sabato 9 novembre 2019

I racconti






Il Natale di Poldo
di Renzo Montagnoli




Si accovacciò contro un pilone del ponte, per parare un po’ il vento che accresceva la sensazione di freddo, ma era tutto bagnato, per via di quella neve che, cadendo, faceva un pulviscolo che entrava ovunque. Anche quel giorno era arrivata la sera dopo tanto peregrinare in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, ma, all’infuori di un tozzo di pane rinsecchito, non aveva trovato altro, e per di più aveva dovuto combattere per difenderlo, e ora gli faceva male una zampa che un pastore tedesco, compagno di sventura, aveva morso nel tentativo di impadronirsi di quel poco cibo. Guardò in su e non vide nulla, se non i vortici della neve che cadeva; non c’erano altre possibilità di trovare qualcosa da mangiare e allora tanto valeva cercare di dormire, per avvertire meno i morsi della fame e il gelo che implacabile faceva breccia nel suo corpo. Fu così che si addormentò e che subito prese a sognare. Si vide cucciolo intento a poppare dai capezzoli della mamma, di cui non ricordava il muso, ma che aveva sempre desiderato poter ritrovare. Forse quella vita randagia insieme a lei sarebbe stata più sopportabile, una vita che non aveva cercato, ma a cui era stato costretto. Era ancora da svezzare quando era stato venduto a un vecchio che anziché curarsene lo batteva per ogni errore, perché, per esempio, faceva pipì in casa e lui che colpa aveva di questo, se non veniva portato fuori per farla? Poi l’anziano era morto e lui era stato preso dal figlio, forse peggio del padre, visto che spesso e volentieri si dimenticava di dargli da mangiare e che sovente lesinava anche sull’acqua, soprattutto in estate, quando, legato a una corta catena, stava nel cortile assolato a fare la guardia. Un tormento, la sete, che incideva sulla naturale bontà del suo animo, che lo portava ad abbaiare e a ringhiare con tutti in un crescendo di dolore che lo stravolgeva. Poi, un giorno, non si sa come accadde, si ruppe il collare e così si trovò libero; corse subito via, attraversò la strada fra auto che frenavano di colpo e senza orientamento camminò, camminò tanto, quasi a voler mettere fra sé e il suo padrone una distanza insormontabile. Iniziò così la dura vita del randagio, fatta di lotte per lo scarso cibo, di freddo in inverno e di caldo torrido in estate, ma era pur sempre meglio di essere legato a una catena, di essere considerato solo uno schiavo. Nel sogno questa succinta storia della sua esistenza non c’era, mentre invece era un susseguirsi confuso di immagini, quasi tutte dolorose, visto che nella sua vita mai aveva conosciuto l’affetto di un padrone. Si vide piangente, un lungo fremente guaito davanti a una porta che si apriva sul buio e che lui istintivamente si sforzava di non valicare, perché oltre intuiva un salto nel nulla. Senza famiglia, senza carezze, non c’era tuttavia un senso a continuare, ma i sogni permettono molto, ci fanno vivere ciò che speriamo, e infatti anche lui a un certo punto avvertì il caldo tepore di un focolare, il profumo di una zuppa nella ciotola, una mano leggera le cui dita affondavano nel pelo irsuto della sua schiena, una sensazione mai provata, un sogno meraviglioso da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi. E invece udì delle voci, il trillo di un campanello, si sentì sollevare e allontanare, se pur di poco, dal calore di quel fuoco, si accorse che la zuppa era ora a stretto contatto con il suo muso, estrasse la lingua ed esplorò soddisfatto la ciotola. Cercava di non risvegliarsi, ma ebbe una strana sensazione, e cioè come se quello che vedeva nella sua mente assopita fosse vero, reale e cercò anche di opporre resistenza quando udì una voce che lo invitava a svegliarsi. Poi aprì un occhio, si guardò intorno e spalancò anche l’altro: non c‘era più il ponte, la neve non cadeva, era disteso su un panno in una camera vicino a un focolare, davanti a lui c’era la ciotola con la zuppa e più in là un uomo e un bambino che lo guardavano.
- Si è svegliato, papà.
- Vedo, mi fa piacere.
- Lo teniamo, vero papà? Chissà quanto ha sofferto senza nessuno, ma adesso ci siamo noi.
- Sì, lo terremo e ne avremo cura, ma bisogna trovargli un nome. Come lo chiamiamo? Dick, Black, ma nero non è, Birba?
- No papà, oggi è Natale, il giorno in cui è nato Gesù, lo vorrei chiamare Natalino.
- Dai, un nome così a un cane? Gesù forse si offenderebbe? Trovane un altro.
- Vediamo, non saprei, ma no, ecco forse ho trovato: Poldo.
- Bellissimo nome e piace anche a lui e infatti si è messo a scodinzolare.
Poldo li guardava in estasi e pensava fra sé che anche lui come quel Gesù si considerava nato a Natale, perché quella che stava per iniziare era la vita che aveva sempre sognato.






