venerdì 15 febbraio 2019

Gente del Sud, di Raffaello Mastrolonardo







Torna Raffaello Mastrolonardo



Volti di famiglia: un secolo di storia nel profondo Sud
Personaggi e amori dall'avventura coloniale fino ai giorni nostri



Chi si trova a leggere un romanzo fiume, prova un iniziale attimo di sgomento, ma 
«Gente del Sud», di Raffaello Mastrolonardo (Tre60, pp.784, euro 22) è talmente accattivante che l’interesse sovrasta la paura. E la lettura fila liscia e coinvolgente. Dell’autore già avevamo apprezzato «Lettere a Leontine». Forse anche questo felice precedente ci ha spinti ad accostarci al voluminoso fresco di stampa.
Con prudenza, l’autore pone un’avvertenza nell’interno di copertina in cui afferma che «Questo è un romanzo. Narra la storia di una famiglia e soprattutto di una terra per quanto gli eventi storici siano riportati il più fedelmente possibile, non ha però pretesa di essere un romanzo storico. Mi sono, infatti, preso alcune libertà modificando vicende e luoghi reali, al fine di adattarli al narrato. Non cercate Balsignano su Google Maps, non troverete che i ruderi di un casale fortificato del XII secolo. È un luogo immaginario, creato dalla mia fantasia per raffigurare, in uno, i tanti comuni dell’entroterra murgiano e, in particolare, Modugno, Altamura e Andria ai cui toponimi molto deve».
In questo lungo romanzo si annodano e snodano passioni, lotte politiche, ambizioni, guerre, ostinazioni e sogni, ovvero le vicende, i drammi e le gioie che rendono unica ogni famiglia.
Il lessico dell’autore è asciutto, ma non scevro da poesia. Una poesia rude, intrisa da accenni dialettali che la rendono più viva e parlata.
Protagonista assoluta è la famiglia Parlante cui ruota intorno una miriade di personaggi tra servi e padroni.
Siamo nell’agosto 1995 quando a Napoli è tornato il colera. Romualdo Parlante, medico spaventato dal pericolo della malattia, impone a sua moglie Palma, in attesa del quarto figlio, di tornare immediatamente a Balsignano, in Puglia, nel loro paese d’origine, in casa dei suoi genitori (di Romualdo), Bastiano e Checchina.
Bastiano brilla per intraprendenza e voglia di emergere, un vero patriarca che non ha paura di niente, desideroso di farsi avanti nell’oscurità della storia, ritagliandosi un posto considerevole sul piccolo, assolato e povero palcoscenico di quella terra insieme aspra e ricca che è la Puglia.
La storia dei Parlante fra cui si distinguono: Aniello, Costanzo e soprattutto Cipriano, il bambino che Palma portava in grembo, fuggendo da Napoli. E ancora Vincenzina, Gelica, Reginella, per citare solo una parte dei molti personaggi che affollano la vivida pagina, s’intreccia e confonde con quella tumultuosa dell’Italia d’epoca.
Gli anni Dieci del ‘ Novecento; l’avventura coloniale e la prima guerra mondiale, in cui i giovani maschi della famiglia si gettano con ardimento; gli anni dei primi scontri sociali duri e laceranti e poi l’avvento del fascismo, l’apertura al nuovo e le avvisaglie della modernità che avanza; la tragedia della seconda guerra mondiale e la fine di un mondo; poi la ricostruzione e il boom economico; i giorni attuali: un secolo intero scorre davanti ai nostri occhi puntati su quelli dei Parlante attraversate da sfide, drammi, lutti e amori, sorretti sempre da determinazione, coraggio e voglia di andare avanti.
Frutto di anni di studio e di lavoro, come si evince dal folto numero di pagine, il bel romanzo racconta anche i molti volti che l’amore incontra nella vita. Leggiamo passione che travalica ogni ostacolo e sentimento convenzionale. Incontriamo l’amore coniugale, per i figli, per la propria terra, per i propri possedimenti materiali (ricordate la «roba» del Verga siciliano?), non ultimo quello per i propri ideali.




