lunedì 8 luglio 2019

Dopo la trebbiatura, di Stefano Giannini





Dopo la trebbiatura
di Stefano Giannini


Correva l’estate del 1952, era tempo della campagna per la trebbiatura nei poderi e fattorie sparse sulle colline della media Valle del Savio.
La trebbiatrice itinerante, “passava” da una casa colonica all’altra trainata da due paia di buoi. Veniva poi impiantata nell’aia a fianco del grande barcone del grano, ( la meda ). Al suo seguito c’era una “squadra”, composta da una quindicina di persone . Uomini e donne, diretti da un caposquadra, il ns. si chiamava Ernesto.
La trebbiatrice era attesa con ansia dai contadini, non solo per mettere al sicuro l’agognato raccolto, frutto di tante fatiche, ma anche perché, il suo arrivo, segnava un giorno di grande festa per tutti .
Avevo compiuto 15 anni, ero a casa dal collegio per le vacanze. Mio padre chiese ad Ernesto se anch’io potessi dare una mano per quel giorno. Fui accettato !
All’alba dovevo trovarmi presso il podere “ Cassandra”, dalla Signora Caterina degli Onofri. Era un gran bel podere, confinante con la ns. proprietà. Loro, una buona famiglia di grande reputazione : persone laboriose, oneste e generose.
Alle cinque e mezzo del mattino seguente, puntuale, ero sull’aia. Già vi trovai altre persone. Donne con sgargianti fazzoletti legati al collo e del cappellacci di paglia in testa. Uomini indaffarati a livellare la trebbiatrice, con delle zeppe di legno che venivano inserite sotto le ruote di ferro.
Tutti assieme facevano un gran baccano. Partivano ordini urlati da ogni parte. Le donne operaie vociavano come al lavatoio. Il motore fu messo in funzione, si trattava di un “Bubba” a testa calda, a petrolio. Era collegato alla trebbiatrice con un “cinghione”. Dalle nostre parti ancora non era arrivato il trattore a cingoli.
La trebbia era grande, bella, tutta di legno color marrone chiaro. Nella sua imponenza
mi faceva quasi soggezione.
In mezzo all’aia si ergeva un bellissimo “barco” di grano che sembrava un monumento. Alto, tutto tondo come una pagoda. Piantata sulla cuspide v’era una croce di canna.
Le spighe spiovevano verso terra, tutte allineate e pari come un tetto di coppi.
Era proprio un capolavoro. Un vero peccato doverlo smontare. Avrebbe potuto piovere anche per un mese che l’acqua, certamente, non sarebbe penetrata a bagnare il grano nel centro del “barco”.
Di fianco si trovava un altro “barco” più piccolo, di orzo. Per terra, sotto i due barchi e tutt’intorno vi era stata spalmata la “ biuvacca”, che rendeva il piano terra, liscio e marrone, rilucente al sole come un pavimento di cotto delle nostre case di oggi.
Seppi che la “biuvacca”, veniva fatta con lo sterco di vacca allungato con acqua.
Si spandeva sull’aia perché, con la scopa, si potesse meglio raccogliere il grano che sarebbe caduto a terra durante la trebbiatura ed anche perché non si formasse fango in caso di pioggia.
Ernesto, il capo squadra, inizio ad assegnare la posizione di lavoro a tutte le persone della squadra. : Due donne con i rastrelli alla pula, erano : la Rosina di Gigiot, signora magra e minuta come uno stecco, e la Teresa di Luigi, la quale, invece, era robusta e grassa . Indossavano dei vecchi calzoni dei loro mariti, lisi e rattoppati.
Alla paglia, mandò altre due donne energiche e toste che, con le forche dovevano spingerla verso il pagliaio in crescita. Le forcate di paglia venivano prelevate da Giovanni di Capro, detto Zvanén, il quale assieme alla Maria di Falchetto, costruivano e modellavano, con consumata perizia, il pagliaio.