La nostalgia delle sirene
di massimolegnani




Cammino nel primo buio di città, che vero buio non è mai, tra una folla in fervore natalizio, la folla, non io, che devo solo fare una commissione che col Natale non c’entra nulla e ho scelto l’ora peggiore per farla.
Passi affrettati a togliermi d’impiccio e un umore nero che mi serpeggia dentro, quando una sirena improvvisamente squarcia i canti d’atmosfera diffusi da ogni dove per la via: un’ambulanza si destreggia nel traffico e presto ne resta intrappolata, nelle auto musica palla o chiacchiere distratte, bambini che strepitano, genitori che litigano e nessuno che si sposta. Adulti, anziani e piccoli si tappano le orecchie infastiditi dal persistere del sibilo come fosse colpa della lettiga l’essere lì bloccata. Io le orecchie le dilato al bel suono del soccorso e provo un furore da highlander, potessi ammonticchierei le macchine ai lati della strada per aprire un varco come quell’altro le acque del Mar Rosso. Poi per fortuna l’ambulanza non so come riprende la sua corsa e la sirena si fa sempre più lontana. La gente torna a muoversi stupidamente trafelata, tutto riprende a scorrere e a correre, solo io resto lì sul marciapiede scosso da un tremito che non è di freddo. È che mi emoziono al suono bitonale e a quello acuto, allo sfolgorare dei lampeggianti blu, alle tante manifestazioni dell’urgenza, sono un cane di Pavlov che scodinzola a quel sibilo che mi riporta a quando da bambino sognavo di salirci sull’ambulanza e a tutti gli anni in cui poi lì sopra ci sono salito veramente.
Abitavo in corso Sempione, vicino all’Ospedale, e ogni volta che sentivo l’ululato di una sirena correvo alla finestra per non perdermi il passaggio. Guardavo l’ambulanza, immaginavo dentro la persona sofferente e mi esaltavo al pensiero che di lì a poco papà, che era chirurgo, le avrebbe risolto ogni male e malattia. Forse fu allora che, per la magia di quella macchina speciale che raccattava in giro feriti e moribondi e di corsa li portava a riparare in quell’altro luogo miracoloso dove per me la riparazione, la guarigione, erano l’unica ipotesi possibile, decisi di diventare medico.
E vent’anni dopo ho cominciato a far trasporti verso una qualunque meta, Torino, Genova, Alessandria, Milano, ovunque ci fosse qualche speranza di salvezza in più. Viaggi veloci quando erano neonati dal respiro flebile, e febbrilmente lenti sul pavè di città quando era una testa in cocci che reggevo tra le mani, viaggi solitari con le mani dentro l’incubatrice a ventilare e a fare terapia gridando all’autista di sbrigarsi o viaggi assieme alla disperazione delle madri, i gesti misurati a non sommarle angoscia e le parole calibrate che non suonassero di beffa se vedevano la vita del figlio appesa a un filo, viaggi bestemmiando gli imprevisti e i guasti, la corrente che scompare, l’ossigeno che si esaurisce e allora ti inventavi elettricista a ripristinare i contatti e non so quale mestiere a sostituire la bombola con una chiave inglese di fortuna, e viaggi pregando tutti i santi che a volte ti smarrivi e ti scoprivi senza più risorse, viaggi in piena notte con le strade vuote e in un battibaleno sei a destinazione e viaggi in piena festa che ti monta un odio viscerale per tutta quella gente che fa baldoria per le strade o vuol tornare presto a casa e in ogni caso se ne fotte d’intralciaciarti, viaggi in ambulanze supertecnologiche con il rianimatore con cui dividere l’affanno, e viaggi su un furgone, il mio primo appena laureato, adibito per l’occasione ad ambulanza, la bambina su una barella in tela e manici di legno adagiata sul pianale, io inginocchiato al pavimento, una mano alta a reggere una flebo e l’altra a carezzare la bambina spaventata, sembrava tempo di guerra ed era l’inizio degli ottanta.
Non mi sono mai abituato alla trepidazione di quei viaggi, non ho mai raggiunto quel distacco dagli eventi che forse ti fa agire a mente più lucida, ma che certo rischia di trasformare l’emozione in disincanto e i bambini in merce da spostare da un magazzino all’altro. Non mi erano mai estranei quei bambini, li avevo visti nascere e subito declinare o li avevo curati per giorni in reparto senza ottenere un miglioramento oppure li avevo accolti in pronto soccorso, gravi da subito, allora erano cure concitate per stabilizzarli prima del trasferimento.
L’ultima sirena è stata per un bambino che me l’ha chiesta risvegliandosi da un torpore preoccupante, non era necessaria, poco più di un gioco per giocare insieme a lui, una musica per me che segnava un lieto fine e che mi è rimasta dentro.