Grazia Giordani


I romanzi (Matti beati e Gli ubbidienti), di Giovanni Piubello







I romanzi (Matti beati e Gli ubbidienti)
di Giovanni Piubello
a cura di Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni
Sometti Editoriale
Narrativa romanzi
Pagg. 372
ISBN 978-88-7495-024-9
Prezzo Euro 15,00

Per conoscere Piubello

Che Giovanni Piubello sia stato un uomo di riferimento per i mantovani amanti della cultura é fuor di dubbio; sostava con la sua bancarella di libri per lo più usati all’inizio di quei portici che da piazza Andrea Mantegna, impreziosita dalla Basilica di Sant’Andrea, portano alla storica piazza Sordello ed era lì con il preciso scopo di conversare di letteratura con chi lo avvicinava e magari di riuscire a vendergli qualche volume, visto che di qualcosa doveva pur vivere. Spirito acuto, grande osservatore, si dilettava pure di scrittura, con una produzione multiforme che va dalla prosa alla poesia, lavori quasi sempre auto pubblicati e venduti in loco, come anche una rivista, La Bancarella, ben 64 numeri usciti dal 1955 al 1966. Andò oltre la notorietà cittadina quando Rizzoli gli pubblicò il primo romanzo, Matti beati, che ricevette anche il prestigioso premio Duomo. Per lui, comunque, non cambiò nulla e non cercò di cavalcare l’onda del successo, rinchiudendosi nel suo piccolo mondo, rappresentato dalla bancarella. Restò sempre conosciuto in Mantova, mentre poco a poco la fama si mostrò effimera a livello nazionale e dopo la sua prematura scomparsa si corse anche il rischio che perfino nella sua città ci si dimenticasse di lui. Ampio merito va dato quindi all’Amministrazione Provinciale di Mantova, al Comune di Mantova e alla Fondazione Banca Agricola Mantovana che nel 2003, nel ventennale della scomparsa di Piubello, hanno inteso ricordarlo provvedendo alla ristampa di tutti i suoi scritti, che erano ormai diventati di difficile, e in non pochi casi di impossibile reperibilità. I curatori Mario Artioli e Vladimiro Bertazzoni idearono così un cofanetto di quattro volumi, di cui il primo è relativo ai romanzi, a Matti beati e a Gli ubbidienti, quest’ultimo in precedenza mai dato alle stampe.
Mi scuso per questa lunga premessa che però è indispensabile per avere almeno un’idea, per quanto approssimativa, di Giovanni Piubello, un uomo dimesso, umile (però con quella grandezza tipica degli umili che improntano la loro vita alla conoscenza), ma di grande spessore umano e letterario.
Quindi, Matti beati Gli ubbidienti sono i due romanzi riuniti in questo unico volume, con il secondo che è la naturale prosecuzione del primo, di quell’unico finito negli occhi interessati della grande editoria e che, al di là del fatto che sia stato pubblicato da Rizzoli e abbia avuto il premio Duomo, è veramente un’opera di grande bellezza. Si dice che quando si invecchia si perda la memoria dei fatti più recenti, mentre riaffiorino eventi di un lontano passato, di quando si era bambini. Infatti, in Matti beati l’io narrante, Nani, diminutivo e vezzeggiativo di Giovanni, cioè dell’autore, parla dell’infanzia trascorsa a San Bonifacio, il paese veronese di origine, e lo fa con un garbo, con una freschezza che fanno apparire gli episodi accaduti un bel po’ di anni prima come se fossero successi da pochissimo. Questo bambino si comporta come uno della sua età, anche se a volte ci sono delle timide proiezioni verso il dopo, verso gli anni di un Giovanni più maturo, ma si ritrova sempre quella beata innocenza che porta l’adulto a perdonare quasi sempre il comportamento di un infante. Come tutti i paesi San Bonifacio ha i suoi personaggi, delle vere e proprie icone, che Piubello descrive con arguzia e anche con tanto affetto. Sono storie normalissime, ma la penna dell’autore è così puntuale e lieve che riesce a farcele sembrare straordinarie; brevi capitoli, un non infrequente tono poetico, anche una misurata ironia accompagnano il lettore nella scoperta di questo grande scrittore, a cui giustamente ora sono tributati quegli onori che da vivo non aveva avuto.
E vengo ora a Gli ubbidienti che, come ho precisato, è la naturale continuazione di Matti beati; anche in questo romanzo Piubello esalta i ricordi della fanciullezza con una serie di episodi che non hanno nulla di sensazionale, ma raccontati con garbo, con un senso della misura che finisce con il rendere il lettore se non partecipe, almeno presente. Così ci sono figure, come la maestra con gli occhiali in punta di naso, il parroco che non disdegna di insegnare ai bambini ricorrendo a una bella tirata di orecchie o a uno scapaccione, oppure ancora l’imbroglione da due soldi, una volta travestito da frate, un’altra finto cieco, che non possono non attirare l’attenzione, descritti così bene da sembrare vivi, in procinto lì lì di uscire dalle pagine. E poi c’è una mitizzazione quasi sempre presente, quell’innocente innamoramento che è quasi un gioco, frutto di una innata reciproca simpatia, incarnata da una figura femminile azzeccatissima, Natalina, la bimbetta compagna dei suoi giochi e delle sue piccole avventure; a lei è riservata la tenerezza per un affetto che ogni tanto riemerge dalla nebbia del tempo, l’emblema di un’età felice e irripetibile.
La lettura di entrambi i romanzi diventa quindi, oltre che un piacevole passatempo, l’occasione per una riflessione sull’evolversi della vita, magari con il tentativo di ripescare quei ricordi dell’infanzia che fanno sentire meno greve la vecchiaia e che aiutano a dare un senso a questo cammino che ognuno di noi fa dall’alba al tramonto.
Matti beati e Gli ubbidienti sono pertanto senz’altro da leggere.