Poi, mandò due uomini, coi tridenti, sopra il barco; dovevano alzare le cove di grano e passarle alla Filomena, moglie di Tugnon che, lesta come la polvere da sparo, con un falcetto le slegava e le passava al “paiaròl”, (Domenico dei Sassoni), detto Minghin; era lo specialista della battitura.
Infilava mannelli di spighe nel battitore, in giusta misura . Né troppi, nè pochi, ciò per non intoppare la trebbia. Il suo era il lavoro più delicato e rischioso.
Alvaro, un ragazzo di tre, quattro anni più grande di me, molto in gamba, era l’abile aiuto macchinista. Lo invidiavo nel vederlo destreggiarsi con gli appositi attrezzi, attorno al motore, tutto schizzato di olio.
Dopo aver posto ogni operaio alla propria mansione, mi chiamò : “ a te Stefanino che sei ancora “bocia”, non voglio farti ingoiare tanta polvere, ti metto alle buchette dietro alla trebbia, dove esce il grano. Apri e chiudi e due sportellini; quando il sacco è pieno lo togli, poi aiuta gli altri uomini a pesare i sacchi con la “stadèra”. Però sta attento al “cinghione”, che è molto pericoloso : l’altr’anno nel podere di Camporcino, un uomo restò sfregiato per esserci passato sotto.”
Nel frattempo giunsero sull’aia i figli della padrona del podere. Portarono molti sacchi di juta ed altri di tela di canapa, bianchi con righe marroni. Li aveva tessuti in casa d’inverno la Caterina, col vecchio telaio di famiglia.
Essi spostavano e pesavano i sacchi di grano e, con una matita vi segnavano sopra il peso.
Si iniziò a trebbiare verso le sei e mezza. Un rumore assordante, un fumo, un polverone che sembrava fosse comparsa la nebbia.
Quelle povere donne addette alla pula, e quelle alla paglia, dopo poco, parevano dei mostri : tutte coperte di pula e di polvere, oltre quella che inghiottivano respirando.
Anch’io, come altri, misi un fazzoletto attorno alla bocca.
Per due, tre volte si ruppe il cinghione di cuoio, che collegava il motore alla trebbia, trasmettendole energia, per far girare le pulegge e i valli.
Il motorista, ad ogni intoppo o problema, sgranava rosari di bestemmie che bruciavano l’aria. Più volte, fra lui ed il “paiaròl”, scoppiavano accalorate discussioni che sfociavano in litigi. Quest’ultimo, secondo lui, intoppava il battitore inserendovi troppe spighe in una volta. Si scambiarono un sacco di brutture da cani.
Intanto che aggiustavano il cinghione, giunse la Gigina, nipote della padrona.
Una ragazza mora, mia coetanea, dotata di tutte le curve giuste, con capelli lunghi sciolti e gli occhi neri come il carbone, con un fiasco di vino e un bottiglione d’acqua, offriva da bere a tutti.
Vi erano certi uomini che si bevevano anche tre bicchieri di vino di seguito. Le donne lo annaffiavano con l’acqua.
La Gigina, mi si avvicinò e, sorridendo, chiese : “Stefano, vuoi acqua o vino ?”, balbettando dall’emozione risposi: “ solo acqua, grazie !”
Passò oltre seguita dal mio sguardo, appiccicato come una calamita, alla sua sottana a fiori, svolazzante .
Dalla sua bocca larga, la trebbia, sputava di continuo tanta paglia che, a stento, quelle donne riuscivano, in tempo, a tirarla via da sotto.
Il grano che usciva abbondante dalle buchette era pulito e sano. In pochi minuti il sacco era pieno, ed io, svelto, lo toglievo e, al volo, ne sistemavo un altro vuoto.
Arrivati ai 100 sacchi, il macchinista suonò a lungo la sirena.
Era una bella giornata, il sole di fine luglio scottava sulla pelle. Proprio tutti portavamo un cappello di paglia in testa.
Il sudore calava, sulla fronte e sul corpo, la pula e la polvere si appiccicavano alla pelle e scendevano lungo la schiena, provocando un prurito insopportabile.