L’aspettava
di Giovanna Giordani




L’aspettava. Inconsciamente. La sua comparsa, lo sapeva da sempre, era come un balsamo. Un balsamo gratuito e ineguagliabile, per le ferite dell’anima.
La vita, si sa, è sempre un’ attesa. L’attesa di cosa? Della felicità, naturalmente.
Mentre camminava, si alzò un forte vento che le schiaffeggiò il viso. Si riparò avvolgendo la sciarpa fino a coprire ben bene anche il capo. - Come una Madonna - disse sorridendo fra sé. Poi continuò, accelerando il passo.
Quante volte aveva compiuto quel gesto nella sua vita. Proteggersi dal vento che le schiaffeggiava il viso. E com’era riconoscente allo stesso quando smetteva il suo turbinare lasciandola continuare il suo cammino senza ostacoli tangibili. Così continuava speranzosa la sua vita. Sì, perché lei era un’ottimista. E si ripeteva sempre che la vita è un bel mistero che vale la pena di vivere, nonostante tutto.
Il Natale era alle porte con tutto il suo carico di sacro e profano e le giornate ne erano ineluttabilmente impregnate.
L’aspettava. Sarebbe giunta come una musica dalle note carezzevoli che dolcemente avrebbero invaso la mente raggiungendo velocemente il cuore, sempre assetato di bellezza. Il Natale era il periodo preferito per il suo arrivo.
Il vento si stava allontanando e lei sollevò il viso verso il cielo. Proprio in quel momento sentì che si stava avvicinando, ne intuì il passo leggero, e intravide la trasparenza del suo mantello. Quanta gioia! Assaporò i suoi baci delicati sul viso e si fermò in un muto ringraziamento per i suoi abbracci leggeri. Giunse davanti alla porta di casa, ma la nuova arrivata non volle entrare. - Non andrò lontano – sussurrò – se entrassi morirei, il mio posto è all’aperto, qui fuori, dove i nostri occhi s’incontreranno e parleranno per noi -.
Era dunque lì, vicina, sempre fedele e splendida. Si scambiarono sguardi colmi di complicità.
Le separava un vetro sottile, ma nulla ostacolava il loro felice muto dialogare. A lei poteva aprire il cuore, si sentiva compresa. L’ascoltò, lasciando che calamitasse il suo sguardo rapito, come in un’estasi. Tutto questo avrebbe avuto breve durata, lo sapeva. Ma nessuno, ne era sicura, avrebbe saputo donarle quei momenti idilliaci, unici, carichi di lieto turbamento e di magia dove passato e presente si eclissavano in favore del misterioso fascino carico di pace che giungeva da chissà quali lontananze portato con ineguagliabile leggerezza da quella meravigliosa... neve.