Giovanni Piubello (San Bonifacio, 24 giugno 1921 – Mantova, 16 giugno 1983) trascorse l'infanzia nel paese natale, e si trasferì a Mantova nel 1928 dove conseguì il diploma di perito industriale, ma volle diventare scrittore, libraio ed editore.
La sua prima opera, pubblicata in proprio, fu Zingara e poi diede alle stampe numerosi volumetti di racconti, prose, lettere in piazza e A proposito di gobbi, in versi.
Nel 1967 l'editore Rizzoli pubblicò il romanzo Matti beati, con il quale vinse il premio nazionale Duomo. Il romanzo è autobiografico e racconta l'infanzia dello scrittore nel paese di San Bonifacio (Sambonifacio), descrivendo un quadro suggestivo della vita contadina e di paese negli anni Venti, in un contesto di sostanziale povertà vissuto tuttavia con allegria.
Il successo fu di breve durata e Piubello continuò a stampare in proprio, nelle Edizioni di Bancarella, le sue storie, le sue lettere e i suoi dialoghi con lettori veri o presunti.
Fu straordinario osservatore della vita cittadina nella sua patria d'adozione, e fu amato dai mantovani che trovavano nella bancarella sotto i portici Broletto un dimesso ma profondo uomo di cultura.


Renzo Montagnoli


La punizione, di Tahar Ben Jelloun






La punizione – Tahar Ben Jelloun – La nave di Teseo – Pagg. 138 – ISBN 9788893445214 – Euro 17,00


Il valore della libertà


Ci sono voluti quasi cinquant’anni prima che Tahar Ben Jelloun trovasse le parole giuste per raccontare la sua storia. Proprio lui, che, di storie, ne ha scritte una infinità, paradossalmente, non riusciva a scrivere la propria. Perché quella narrata ne “La punizione”, il nuovo romanzo dello scrittore marocchino nativo di Fes e residente da lungo tempo in Francia, è una vicenda che sa di memoria e profonda amarezza. Un viaggio a ritroso seguendo le pesanti orme del tempo, una rielaborazione dolorosa ma necessaria di quanto accaduto tanti anni fa per poter chiudere i conti con un passato che non è possibile cancellare né ignorare del tutto.
Era il marzo del 1965 quando gruppi di studenti universitari manifestarono pacificamente per le strade di Rabat e Casablanca; in quell’occasione, la repressione, piuttosto brutale, non si fece attendere. Tra quei ragazzi, c’era anche Tahar Ben Jelloun, all’epoca studente di filosofia. L’anno seguente, per lui e una novantina di altri giovani che erano stati segnalati, la “punizione” bussò alla porta di casa sotto forma di perentoria convocazione a presentarsi presso uno sperduto campo militare nelle vicinanze della città di Meknès, nel nord del Paese. Era l’epoca in cui molta gente spariva all’improvviso, inghiottita dalla cieca violenza del regime dell’allora sovrano Hassan II, e si viveva in un continuo clima di paura; esercito e polizia, avendo carta bianca, facevano ricorso a qualunque mezzo pur di reprimere ogni possibile dissenso. La monarchia ’alawide offriva il volto forse peggiore di tutta la sua storia.

“Cosa abbiamo fatto di così grave? Organizzarci legalmente, manifestare pacificamente, reclamare libertà e rispetto.”