Verso le ore quattordici, fu inserita nel battitore l’ultima cova di orzo.
Spensero quel motoraccio nero, a testa calda, che faceva un rumore d’inferno. Persino i polli, spaventati, stavano alla larga e, finalmente, si fece silenzio.
Giovanni, detto Gigiot, che stava in vetta al pagliaio, si fece issare, una corona, come d’alloro, fatta con rametti di quercia intrecciati che pose in cima a mò di cappello, che poi riempì di terra.
Fu allora che giunse la Signora Caterina, ad invitare tutti a casa per il pranzo.
Ci attendevano due tavole apparecchiate sotto il loggiato. Pranzo da tutti atteso.
Era risaputo che presso questa famiglia sarebbe stato ricco, abbondante e prelibato, come quello dei matrimoni.
L’azdora veniva aiutata in cucina dalla nuora e da due vicine di casa, brave cuoche, che si scambiavano vicendevolmente i favori.
Ci lavammo alla meglio le mani e il viso nella vasca di pietra dove, di solito, bevevano le mucche. Era stata riempita con acqua del pozzo.
Per primo invitò Ernesto a capo tavola, alla sua destra, il motorista Sprangon, il proprietario della trebbia e del “bubba”, quindi il “paiarolo” e tutta la squadra, compreso i due contadini venuti a dare una mano. Seduti a tavola eravamo 20 persone.
Subito portarono in tavola due zuppiere di minestre in brodo : cappelletti e passatelli, poi, quattro fiamminghe di tagliatelle al ragù composto di fegatelli di pollo.
Per secondi servirono, in quattro piatti da portata, arrosti misti: galletti, coniglio, tacchino e umidi di piccione con patate.
Tutta carne di animale del cortile, preparati il giorno prima. Cotti in grandi tegami di coccio nel forno a legna dopo aver sfornato il pane.
Emanavano un buonissimo odore di genuino che inebriava. Seguirono i contorni. Patate fritte, pomodori e melanzane in gratè al forno. Non mancarono le insalate..
L’azdora, invitava tutti a servirsi, senza fare complimenti . Carne genuina, pane fragrante e quant’altro abbondavano.
Tutti bevvero parecchio. Anch’io mangiai e bevvi come non mai, assaporando ogni piatto con gusto e sommo piacere. Il vino mi inebriava togliendomi la timidezza cronica che mi affliggeva, riuscendo così a scambiare qualche parole con la bella Gigina.
Malgrado tutta la fatica della mattinata, gli uomini e le donne della squadra si mostrarono molto allegri e gioviali.
Alcuni uomini raccontavano delle storielle, anche piccanti, le donne reagivano ridendo sguaiatamente. Invece alle barzellette spinte ridevano arrossendo, fintamente imbarazzate.
Per giustificarsi, gli uomini, le invitavano di lavarle, trangugiando un bicchiere di vino ad ogni barzelletta.
Cantavano : “ L’uselin della comare”, “ Lo spazzacamino”, Il molinaro con : “dagala ben biondina...”, ed altri stornelli simili.
Verso le diciasette si finì di pranzare. Tutti gioiosi, e qualcuno alquanto brillo. Anche Sprangon, il macchinista, e Minghin, il paiarolo, fecero la pace dandosi pacche sulle spalle e sollevando i bicchieri per infiniti brindisi.
Si era ai dolci : ciambelle, biscotti e budino, bagnati con anice, mistrà e grappa fatta in casa, quando d’un tratto, s’udirono strani muggiti, come di animale in sofferenza, provenire dalla vicina stalla. Subito, il padrone di casa, allarmato, si alzò : “ scusate, devo correre in stalla, c’è una mucca che sta per partorire “ e, rivolto agli uomini : “ se due di voi se la sentano di aiutarmi a tirare fuori il vitellino tirandolo per le zampe e, se necessario, imbragandole con la corda, mi farebbe piacere. “ Il fratello Pio, Sprangon e Minghin si alzarono, seguirono Fafin, mentre tutti gli altri, me compreso, restammo seduti a gustarci i dolci appena serviti.