Sorriso
di Piera Maria Chessa






Fiorella andava spesso in quel supermercato, trovava un po' di tutto e i prodotti erano ottimi. Non lo conosceva fino a poco tempo prima, vi era entrata velocemente una prima volta, per caso, alla ricerca di qualcosa che non aveva trovato altrove. E fu proprio quella prima volta che incontrò una donna che, dopo qualche tempo, avrebbe contribuito a cambiare molte sue convinzioni ormai radicate.
Non seppe mai il suo nome nè mai glielo chiese, per lei inizialmente fu "la donna con il cane".
In realtà, dentro di sè, un nome glielo diede, parecchio tempo dopo, la chiamò Sorriso, perché nonostante tutto, sorrideva sempre.
Vi chiederete di chi io stia parlando, ed ora ve lo dirò.
Sorriso non era una delle tante persone che si incontrano all'interno di un supermercato, e neppure per strada, Sorriso era una donna che chiedeva l'elemosina, che era costretta a chiedere l'elemosina per poter mangiare.
Fiorella, in quel giorno di gennaio, si ricordava ancora che nevicava, la vide poco fuori dall' ingresso del negozio, appartata in un angolo per potersi riparare. Indossava abiti non adatti per quella giornata fredda, aveva capelli neri, raccolti in una sorta di crocchia, le gote rosse. Difficile intuire quale fosse la sua età. Non era bella, ma lo era il suo sorriso.
Era una donna discreta, non imponeva la sua presenza, non chiedeva
l'elemosina nè tendeva la mano. Accettava ciò che le veniva donato e ringraziava sempre. Ma non erano queste le caratteristiche che avevano colpito Fiorella, l'aveva colpita il fatto che tenesse con sè un cane e che lo trattasse con cura e affetto, dividendo con lui il poco che aveva.
Era un cane di grossa taglia, un meticcio dal manto castano, non proprio giovanissimo, esattamente come la sua padrona, e come lei piuttosto magro. Entrambi stavano accoccolati per terra, Sorriso addossata al muro, il cane accucciato ai suoi piedi. La cosa che incuriosì Fiorella fu vederla prendere una piccola coperta logora e scolorita in più parti da una vecchia sacca che teneva al suo fianco, e poi stenderla con delicatezza sul corpo del suo cane rimboccandola infine sui lati. Pensò che solo una madre poteva mostrare tanta premura verso un figlio.
Fiorella non era una persona che si commuoveva facilmente, sembrava a tratti dura nel rapportarsi con gli altri, forse perchè la sua vita non era mai stata facile, neppure da bambina. Aveva incominciato presto a nascondersi dentro un robusto guscio perché non voleva più soffrire, non dava confidenza a nessuno nè accettava confidenze. Era il suo modo di difendersi e non ne conosceva altro. Troppi insuccessi, così un giorno aveva deciso di non chiedere più niente, ma anche di non dare niente. Si ripeteva continuamente che avrebbe saputo badare da sola a se stessa, che non avrebbe avuto più bisogno degli altri.
Era stata una bella ragazza, ora, non più giovanissima, lo era ugualmente, ma da anni le esperienze negative avevano disegnato delle pieghe profonde ai lati della bocca e reso il suo sguardo duro e scostante.
Viveva da sola, casa e lavoro, lavoro e casa. Pochissime amicizie, nessuna relazione sentimentale ormai da tanto, l'unico modo per non farsi ferire, diceva a se stessa e alle poche persone che, nonostante tutto, cercavano di capire il suo malessere.
Erano trascorsi così alcuni decenni.
Ora si avvicinava il Natale, periodo che viveva con una certa insofferenza, non amava fare regali nè tantomeno riceverne, non si lasciava catturare dalla magia e dalle atmosfere di questo evento, tutte cose da lei ritenute inutili e vuote.
Eppure, doveva arrivare un dicembre particolarmente freddo per far scattare nel suo animo qualcosa che non aveva previsto e che smosse alcune sue granitiche certezze. E doveva arrivare una donna poverissima e dal sorriso sempre pronto per aiutarla a capire che la vita non è solo sofferenza e ingiustizia, che esiste anche qualcosa di gratuito che viene donato senza secondi fini.
Mancava una decina di giorni al Natale, Fiorella decise una mattina di recarsi nel solito supermercato a fare delle compere, acquistò diverse cose e si avviò verso le casse. Posò tutto sul ripiano e cercò il portafoglio per pagare. Fu in quel momento che si accorse di non averlo più. A parte l'imbarazzo, pensò alle sue scarse riserve di denaro, non era infatti il suo un lavoro ben retribuito. Si scusò con la commessa e uscì velocemente dal supermercato pensando di ritrovare il portafoglio perso probabilmente per strada. Niente da fare. Disorientata per ciò che era successo, camminò per un po' a casaccio lungo il marciapiede.
Ad un certo punto sentì una voce femminile che la chiamava, non capì subito perché la donna che le veniva incontro si esprimeva in un italiano piuttosto incerto mentre le mostrava qualcosa che teneva tra le mani. Andò verso di lei e la riconobbe. Era la stessa che da diverso tempo vedeva seduta fuori dal supermercato con il suo cane, la stessa che le sorrideva inutilmente quando lei andava a fare i suoi acquisti.
"Signora, questo è tuo", le disse, porgendole il portafoglio, "è caduto qui, vicino alle zampe del mio cane". Poi aggiunse, in modo confuso, che l'aveva cercata all'interno del negozio senza trovarla perché lei era già andata via.
Fiorella non sapeva che dire. Quante volte si era mostrata infastidita nel vedere tanta povera gente tendere la mano nelle strade, quante volte aveva detto con sicurezza che si trattava di gente che non aveva voglia di lavorare. Per mesi era entrata ed uscita dal supermercato senza rivolgerle la parola, solo una volta, lo ricordava, era rimasta stupita nel vederla coprire il suo cane, in un giorno freddissimo di gennaio. Era stato un attimo, pochi secondi durante i quali, ricordava ora, si era quasi commossa, neppure adesso in fondo voleva ammettere di essersi commossa veramente.
Non sapeva che fare. Capì in pochi istanti quanto la sua vita fosse diventata arida, quante opportunità avesse sprecato, e forse quanto dolore anche lei avesse causato agli altri.
Una povera donna incontrata per strada forse le aveva indicato un modo diverso di vivere la propria esistenza, per quanto questa possa essere dolorosa ed estremamente faticosa.