Per tutta risposta, vennero spediti anzitutto al campo militare di El Hajeb, dove ebbe così inizio un vero e proprio internamento, il cui scopo ufficiale era quello di rieducarli e insegnar loro a diventare bravi cittadini, all’insegna del vecchio e abusato slogan “Allah, al-watan, al-malik” (“Dio, la patria, il re”) che ancora oggi si vede scritto a grandi caratteri e disseminato qua e là per il Marocco. A scandire le lunghe giornate in quel luogo poco ameno si susseguivano maltrattamenti, umiliazioni, privazioni di ogni genere alla completa mercé di comandanti militari semianalfabeti, psicopatici e privi di scrupoli, spesso in preda a delirio di onnipotenza.
Picchiati, denutriti, sporchi e infreddoliti, con i capelli costantemente rasati a zero, i “puniti” venivano tenuti nel più totale isolamento, senza che le rispettive famiglie sapessero ciò che in realtà accadeva; per di più, perdere la vita per il minimo accenno di ribellione o a causa di pericolose simulazioni di operazioni di guerra (non mancavano, infatti, le tensioni con la vicina Algeria) rischiava di essere tutt’altro che improbabile. Il giovane Tahar trascorse oltre un anno e mezzo in quello stato di detenzione, mentre a sostenerlo accorrevano, per fortuna, la tenacia della sua poesia, il profondo amore per la letteratura e, da grande appassionato di cinema quale era, la magia delle immagini dei film che amava, come quelle di Charlie Chaplin nei panni di Charlot.

“[…] di fronte alla sensibilità, alla intelligenza, il potere oppone la brutalità e la stupidità. La prima arma è l’umiliazione, questa violenza che consiste nel declassarci, nel metterci sull’orlo del baratro minacciandoci di darci un calcio nella pancia. Mi aggrappo ai ricordi delle mie letture; non so se recito fedelmente ciò che ho letto o invento delle frasi. Ho in mente Dostoevskij, ?echov, Kafka, Victor Hugo… […] Nella mia testa sfilano scene dai film di Charlie Chaplin. Perché il bravo Charlot viene a trovarmi in questa terra ingrata e macchiata da militari abietti? Ne rido di nascosto […] Quell’omino che riesce a ridicolizzare i violenti che lo perseguitano mi ossessiona. Quel genio ha vendicato milioni di umiliati nel mondo. Ecco, questa era la sua missione, il suo disegno. Grazie, Charlot.”

Poi, inattesa e quasi irreale, la fine della prigionia, anche se le sue catene sembravano trascinarsi pure nella vita civile (“Sono stato liberato ma non sono libero.”). La vera liberazione, non a caso, arriverà soltanto diverso tempo dopo e a seguito di un evento davvero sorprendente e imprevedibile…
Una prosa che cattura fin dalle prime battute, appassionante ed estremamente fluida per un romanzo che si fa testimonianza diretta, viva, palpitante e che riconferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, le straordinarie doti di narratore di Tahar Ben Jelloun, nome tra i più noti e apprezzati sulla scena letteraria internazionale. Il suo linguaggio semplice e chiaro che si propone con garbo, le sue denunce, i suoi messaggi di pace e tolleranza religiosa (a tal proposito, invito a leggere le bellissime e istruttive pagine del breve saggio “L’Islam spiegato ai nostri figli”, Bompiani, 2001), il suo chiamare tutto col proprio nome e raccontare le cose così come stanno senza edulcorazioni di sorta fanno di lui un autore particolarmente interessante da seguire. Quest’ultimo suo lavoro, nello specifico, come spesso accade in molte opere della vastissima produzione di Ben Jelloun, punta l’attenzione su un Paese, il Marocco, dietro la cui immagine patinata di meta turistica più o meno a buon mercato persistono problemi assai gravi, quali tortura per dissenso politico, sempre mal tollerato dalle autorità, e corruzione abnorme che rallenta l’apparato burocratico e calpesta i diritti dei cittadini, sebbene sotto l’attuale sovrano Mohammed VI, non certo temuto come il terribile padre Hassan II, siano stati realizzati importanti ma non ancora sufficienti cambiamenti.
Infine, un romanzo che, attraverso la vicenda personale del suo autore, ci parla del valore della libertà, di quanto essa sia preziosa per la nostra dignità di esseri umani e di come, talvolta, basti davvero poco per perderla.

“Sarei potuto uscire dal campo cambiato, indurito, adepto della forza e anche della violenza, ma sono uscito com’ero entrato, pieno di illusioni e tenerezza per l’umanità. So che mi sbaglio. Ma senza quella prova e quelle ingiustizie non avrei mai potuto scrivere.” 


Laura Vargiu


Metello, di Vasco Pratolini






Metello
di Vasco Pratolini
Edizioni BUR
Narrativa romanzo storico
Pagg. 329
ISBN 9788817046480
Prezzo Euro 12,00