Il ruggito della terra, di Rosella Rapa





Il ruggito della Terra
di Rosella Rapa




Il mio terremoto fu quello dell’ormai lontano 1976, in Friuli.


Io sono Piemontese, ma mia mamma, e sua mamma e innumerevoli generazioni di mamme erano nate a Majano (vicino a S. Daniele, provincia di Udine) uno dei paesi che fu più colpito.


Non ce ne accorgemmo subito. Quel giorno eravamo tutti già tristi, abbattuti. Il nonno, quello paterno, era mancato da poco, ed eravamo andati alla sua messa di Trigesima. Nessuno era in vena di chiacchiere o divertimento; lo schermo grigio-verde della TV a due canali rimase muto.
D’un tratto sentimmo un leggero brusio dal pavimento e mio padre alzò gli occhi verso il lampadario che faceva l’altalena.
  • Il terremoto. – osservò con voce neutra.
Capita spesso a Torino: le Montagne si agitano e i sussulti arrivano smorzati in pianura.
Andammo a letto, stanchi.


Cosa accadde il giorno dopo non lo ricordo con precisione: mio padre prese il quotidiano, ma se lo lesse subito o più tardi, negli intervalli tra le lezioni, non lo so. Ricordo però benissimo che a un certo punto partì una ridda di telefonate, che rimbalzavano di casa in casa, di strada in strada, di paese in paese. Non tutti avevano il telefono allora, né la TV; in più apparve chiaro che molte linee telefoniche erano interrotte. La TV invece mostrava impietosa quel che restava di un paese, vivo fino al giorno prima. Majano era un susseguirsi di rovine: la Chiesa distrutta, il suo “Bel Campanile” polverizzato, le bianche case contadine ripiegate su se stesse.
Finalmente arrivò una notizia: Anna, una lontana parente, fece sapere che stavano tutti bene. Ma chi erano questi tutti? Tutta la sua famiglia o tutto il paese?
Continuarono ore e ore di attese snervanti, con la TV che si era spostata per mostrare Gemona, storico paese di montagna, completamente frantumato.
Verso sera piombò in casa nostra mia nonna, giunta trafelata da Biella, con un giornale in mano, bianca come un lenzuolo, gli occhi fuori dalle orbite.
  • Tutti! Sono morti tutti! –
  • Chi? Cosa? Ma come? La TV… -
  • Non hanno fatto vedere QUESTO ! – Esclamò la nonna Friulana.
Erano due condomini gemelli, originariamente di 5 piani, completamente accartocciati su se stessi.
  • C’era il Pieri, con la Ida… e mio cugino Toj… -
In tutta onestà, io non sapevo chi fossero queste persone, e i condomini non li avevo mai visti. Lasciai mamma e nonna a fare l’elenco dei parenti e a chiedersi se davvero non c’era nessuno vivo e portai la mia mente confusa sulle foto impietose. Un castello di carte abbattuto da un soffio, ecco cosa restava. Rammento benissimo un balcone, con i parapetti in vetro, perfettamente intatto sopra il cumulo di macerie. Pensai che per salvarsi da un terremoto, la cosa più sicura doveva essere uscire sul balcone.


Altre telefonate, giornali, TV, notizie a spiccioli e bocconi, finché finalmente arrivò la conferma che i nostri parenti diretti, il fratello della nonna, con tutta la famiglia, erano vivi e in buona salute, ma in lutto. Nei condomini erano morti quattro cugini anziani, e un ragazzino. Il padre era passato per invitare i genitori a cena, e disse al figlioletto:
  • Vai su, ti aspetto in macchina, chiama i nonni. –
In quel momento scoppiò l’inferno.




I Friulani non sono gente che si piange addosso.


Iniziarono subito a scavare, raccogliere, ricostruire, riparare.
I bambini però non possono lavorare, e non potevano andare a scuola, perché la scuola non c’era più. I miei genitori pensarono quindi di ospitare la cugina di mia mamma, Nine, con i due figlioli. Restarono da noi un paio di mesi, poi la loro casa fu dichiarata agibile, e decisero di tornare al paese, dove il papà continuava a scavare.


I giorni scorsero tranquilli: noi andammo persino a fare un viaggio, completamente rilassati. A settembre poi la nonna portò noi tre bambini al mare, vicino al Tagliamento, non lontano dal suo paese.
L’atmosfera era festosa. Il fratellino piccolo andava sempre sulle giostre con il padrone di casa, io cantavo le musiche che ci facevano compagnia a volume moderato, e non spaccatimpani. Apettavamo mamma e papà che ci avrebbero portati un po’ in giro.
Era tutto molto quieto: si andava in riva al mare per godere dell’ultimo sole; i negozi già chiudevano per trasferirsi in città, avrebbero aperto solo alla fine della primavera successiva. Ogni giorno qualche casa mostrava le tapparelle serrate, e dalla spiaggia semideserta si toglievano pian piano le lunghe file di ombrelloni.
In questo clima crepuscolare, tra una canzonetta e una valigia aperta, mentre sognavo chissà che,


SENTII IL RUGGITO DELLA TERRA.