Recensioni novembre 2019





Allah, san Gennaro e i tre kamikaze – Pino Imperatore – Mondadori – Pagg. 215 – ISBN 9788804707479 – Euro 11,50


Ce vulesse ‘na bomba




Non è facile, di per sé, affrontare un argomento serio, drammatico e complesso come quello del terrorismo. Impresa a dir poco ardua, poi, se s'intende trattarlo in modo leggero e addirittura ironico! Eppure, Pino Imperatore, autore campano dedito notoriamente alla scrittura umoristica, c'è riuscito alla perfezione e la sua verve creativa ha dato alla luce un romanzo a mio avviso strepitoso!
Ed eccoli gli aspiranti kamikaze evocati fin dal titolo: i siriani Salim e Feisal e l'irachena Amira, tre giovani vite indottrinate e addestrate a puntino nei campi del feroce califfato islamico, incattivite e senza prevedibili ripensamenti sul proprio futuro martirio. Obiettivo da colpire: Napoli, città dannata e viziosa dell'odiato Occidente infedele. I tre vi giungono come turisti qualsiasi, ignari però di quel che essa ha in serbo per loro durante le successive settimane di sopralluoghi mirati a individuare i singoli bersagli dove operare le stragi. Già, perché sarà Napoli, con la sua umanità molto variegata, le sue profonde contraddizioni, infiniti vizi e virtù, senza naturalmente dimenticare l'immancabile san Gennaro, ad avere a poco a poco la meglio sul terroristico terzetto, regalando al lettore una miriade di quadretti esilaranti.
Azzeccatissimi i tre protagonisti (seppure, in verità, spesso si rivelino estremisti musulmani poco credibili), così come sono perfetti tutti gli altri personaggi che s'incontrano nel corso della narrazione, dalla procace signora Rosa al logorroico Arturo 'o Filosofo, dal pacifista professor De Bottis all'economico e commerciale venditore Cammarota Leopoldo; oltre agli uomini, persino le bestie, cui sembra mancare soltanto la parola, diventano memorabili in questo libro: il simpaticissimo gatto Mustafà, l'agguerrito esercito di blatte che alberga nelle case e, dulcis in fundo, 'o Pizzicatore, il temuto gabbiano reale che finisce per incutere molto più terrore di qualunque possibile kamikaze... Il tutto sullo sfondo di una città, quella partenopea, che, così come risulta nella realtà, è caotica e affascinante, nobile e plebea, generosa, ricca di storia e cultura, brutalmente svilita dalla criminalità organizzata; una Napoli ritratta con amore dai vicoli più reconditi alle piazze più famose, la quale avrebbe senz'altro meritato dalla Storia miglior sorte. Dunque, un grande plauso all'autore che, al di là dell'originalità della trama, non si può non apprezzare anche per l'ottima scrittura, una prosa perfetta, priva di quelle sbavature linguistiche a cui oggi sembra che ci si stia purtroppo assuefacendo, nella quale si intrecciano sapientemente parlata popolare e linguaggio più forbito.
Una lettura divertente che, tuttavia, suscita importanti riflessioni. Un epilogo “esplosivo” e in parte inaspettato. Un libro che, secondo l'auspicio dello stesso Imperatore, può essere considerato a pieno titolo un romanzo di pace, contro l'insensatezza di qualsiasi violenza