La boje

La boje, vale a dire bolle, era parte del motto che i contadini adottarono in occasione della rivolta popolare del periodo 1882 – 1885. Nel caso di Metello, invece, si tratta del primo grande sciopero degli edili avvenuto più tardi, nel 1901, ma in ogni caso si trova pure in questa occasione l’esasperazione di lavoratori quasi alla fame che, prendendo piano piano coscienza dei loro diritti, rivendicano, in uno con un congruo aumento salariale, il riconoscimento della propria dignità di uomini.
Protagonista principale di questo grande affresco storico è Metello Salani, nato a Firenze nel 1875 e rimasto nel giro di pochissimo tempo orfano dei propri genitori, tanto che di fatto viene adottato dalla donna che lo teneva a balia.
Il romanzo ripercorre la vita di questo bambino che diventerà uomo prima del tempo per la necessità di sopravvivere, un uomo che non ha avuto la guida di un padre, ma che troverà in un compagno di lavoro, l’anarchico Betto, colui che gli insegnerà a leggere e a scrivere e che lo introdurrà alla vita degli adulti. Metello ha un’intelligenza pronta, impara presto, lavora bene come muratore, poco a poco diventa un esempio per gli altri che faticano tutto il giorno, fra mille pericoli, a tirar su muri e a coprire con i tetti. Non è esente da difetti, è sostanzialmente fedele a chi ama, ma è privo di remore quando si tratta di rispondere alle sollecitazioni della carne. Comunque è un uomo in cui matura, senza che lui se ne accorga, il desiderio di rivendicare per la propria categoria tutti quei diritti naturali da tempo negati e senza essere un sindacalista riesce comunque ad assurgere alla figura di capo popolo, una guida per tanti altri che cominciano ad alzar la testa. Si chiedono migliori condizioni di lavoro, un aumento della paga che consenta di vivere, ma è netta la chiusura dei padroni, tanto che, ob torto collo, i muratori sono costretti a indire uno sciopero a oltranza. E’ bellissima la descrizione dell’atmosfera, di questa povera gente che è di fatto obbligata a indebitarsi per tirare avanti, nella speranza che sopraggiunga un accordo. Tutto sembra complottare contro di loro e chi ha il potere ricorre anche alla forza della polizia e dell’esercito, ma alla fine, quando gli animi sono esasperati, quando il fronte degli scioperanti comincia a incrinarsi, quando scoppiano i tafferugli e ci scappa anche il morto, si giunge al tanto agognato accordo, che accoglie solo in parte assai ridotta le richieste economiche, ma che ha un significato che esula dalla materialità del denaro: è sorto uno spirito di categoria, un popolo di cenciosi si è unito per riscattare la propria dignità. Il lavoro può ricominciare, funestato subito da un tragico incidente, in cui periscono un vecchio muratore e un giovane manovale, perché le condizioni di sicurezza sono inadeguate e per di più non esiste un’assicurazione sugli infortuni. Ecco quindi una materia su cui discutere con i padroni, ecco un altro traguardo da raggiungere di quella lunga corsa a tappe che è l’emancipazione di una classe lavoratrice taglieggiata dal padronato. Il romanzo non ha una fine vera e propria, perché Metello esce dal carcere dove è stato tenuto in attesa di giudizio per i fatti di quello sciopero, giudizio che lo assolve pienamente, e ad attenderlo in strada trova la moglie Ersilia con il figlioletto. Si incamminano verso casa, ma prima si fermano in un caffè, dove lei prende un corretto e lui un grappino. Davanti a loro un grande specchio riflette la loro immagine e Metello dice “La Sacra Famiglia”; al che lei lo invita a non bestemmiare e lui replica “Ma d’ora in avanti.”. Gli fa eco lei: “D’ora in avanti cosa?”. Sembrerebbe di capire che Metello da ora in avanti si interesserà solo della famiglia e che non si occuperà più di battaglie politiche, ma entrambi sanno che non è possibile, perché un uomo come lui non può restare sempre a capo chino e la lotta, per quanto lunga e difficile sia, non può essere per lui che pane quotidiano.
Scritto splendidamente, coinvolgente, emozionante, a volte anche commovente, Metello è il romanzo che mi sento di definire un capolavoro.
Da ultimo, nel 1970 uscì nelle sale cinematografiche una felice trasposizione cinematografica dal titolo Metello, un film diretto da Mauro Bolognini e interpretato da un giovanissimo e convincente Massimo Ranieri e da una brava Ottavia Piccolo che ottenne il premio per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes.