Ci precipitammo giù dalle scale esterne, dimentichi di ogni consiglio, di ogni invito alla prudenza: sentivo le voci di mia nonna e della padrona di casa urlare qualcosa come “Fuori, fuori tutti!”, e fuori ci ritrovammo, nel giardino ormai senza giostre, ad osservare la casa che tremava e il terreno che sussultava.


Non c’era molto altro da fare: i miei genitori partirono da Torino in fretta e furia per venirci a prendere, le case al mare chiusero d’un colpo; i miei parenti furono trasferiti negli alberghi vicino alla costa, insieme a tutto Majano e a tutti gli altri paesi colpiti dal sisma. Ciò che la prima scossa aveva lasciato in piedi, la seconda aveva definitivamente distrutto. Poi passarono le ruspe a spianare il tutto, e così finì la vecchia Majano.




Circa un anno dopo andammo a far visita ai miei parenti, che vivevano nelle “baracche”.
Ricordo Majano come una lunga fila di case bianche, più o meno malandate, con una piazzetta rotonda (tutto ciò che restava di un pozzo molto antico) e al fondo un negozio-albergo, la chiesa e il campanile.
No, non restava più nulla. Persino mia mamma non trovava punti di riferimento, e mia nonna diceva: “Questo non è il mio paese. Non è il mio paese!”
Trovammo le “baracche”: dei bungalow abbastanza graziosi e comodi, solo molto vicini gli uni agli altri. Intanto stavano già sorgendo dei piccoli condomini, e delle villette nei dintorni. All’orizzonte, su una specie di bassa collina, c’era un parallelepipedo grigio scandito da porte verdi e finestre rosse.
  • Cos’è quello? – chiesi a mia nonna
  • Sono le Case Fanfani. Case popolari, costruite dopo la guerra. -
Rimasi allibita. Quelle cose orrende, costruite con larga abbondanza di cemento armato, erano rimaste tranquille a guardare lo scompiglio intorno a loro. Case popolari, dove non si pagava nemmeno l’affitto.


Pensavo che non avremmo più rivisto Majano, invece dopo qualche mese eravamo di nuovo lì. Un funerale. Lo zio Iba, il fratello di nonna, non aveva resistito. Tutti i giorni tornava a vedere l’asfalto su cui un tempo sorgeva la sua casa, la casa di sua mamma e di tutti i suoi ricordi, belli e brutti. Anche molto brutti, ma era la “sua” casa. Il cuore cominciò a sentire troppo peso, finché in pochi giorni si fermò. Non fu un infarto, semplicemente smise di battere.




Io non so se furono queste vicende, semi-sepolte nella memoria di una ragazzina, a spingermi a studiare geofisica. So solo che quando presi in mano la mappa sismica dell’Italia sentii un brivido lungo la schiena: nessun luogo era sicuro. L’intera nostra penisola, eccetto la Sardegna, è a forte rischio sismico, in alcuni luoghi fortissimo. Perciò, ogni volta che la tragedia si ripete, io non piango, io non prego, io non chiacchiero: io penso alle “Case Fanfani” e quante vite e si sarebbero potute salvare se dal ’76 ad oggi si fossero adottati i rigidi criteri antisismici che il nostro territorio richiede per le nuove costruzioni. TV e giornali riportano solo i dati di quanti muoiono sotto le macerie, ma non si sa chi entra in ospedale e non ne esce più, oppure resta su una sedia a rotelle, o perde la vista o perde la ragione, restando con la mente sconvolta. E per quanto riguarda gli edifici storici, intere città… a Gemona, sopra Majano, gli abitanti andarono a cercare le pietre antiche, una per una, perché non venissero razziate da turisti col senso del macabro.