Laura Vargiu




Cristo si è fermato a Eboli – Carlo Levi – Newton Compton – Pagg. 236 – ISBN 9788854120129 – Euro 10,50


Anche gli dei dimoravano in alto…


L’opera nacque materialmente da un atto di scrittura che si colloca fra il Natale del 1943 e la fine di luglio del ’44 quando l’autore viveva clandestino a Firenze , nel momento più drammatico della guerra, e sentiva più accesa la comunanza emotiva con l’esperienza del confino in Lucania che lo aveva costretto a isolamento e presunta solitudine fra il 1935 e il 1936. Lo scritto in realtà si colloca nel solco delle esperienze precedenti dello scrittore: la nascita da famiglia borghese ebrea, i natali torinesi, la laurea in medicina, l’esordio artistico in qualità di pittore, la militanza politica antifascista convogliata poi nel movimento “Giustizia e libertà” ma già bisogno impellente fra i banchi del liceo e per finire l’esperienza reiterata del carcere. Apparve dopo la Liberazione , nel 1945, ma fu preceduto nel ’39 dallo scritto “Paura della libertà”, l’opera più importante dello scrittore, custode del suo pensiero, pubblicata solo nel ’46 e fortemente osteggiata dalla cultura militante dell’epoca. Fu preceduta anche dalla espressione pittorica rintracciabile nei numerosi quadri che Levi dipinse in Lucania, primo fermo immagine delle forti impressioni che la realtà contadina, a lui fino ad allora sconosciuta, impresse nel suo universo culturale da principio attraverso gli occhi per andare a depositarsi poi nel cuore, residenza eletta dell’universo emotivo. Il libro che scrisse nacque dunque da questo substrato, dall’esperienza diretta, dalla necessità di dare voce a una realtà prima che dimenticata, sconosciuta. La Lucania, una terra estranea e straniera in patria, sentita da principio dall’autore come lontana e incomprensibile quanto inaccessibili gli risultano i due paesi nei quali è costretto a dimora: Stigliano e Gagliano (Aliano, in realtà). Una terra ostile che si arrocca raggiungendo picchi dimenticati da Dio dove l’uomo vive in misere case circondate da calanchi. Un paesaggio aspro, suggestivo e variegato come l’umanità che lo popola. Una terra che lo accoglie e che lui impara a conoscere, apprezzare e amare.
È un’opera ibrida, né romanzo, né saggio, né memoriale; parte certo dal racconto di un’esperienza personale ma si colloca fra poesia, documento, saggio etnografico, racconto, pamphlet politico. La posizione di Levi è ben chiara: questo mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare “il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, su una “secolare pazienza”, l’immergersi in esso determina arricchimento umano e ulteriore allontanamento dalla barbarie del presente. Da leggere in ogni epoca.