Vasco Pratolini (Firenze, 19 ottobre 1913 – Roma, 12 gennaio 1991). Di famiglia operaia, è costretto a interrompere gli studi e svolge mestieri diversi per potersi mantenere.
Autodidatta, entra in contatto con l’ambiente degli artisti e degli scrittori che gravitano attorno al pittore Ottone Rosai, frequentandone la casa.
Pratolini comincia a collaborare al periodico «Il Bargello» e diviene redattore con Alfonso Gatto, nel 1938, della rivista «Campo di Marte». Nel 1951 si trasferisce a Roma, città nella quale vivrà da allora in poi.
Le sue prime esperienze narrative ("Il tappeto verde", 1941; "Via de’ magazzini", 1941; "Le amiche", 1943; "Cronaca familiare", 1947) compongono il ritratto di un'infanzia e di una giovinezza piuttosto picaresche.
Il registro adottato, sin da quelle prime prove, si pone a mezza via fra il realistico e il lirico.
"Il quartiere" (1943) è un affresco corale che narra della presa di coscienza del sottoproletariato urbano.
Gli stessi temi sono riproposti, con tono appena più svagatamente satirico, ne "Le ragazze di San Frediano" (1949), e trasposti poi in una più approfondita lettura psicologica in "Cronache di poveri amanti" (1947).
Pratolini svolge con successo, in questi anni, anche un'attività di sceneggiatore e soggettista cinematografico, e intraprenderà in seguito una carriera di autore di testi teatrali ("La domenica della povera gente", 1952; "Lungo viaggio di Natale", 1954).
Nel 1955 pubblica Metello (premio Viareggio), primo romanzo di quella che diverrà la trilogia "Una storia italiana", essendo completata da "Lo scialo" (1960) e da "Allegoria e derisione" (1966).
Nella trilogia, la vita dei fiorentini, descritta attraverso la caratterizzazione di personaggi emblematici del proletariato e della borghesia, diviene il microcosmo in cui analizzare lo svolgimento di dinamiche sentimentali e politico-sociali.
Alla città e al mondo dell’adolescenza sono dedicati ancora un romanzo, "La costanza della ragione" (1963), e le poesie raccolte in "La mia città ha trent’anni" (1967). Alcune «cronache in versi e in prosa», scritte dal 1930 al 1980, sono riunite nel volume "Il mannello di Natascia" (1984, premio Viareggio).


Renzo Montagnoli


Nero come l’amore, di Emilia Dente






Emilia Dente -  Nero come l’amore  – Terebinto Edizioni, 2018.


Emilia Dente è donna attiva in diversi campi culturali: poesia, tradizioni, storia, ricerche d’archivio, impegno sociale.
Una delle caratteristiche principali è l’amore per il luogo dove vive: Montefusco in provincia di Avellino.
Ha fatto parte della Giuria nei concorsi banditi dalla casa editrice Fara di Rimini in diverse edizioni.
La sua ultima raccolta è “ Nero come l’amore”, pubblicata quest’anno presso Terebinto Edizioni.
Il fulcro dei versi gioca con la luce incandescente dell’amore contrapposta alle ombre che l’esistenza pone sul cammino che questa forza creativa affronta.
Le ombre , la notte, il buio, sono le figure che compaiono maggiormente nei versi posti di fronte alla luce dell’Amore partendo dalla similitudine del titolo e dall’epigrafe alla raccolta: “ Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera.” (J.Wolfgang Goethe).
La poetica vibra della bellezza dei luoghi, dei monti circostanti, dei frutti generosi della terra, grano e noci, della bellezza del tarassaco, pianta apotropaica per la poeta, e il trasferimento ai fenomeni naturali delle qualità umane: “ Il respiro dell’acqua / profuma di eterno / ” (pag.41); “ (…) e alberi che ridono/ ” (pag.19); “(…) nella carezza dei monti/ ” (pag.67).
Le similitudini, le anafore, i colori ed i profumi fanno da corollario ai versi lapidei che invitano il lettore a seguire il cammino dell’Amore per superare le aspre difficoltà dell’esistenza: “ invidio / la saggezza delle foglie / nel rosso dell’autunno / fanno l’amore col vento / e tra i sospiri / danzano / per non lasciarsi morire / ” (pag.47).
La sfida tra luce e buio, tra saggezza e indifferenza, a quest’ultima è legato il mondo di oggi dove i giovani, più cari alla poeta, sono in balia dei falsi sentimenti ammantati dalle ombre nere dell’ignoranza, della perdita della fede, della violenza diffusa.
La raccolta accoglie i frutti della maturità della Nostra che per lunghi anni ha curato in sé la gioia di offrire la conoscenza, il calore e l’amore per la propria terra ai suoi lettori.