Non sono mai più ritornata a Majano. Quello è un capitolo chiuso della mia infanzia.
Mia mamma mi ha detto che hanno ricostruito il campanile. Sono andata a vedere su Internet: un orrore a forma di scala, in ferro e cemento. Hanno aspettato 40 anni, potevano aspettarne altri 40.


Non capisco: l’Italia non si ama, e non si amerà mai.


La canzone di Maria, di Renzo Montagnoli





La canzone di Maria
di Renzo Montagnoli


Perché era andata a rovistare nella soffitta, fra ragnatele e vecchie cassapanche polverose?
Maria se lo andava chiedendo, mentre buttava da un lato vecchi stracci, conservati senza un motivo, senza una logica.
Forse era il tempo che non le mancava, le poche ore di sonno, la tediosità di una vita in solitario di una signora che aveva passato ormai la settantina.
Quella mattina si era alzata assai presto, quando ancora non albeggiava, e dopo le abluzioni aveva preso il solito caffè, d'orzo però, come le aveva consigliato il medico a causa dei disturbi del suo cuore; più che un malanno era un fastidio, un'aritmia ricorrente che le metteva affanno.
Il giorno prima aveva lavorato a lungo, preparato la camera degli ospiti, armeggiato in cucina per preparare quei piatti che a sua figlia piacevano tanto e questo perché lei e il marito sarebbero arrivati con il nipotino all'indomani. Non la vedeva da un anno, perché Livia, così si chiamava, da quando si era sposata si era trasferita con il marito negli Stati Uniti, dove lui lavorava in un laboratorio di ricerche. I contatti, se pur telefonici, erano frequenti, ma rivederla era tutta un'altra cosa.
Nell'attesa, quindi, le era venuta l'idea di fare un salto in soffitta a fare un po' d'ordine.
Mise da una parte una gran quantità di giornali ammuffiti, poi passò a un'altra cassapanca, l'aprì e sotto una patina di polvere vide una grossa agenda. Avvertì una forte palpitazione, la prese subito in mano e rimase a contemplarla: sul dorso era impresso l'anno 1938.
Aveva sempre avuto la passione di tenere un diario, ma aveva conservato solo quello e lei sapeva bene il perché. Con mani tremanti iniziò a sfogliarla fino a quando arrivò al 10 aprile; si aggiustò gli occhiali e si mise a leggere.
 
Oggi ho compiuto gli anni; c'è stata una grande festa in famiglia e il papà ha comprato una torta con 20 candeline. Mi sono emozionata e anche commossa: sono venute tutte le mie migliori amiche e c'era anche lui, Stefano. Mentre tagliavo la torta, ho visto che mi sorrideva. Quanto è bello, non è un uomo, ma un sogno; potrò mai aspirare un giorno a essere prescelta da lui per essere sua moglie? Io credo proprio di amarlo, ma lui… amerà me? Quel sorriso può significare tante cose, anche un semplice cenno di amicizia.
Abbiamo mangiato la torta, ma io non ho avuto occhi che per lui. Penso che se ne sia accorto, perché a un certo punto mi si è avvicinato e mi ha detto – Buona, veramente buona Maria; una gran bella torta, degna di una gran bella ragazza.
Credo di essere arrossita, ma quelle parole mi hanno inebriato, più del bicchierino di spumante che mi sono sforzata di bere.
Poi ho aperto i regali e mano a mano che mi passavano i pacchetti attendevo ansiosa quello di Stefano e quando è arrivato ho sciolto quasi tremando il nodo del pacco che piccolo non era, e infatti c'era dentro un disco.
L'ho voluto sentire subito ed è bellissimo, una canzone solo per me intitolata “Parlami d'amore, Mariù”; l'ho ascoltata come in sogno e lui era di fianco a me; a un certo punto mi ha cinto la vita e mi ha invitato a ballare. Non credo di aver mai danzato così male in vita mia come oggi; non sentivo la musica, intorno a me non c'era più nessuno, se non lui.
Dio mio, fa che questa felicità abbia a durare in eterno.”
 
Una lacrima fece capolino fra gli occhi, ma l'asciugò subito e fece scorrere le pagine successive, in cui il diario di ogni giorno cominciava con “Il mio Stefano”, poi arrivò a un punto in cui il foglio era in parte strappato; si fermò un istante, mentre avvertiva la tristezza che l'assaliva; si fece quasi coraggio e cominciò a leggere.
 