Siti




Diario sentimentale - Vasco Pratolini - BUR Biblioteca Universale Rizzoli - Pagg. 253 - ISBN  9788817057646 - Euro 8,90


Intensa umanità


Ogni volta che inizio a leggere un libro di Pratolini avverto, già dalle prime righe, un fremito che, dapprima quasi impercettibile, poco a poco satura il mio animo. Anche questi racconti, che riflettono in buona parte la vita dell’autore, sono un concentrato di grande umanità: un’infanzia segnata dal dolore per la perdita della madre, un’adolescenza in cui si combatte per sopravvivere e infine l’età adulta, caratterizzata dagli amori, ma anche dai dolori per la perdita di chi si ama, e inoltre la malattia occasione per altri dispiaceri, nonostante la guarigione.
Senza trascendere, senza mai giungere a degli eccessi Vasco Pratolini ha l’incredibile capacità di trasmettere al lettore l’immagine dei suoi sentimenti, racconto dopo racconto, alcuni brevi, altri più lunghi, ma tutti di grandissimo interesse. Che si parli del padre che tornato dalla guerra e rimasto vedovo si risposa per un rapporto non dei più felici, che si narri delle esperienze da scugnizzo o che si dica dei nonni, le uniche relazioni familiari solide fino a quando sono rimasti in vita, la scrittura di Pratolini è intrisa di un lirismo che fa pensare a ispirazioni poetiche trasformate in prosa, un risultato di eccezionale bellezza, con una capacità affabulatoria che non fa mai cadere il ritmo del racconto, che accompagna il lettore al mondo dell’autore, un mondo così lontano dal nostro in cui pur tuttavia ci si immerge volentieri, perché accanto a povertà e miserie umane ci sono dei sentimenti forti, quali l’amicizia e anche l’amore, quest’ultimo travolgente, intenso nel desiderio quanto aleatorio nel risultato. Sì, per quanto possa sembrar strano, anche Pratolini non viene meno a certe caratteristiche del romanticismo, pur inquadrate in un neorealismo che sembra stridere con emozioni e sensazioni, ma che è il palcoscenico ideale per poter intonare un grande canto di umanità.
Non credo che ci sia bisogno di aggiungere altro, perché il bello, quando è veramente tale, si commenta da solo.


Renzo Montagnoli






Gente di trincea. La Grande Guerra sul Carso e sull’Isonzo - Lucio Fabi - Ugo Mursia Editore -Pagg. 410 - ISBN 9788842544357 - Euro 18,00


Come si viveva, come si moriva


Più o meno tutti, sia per aver visto filmati d’epoca, sia per aver letto romanzi come Niente di nuovo sul fronte occidentale e Un anno sull’altipiano, abbiamo un’idea di cosa sia stata la Grande guerra, di quanto misere e terribili fossero le condizioni dei soldati in trincea, di come la morte fosse compagna fedele di chi combatteva, in ogni momento, sia per il concreto pericolo di essere uccisi dal proiettile di un cecchino o dall’esplosione di una bomba, sia per la visione continua dei numerosi corpi insepolti e in putrefazione. Abbiamo provato un senso di pietà, anche un certo ribrezzo nel leggere di certi fatti, ma mai e poi mai avremmo potuto sapere come era la vita, e anche la morte, sui campi di battaglia, sia per i militari che per i civili, se non ci fosse stato questo libro di Lucio Fabi; così possiamo sapere come vestivano i soldati, come erano addestrati, cosa mangiavano, come potevano soddisfare le più semplici esigenze corporali, come e dove riposavano, come avvenivano gli avvicendamenti e i turni di riposo, il trattamento ai civili dagli occupanti, i rapporti con i familiari a casa, insomma, e non voglio dilungarmi, tutto e anche di più di quello che si desidererebbe conoscere. Si tratta di un’opera che per completezza non ha eguali, quattrocentodieci pagine fitte fitte che riescono a dare concretamente l’immagine di chi, in divisa o in abiti borghesi, fu coinvolto in quel grande conflitto, e non si parla solo di italiani, ma anche di austriaci. Il fatto che riguardi gli opposti contendenti è tanto più importante perché veniamo a conoscenza di comportamenti simili, di una vita estremamente disagiata che ha accomunato i nostri e i nemici, uguali perfino nel trattamento riservato alle popolazioni occupate, sospettoso, inquisitore, non di rado, purtroppo, anche feroce. Questo dimostra che indipendentemente dalla nazionalità e dalla divisa il comportamento degli esseri umani, pur nell’eccezionalità di un conflitto, è sostanzialmente analogo. Entrambi combattono più per paura di essere uccisi che per convinzione, sono capaci di di gesti di umana pietà come di incredibili nefandezze, sono carnefici e vittime di una rigorosa e fredda disciplina senza la quale probabilmente getterebbero le armi alle ortiche. Non è un libro facile da leggere, anche perché a volte può sembrare un po’ tedioso per effetto delle minuziose descrizioni, ma arrivati alla fine si comprende senz’altro che cosa sia stata veramente la Grande guerra, una mattanza che ha accomunato nelle sofferenze e nell’orrore entrambi gli schieramenti. Fabi non giudica, racconta senza enfasi e senza mai cadere nella retorica, è uno storico serio che non fa altro che raccogliere i dati delle fonti e confezionare un testo che credo possa essere preso a esempio per completezza e serietà, una di quelle rare opere dove ciò che conta sono i fatti, nella loro crudezza, nella loro asettica descrizione, senza personali e rischiose interpretazioni.
Da leggere, quindi.