Vincenzo D’Alessio


Siamo solo piatti spaiati, di Alessandro Curti





Siamo solo piatti spaiati – Alessandro Curti – C’era una Volta Editore – Pagg. 250 - ISBN 9788898295579 – Euro 13,00






Questa è la fatica della vita Davide: riuscire a far convivere pacificamente tutte le anime che abbiamo dentro di noi. Ed è una maledetta fatica.
Siamo solo piatti spagliati di Alessandro Curti è un libro difficile da digerire, perché inevitabilmente ti mette difronte ai limiti che come genitori, educatori e quant’altro ognuno di noi ha.
Leggo in rete che 
Siamo solo piatti spagliati non è il suo libro d’esordio (2015 esce per C1V Edizioni il suo primo romanzo Padri Imperfetti, seguito nel 2016 da Mai più sole e nel 2017 da Sette note per dirlo, scritto a quattro mani con Cinzia Tocci); spulciando qua e là vedo che il tema ricorrente dell’autore è il suo lavoro, quello dell’educatore e delle problematiche, oggi sempre più marcate, nell’approccio tra ragazzi e adulti.
Un tema a me caro non solo perché sono genitore di adolescenti ribelli, ma anche perché il mio di lavoro è molto vicino a quello dell’autore.
La storia è quella di David, un ragazzo difficile che è segnato dall’ennesima “cazzata”, una “cazzata” che lo porterà a dovere affrontare i propri errori senza l’aiuto di genitori che spesso “insabbiano” marachelle, più o meno gravi, solo per salvare sé stessi piuttosto che i propri figli.
Non me ne fregava nulla di nulla se non di poter avere la possibilità di riallacciare i contatti con la mia vita, per scappare almeno per qualche minuto da questa che mi sembra essere una Non Vita. Mi sento sospeso, come in una parentesi graffa delle espressioni che tanto mi piacevano a scuola. Quella parentesi che rimane lì, fino a quando non hai risolto tutto il resto, fino a quando sei quasi arrivato al risultato. Ma io sono ancora alle parentesi tonde, a cercare di trovare una soluzione ai minuti delle giornate che non passano mai. Quel Tempo Non Tempo che mi sta uccidendo, che non mi fa vedere nemmeno da lontano quell’uguale finale che mi porterà a un risultato. Giusto o sbagliato che sia. Ma sono bravo in matematica e il risultato non potrebbe essere che corretto. Se solo arrivasse.
Lo psichiatra Andreoli intervenendo a un convegno giovanile afferma che: Un buon educatore deve essere fragile, avere la percezione dei propri limiti, deve sentire particolarmente il piacere di stare in contatto con le nuove generazioni, per insegnare e per imparare. La fragilità è la forza della relazione”, se ci soffermiamo su queste parole senza nessun tipo di pregiudizio e guardando anche noi stessi (genitori) come educatori dei nostri figli quanti errori potremmo evitare entrambi?
Una riflessione scaturita dopo la lettura di 
Siamo solo piatti spagliati, un libro che parla di dialogo prima che di rieducazione, un libro che parla agli adolescenti come a degli adulti perché tali sono…, un libro che apre le porte nel dentro di un lavoro tanto difficile quanto gratificante per operatori che speso sono demotivati.
Andrea è l’educatore perfetto, è quella persona che ti dà sicurezza e che trasmette rispetto, quella persona che non vorresti mai deludere, perché è il primo che ha creduto in te, prima ancora di te stesso.
Andrea è un punto di riferimento, è comunicazione, quella comunicazione che David non ha istaurato con i genitori e in particolar modo con il padre.
Andrea è un vero e proprio sostegno raffigura alla perfezione quello che Don Bosco affermava: “
l’educazione è una cosa di cuore. Ingrediente fondamentale per aiutare gli altri.
Quando sono incazzato con lui perché non fa quello che mi aspetto e poi mi smonta tutto con qualche frase. Quando è Imprevedibile e l’unica cosa giusta che dovrei fare é dargli ragione. Guarda sempre le cose da un punto differente dal mio e mi fa arrabbiare. perché vorrei essere già io a vedere le cose in modo differente. Vorrei essere io a stupirlo mostrandogli che ho già ragionato sulle cose. E invece sembra sempre un passo avanti. 
E mi fa incazzare.
Siamo solo piatti spaiati è il viaggio che ogni adolescente percorre per arrivare all’età adulta, un viaggio che dovrebbe essere affrontato con i genitori, ma dove questo non è possibile ci sono figure come Andrea che fanno da traghettatori. I personaggi che si avvicendano nel libro sono adolescenti che sottolineano le difficoltà di questa società, tanto all’avanguardia ma che isola ognuno nel proprio dolore.
Sono solo piatti spagliati è un libro che consiglio vivamente a ragazzi per prendere consapevolezza che ogni azione ha una conseguenza e ognuno ne è responsabile diretto.
A genitori per far intendere che non bisogna imporsi ai figli, non bisogna sostituirsi a loro, ma comunicare e lasciare che ognuno “paghi” per i propri errori.
Ma soprattutto lo consiglio a coloro che svolgono il lavoro di educatore, psicologi e psicoterapeuti per comprendere che il loro non è un lavoro che si possa svolgere esclusivamente per il 27 del mese.
L’essere umano non è carne da macello.
Un grandissimo plauso a Alessandro Curti che con la sua narrazione, semplice e diretta, arriva dritto dove deve arrivare.
«Dici?» chiedo a Reza cercando di sottolineare un aspetto che forse non ha colto, sperando per una volta di beccarlo in fallo. 
«Perché?» 
«Dai, erano solo piatti spaiati. Che non toglie valore al senso del mangiare insieme, ma non puoi certo dire che la tavola fosse bella». «lo ci trovo della poesia. I piatti sono come noi ragazzi: tutti diversi, qualcuno più scheggiato di altri, alcuni colorati e altri anonimi. In fondo ci rispecchiano molto, ma la visione d’insieme è particolare, irripetibile. Riescono tutti a stare nella stessa tavola, come noi riusciamo a convivere nonostante le nostre differenze».
 Fino ad oggi non me n’ero accorto, non avevo dato importanza a tutti questi piatti e bicchieri nei quali consumiamo i nostri pasti. 
Ma forse ha ragione Reza. 
 Siamo solo piatti spaiati.


