerra Mondiale grondava di lutti e ogni famiglia aveva qualcuno da piangere o la speranza che il figlio tornasse dal fronte sano e salvo.
La neve quell’anno era caduta copiosa e solo il calore del focolare riusciva a scaldare lo stomaco che brontolava di fronte al poco mangiare delle giornate.
La famiglia di don Raimondo abitava distante dal luogo dove il vescovo aveva destinato il giovane parroco: la madre Maria Nicola era operaia, il padre Francesco, reduce della Prima Guerra Mondiale, lavorava anch’egli come operaio, essi sopravvivevano con le scarse risorse che gli anziani di allora racimolavano senza pensione né assistenza.
Giunse la Vigilia di Natale nella casa del giovane sacerdote, i genitori infreddoliti accanto al focolare aspettavano il ritorno del figlio per trascorrere insieme la memorabile giornata.
L’unico mezzo allora per spostarsi era il treno, la “littorina” così chiamata per via del Fascio Littorio che svettava sul muso del locomotore Breda, ma la paura dei bombardamenti alleati metteva a dura prova l’esistenza di chi utilizzava questo mezzo.
Don Raimondo, alto e snello, infoderato nella lunga tonaca scura bagnata alla base sulle scarpe pesanti a causa della neve, con passo calmo si avviava dalla stazione verso la casa paterna distante qualche chilometro e portava sotto il braccio una scatola.
Il vento si era calmato ma il cielo plumbeo e minaccioso non faceva sperare nulla di buono in quella memorabile giornata di dicembre.
Lungo il cammino che lo portava verso casa il sacerdote pensava al fratello Aniello sul fronte russo, sentiva nel vento le voci dei soldati desiderosi di tornarsene alle proprie case ad abbracciare le famiglie lasciate nell’angoscia. Venne spontanea un’ Ave Maria e l’invocazione del grande Poeta Dante: “ Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, / ”.
Il rione natale gli apparve sotto il manto di neve e il leggero fumo dei camini innalzato dai comignoli verso il cielo sempre più scuro.
La Guerra, diceva fra sé, è la belva che divora tante giovani vite senza alcuna pietà né memoria delle sofferenze passate e delle catastrofi che ne segnano la fine: fame, miseria, orfani e vedove.
Dai vetri appannati dal tepore della stanza la mamma scorse la sagoma inconfondibile del figlio che avanzava sull’acciottolato del vicolo come un raggio di sole in tutto quel candore: Francesco, sta tornando Raimondo !
Il padre si alzò e raggiunse la finestra liberandola con la mano dal vapore: “ Ha un pacco sotto il braccio, finalmente riusciamo a mangiare qualcosa! ”, disse alla moglie con un pizzico di gioia nel cuore.
Finalmente il sacerdote giunse a casa, chiuse il portone alle spalle ed entrò in cucina disposta a piano terra dell’antica abitazione in via Santa Caterina.
La mamma lo aiutò a liberarsi del mantello umido che portava sulla tonaca, la sciarpa di lana che aveva realizzato con le sue mani, le scarpe completamente madide d’acqua: “ Raimò, prenderai un malanno se non provvedi a comprarti un paio di scarponi più resistenti!”
Il sacerdote fece giungere alla mamma un sorriso, una carezza sul viso rugoso, mentre le porgeva una tazza d’orzo caldo messa da parte per il suo arrivo.
Il papà, seduto accanto al fuoco disse alla moglie: “ Nicolì, apri il pacco che ha portato Raimondo così cuoci qualcosa! ”.
La donna sciolse lo spago che chiudeva ai quattro lati la robusta scatola di cartone e aprì i lati togliendo la paglia che nascondeva il contenuto.
Ai suoi occhi apparvero i personaggi del Presepe, le casette di cartone e gli altri componenti dell’evento: San Giuseppe, Maria e il Bambinello.
“ Figlio mio, hai pensato di fare il presepe qui a casa?, disse la madre al sacerdote, noi speravamo che portassi qualcosa da mangiare perché nella pentola ci sono solo i cavoli e qualche patata che tuo padre si è procurato ieri. Non abbiamo neanche pane!”.
Francesco con un sorriso riprese la moglie e disse: “ Sarebbe stato meglio farne un bravo operaio, a quest’ora avrebbe portato a casa qualche pezzo di pane! ”.
Al giovane sacerdote le parole del padre, anche se dette col sorriso sulle labbra, suonarono come un rimprovero.
Si levò dalla sedia in silenzio, raggiunse la stanza al piano superiore dove era rimasto il suo letto ancora intatto e cercò di addormentarsi.
Passò il tempo mentre il vento aveva ripreso a sbattere contro i vetri della piccola finestra nella sua stanza.
Lo svegliò sua madre.
Era mezzanotte di una notte che avrebbe sparso sui tetti di quella piccola casa e sull’opaco pianeta, afflitto dal male della Guerra, la luce irraggiungibile del Natale, nascita e inizio di una calore che colmava i crampi dolorosi della fame.




Da Racconti di Provincia (Fara, 2018)