20 settembre
Il mio Stefano non è più mio; oggi ci siamo lasciati, o forse è stato lui a lasciarmi, incapace di sopportare l'amore che gli riverso ogni giorno; sono sicura che non ha un'altra, ma è da un po' di giorni che ho notato che si va raffreddando nei miei confronti e quella  magica atmosfera è diventata un grigiore piatto; forse siamo troppo giovani con i nostri venti anni,
forse l'amore è così, un sogno che con il tempo si affievolisce; non sono più sicura di amarlo come prima, e forse è meglio che tutto finisca presto.”
 
E notò che l'ultima riga era sbiadita, come se le lacrime avessero diluito l'inchiostro.
Ripose il diario, fece scorrere le mani lungo uno dei fianchi della cassapanca e trovò il disco. Diede una spolverata alla vecchia copertina e decise di riascoltarlo dopo tutti quegli anni.
Ne era passato tanto di tempo, da quel 20 settembre non aveva più rivisto Stefano, di lì a qualche mese aveva conosciuto Roberto, più vecchio di lei di una decina di anni, si erano piaciuti e già alla fine della primavera dell'anno successivo si erano sposati. Poi, la guerra, gli anni difficili del dopo, la nascita di Livia, la morte improvvisa di Roberto, un buon marito in un matrimonio più d'affetto che d'amore.
Scese le scale e arrivò in salotto, accese il giradischi e…
 
Le note si diffusero nella stanza e con esse le parole della canzone
Parlami d'amore, Mariù
Tutta la mia vita sei tu
Quella spina che le era rimasta in fondo al cuore le provocò una fitta, un tremendo senso di sconfitta, una lacerazione dell'animo che neppure lo sfogo delle lacrime riuscirono a placare.
Gli occhi tuoi belli brillano
Fiamme di sogno scintillano”
Perché, perché era finito tutto, perché il sogno era cessato?
E chissà dove era ora Stefano?
Dimmi che illusione non è
Dimmi che sei tutta per me”
Strinse forte i pugni, soffocò l'urlo che prepotente chiedeva di uscire dal suo petto.
Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore Mariù…”
Le parve di impazzire, con i ricordi che si accavallavano alla realtà del presente, sogni, speranze mancate contro le concretezze del tempo trascorso.
Si sentì quasi mancare, ma non c'era altro da fare, ormai.
Si alzò, spense il grammofono, ne trasse il disco e lo spezzò in tante piccole parti, poi decise che anche il diario avrebbe fatto la stessa fine.   


La carica degli ultimi, di massimolegnani





La carica degli ultimi
di massimolegnani


Ve lo voglio raccontare quello che ci è successo un giorno, successo a noi che eravamo i manovali del dolore. Ad essere ordinati dovrei iniziare dal giorno della nascita, ma allora ancora non sapevamo nulla, oppure, ad essere sintetici, potrei partire dalla morte, ma a quel punto sapevamo tutto. 
Il fatto è che non è stato per tutti lo stesso giorno, ognuno ci è arrivato attraverso un cammino suo, tortuoso o rettilineo, a seconda. 
Ma di cosa stai parlando, mi chiederete voi, già stufi di leggere nel vago. Non lo so, ho tutto chiaro in mente, ma non è facile spiegare l’affiorare degli affetti, quelli semplici, che ci vuole come un viaggio o una fatica per arrivare a togliere il guinzaglio ai sentimenti, non è facile spiegare il prevalere dei gesti privi di pudore sull’asettico rigore di facciata, spiegare quell’andare oltre la coscienza e il senso del dovere per scoprire che c’è dell’altro, più gratificante e giusto se lo sai sentire. Non è facile spiegare e c’è voglia di tacere. 

Vorrei che conosceste già gli avvenimenti che non mi va di raccontare. Sapete, i fatti sono poco più di un dettaglio necessario, quasi una zavorra per quanto ci è successo dentro. 