Katia Ciarrocchi




Tutto scorre… , di Vasilij Grossman






Tutto scorre… - Vasilij Grossman - Adelphi – Pagg. 229 – ISBN  9788845924668 – Euro 12,00




Non tutto ciò che è reale è razionale




Ivan Grigor’evic, quasi trent’anni in un lager sovietico, alla morte di Stalin viene liberato e torna al cospetto dei vivi, di coloro che erano rimasti nelle loro città, nelle loro case. Senza accusare nessuno, fa vacillare le loro coscienze, sigillate nell’idea di essere stati giusti, opportuni, bravi uomini insomma, invece le coscienze tremano, riprendono le loro tortuose vie nei meandri dell’abisso, quelli della verità corrosiva, spaventevole, orrida. Ivan non recrimina niente, basta la sua presenza a generare l’orrore del loro operato, mentre anch’egli si stupisce, perso nel paradosso della libertà: “effettivamente si sta proprio male nella libertà!”.
Com’è la sua patria dopo tutto? Dopo Pietro il Grande, dopo Caterina, dopo la rivoluzione, dopo Lenin, dopo Stalin? Non resta che considerare che la Russia ha raggiunto il progresso a discapito della libertà del suo popolo, rinnovandone e alimentandone la schiavitù; perseguendo l’utopia di rinnegare lo sviluppo capitalistico ha mantenuto schiavi i suoi cittadini, cambiando solo il padrone: lo Stato che perdendo di vista l’obiettivo, ha sacrificato la libertà individuale. L’analisi del protagonista è lucida, una condanna sicura dell’utopia comunista con l’individuazione di precisi errori storici più nella persona di Lenin che in quella di Stalin.
Il romanzo è strutturato in modo tale da permettere, attraverso il susseguirsi degli incontri che porteranno lentamente Ivan a reintegrarsi nella società, la conoscenza delle diverse prospettive che furono coinvolte nell’annientamento dell’uomo. Si può percepire la debolezza del delatore, la paura dell’accusatore, la rettitudine della moglie che non può accusare il marito di una colpa inesistente, la quotidianità macchiata di codardia di chi ha scampato ogni pericolo facendolo subire ad un suo prossimo, il timore dell’ebreo, la fame dell’ Ucraina…Ci sono pagine talmente vivide nel loro realismo da provocare inquietudine e malessere, la fame in particolare è descritta così pungente che si arriva a un vero e proprio processo di immedesimazione , tale da far percepire sensazioni al limite del reale. Oltremodo sono pungenti le considerazioni politiche e storiche, portano ad un’ennesima riflessione sulla piccolezza dell’essere umano che dimentica la sua natura umana, doveroso allora non accettare l’irrazionale perché, a dispetto di Hegel, “…non tutto ciò che è reale è razionale. Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile.”
Intanto Ivan, terminate le sue peregrinazioni, giace sconfitto in una landa desolata, eppure egli è immutabile e immutato perché è riuscito, nonostante tutto, a rimanere un uomo.
Che ne sarà della Russia?
“Dov’è il tempo dell’anima russa libera e umana? Quando mai verrà quel giorno?”
Per Ivan- Grossman la risposta non può che essere questa: “Chissà, forse non verrà mai, mai spunterà.”
Ricordiamolo: anche il manoscritto di “Tutto scorre” fu sequestrato insieme a quello di “Vita e destino”, per fortuna l’autore ne scrisse un’altra copia che fu poi pubblicata alla sua morte.
Comprensibile l’amarezza della sua risposta.


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MondoBlog del 15 febbraio 2019



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