D’accordo, d’accordo, se non parlo non potete voi capire lo splendore di papà Davide, il camionista sempre in viaggio, che a cose ormai accadute viene in cucina a chiederci un caffè come ci stesse conferendo un piccolo nobel o la bellezza di mamma Sara, bambolotto sovrappeso di panetteria, che non viene a dire grazie ma a spartire l’emozione di frivole parole. 
Va bene, vi spiego.
Io lavoro in un reparto di provincia, come un albergo a ore, tanta routine, piccoli drammi e poca gloria. 
Alessandra, pochi mesi, tutti vissuti con fatica, ci rimbalza addosso come un pallone elastico scagliato contro il muro. L’avevamo trasferita, tempo prima, alla Rianimazione dell’Infantile, dopo l’ennesimo catastrofico peggioramento. Ma un giorno ci telefonano che ce la rimandano indietro, i genitori hanno espresso il desiderio di sospendere le cure intensive e del resto in questo momento la bambina non ha bisogno del respiratore. 
È una rogna quella che ci sta cadendo addosso e i più scaltri di noi lo capiscono subito. E subito si attrezzano indossando i panni professionali e il camice deontologico, la faccia rigorosa e i termini forbiti (noi siamo tenuti a, legalmente non possiamo esimerci, occorre valutare il risvolto giuridico..); il tutto per tenere lontana la patata bollente. I più scaltri di noi, Nicoletta invece non ce l’ha nemmeno un camice con cui proteggersi, solo magliette poco serie, Nico non sa nascondersi dietro le parole ( fanculo! Ditelo chiaro, è una rottura di coglioni, un vegetale che viene qui a morire con cui non possiamo nemmeno far finta di essere a E.R.), Nico è cocciuta (abbiamo un’occasione unica, non salveremo nessuno, ma forse impareremo ad essere umani), Nico trascina, testarda. 
Ecco, forse è tutta qui la storia, con Alessandra che torna da noi a morire, tra pochi già capaci di accoglierla e i più che ancora si tengono lontani. Ma è lunga la morte attesa, ad Alessandra bastano l’ossigeno e il latte nel sondino per restare attaccata alla vita, come a un passerotto bastano le briciole che gli lasci sul davanzale. 
Ecco, mi fermo qui, a questo tempo sospeso che credevo inutile tempo d’attesa e che s’è fatto mirabile tempo d’azione. Azione degli umili, delle comparse, di quelli che pensi che abbiano poco da dire e niente da dare. 
Mi fermo qui, il resto immaginatelo voi. No, dovete sapere ancora una cosa: dopo un mese i genitori si sono sentiti pronti a portare a casa Alessandra così com’era, moribonda e ancora tenacemente viva. E a casa l’hanno accudita bene, con l’aiuto di Monica, l’infermiera a volte fatua a volte fata, che senza che nessuno gliel’avesse chiesto, ogni giorno dopo il lavoro passava da loro a controllare che ossigeno e sondini fossero in ordine. Ma quando la bimba “finalmentenon ce l’ha più fatta, l’hanno riportata da noi. Capite? Sono tornati qui a condividere le ultime ore della loro figlia, il percorso inverso di qualunque genitore.  E hanno trovato il calore colorato che cercavano.
Ecco, sì, adesso avete tutti gli elementi per immaginare quel tempo sospeso ed il suo epilogo.
Sappiate solo ancora che queste cose possono avvenire solo di notte, quando si è più raccolti, vicini, sinceri, perché il buio aiuta a trovare il filo rosso, quello che ci lega tutti.
E allora adesso immaginate la risata grassa di Antonietta a contagiare mamma Sara negl’istanti tristi, immaginate Alessia, di solito scontrosa, parlare per ore di notte con papà Davide dei tempi giusti per lasciar andare, immaginate Mauri trovare parole semplici a spiegare la deontologia, ma quella vera, quella fatta di cura e cuore più che di cure ormai inutili, immaginate Nico tornata in piena notte in reparto solo per essere presente, immaginate Annetta l’inserviente più minuta e silenziosa, spostare scrivanie e lettini, mettere sedie e fiori, insomma trasformare l’ambulatorio in camera ardente perchè, dottore, mica possiamo permettere che Alessandra vada a passare la notte in obitorio! 
E tu che hai fatto, mi chiederete.
Io? Io ho imparato qualcosa di buono da ciascuno, spero. E di getto ho scritto una lettera ai genitori come fossi la loro figlia che li salutava e li confortava.