Renzo Montagnoli






Pietro e Paolo – Marcello Fois – Einaudi – Pagg. 160 – ISBN 9788806242862 – Euro 17,50




Due ragazzi del ‘99




È in libreria dal tre settembre il nuovo romanzo di Marcello Fois, scrittore prolifico che spesso ha fatto oggetto di narrazione la sua terra, la Sardegna, immergendo il lettore in atmosfere e ambientazioni pregne di storia, tradizioni, identità e che altre volte ha scritto sperimentando nuovi moduli letterari e abbandonando lo scenario noto della terra di appartenenza. “Pietro e Paolo” sigla il ritorno alla Sardegna, questa volta quella dei primi anni venti del Novecento, quelli immediatamente precedenti e di poco successivi al primo conflitto mondiale. È proprio la guerra è il fattore che determina il cambiamento del rapporto fra Pietro e Paolo, fra il figlio del servo e il figlio del padrone: sono coetanei e a dispetto della loro diversa estrazione sociale coltivano, crescendo insieme, una bella amicizia. Pietro custodisce il sapere antico, quello della terra, della conoscenza della flora e della fauna, Paolo gode del privilegio di poter frequentare la scuola e accedere al sapere, quello veicolato dalla scrittura, quello spesso snaturato dalla mancata conoscenza della realtà per cui si crede a tutto ciò che dice il maestro. I due bambini scambiano i loro saperi, li barattano, li intrecciano abbeverandosi così di un sapere più completo e traendone giovamento entrambi. Svelare oltre della trama andrebbe a rovinare il piacere di una lettura che fa leva sulla curiosità di capire a cosa allude la voce narrante, di sapere che cosa è successo e quale sarà l’epilogo della vicenda. La struttura stessa della narrazione, scandita da brevi capitoletti con una numerazione a ritroso dal sedici allo zero, accompagna velocemente il lettore alla fruizione dell’opera che ha il pregio di far godere di una buona storia capace di far riflettere sul valore dell’amicizia.


Siti




Storia di Vera – Danila Oppio – Ipazia Books – Pagg. 116 - ISBN  978-1720035701 – Euro 16,12


Piccolo mondo antico


Intima, sofferta e carica di ricordi, la scrittura di Danila Oppio in questo suo romanzo dal titolo “Storia di Vera” ripercorre la vita, in particolare l'infanzia e l'adolescenza, della protagonista (alter ego della stessa autrice) attraverso una scrittura accattivante e coinvolgente che si distacca, a mio parere, da quella dei precedenti lavori da lei pubblicati negli scorsi anni.
Sullo sfondo del Veneto del dopoguerra e della Milano degli anni del boom economico, si svolge la vicenda di Vera, figlia della povera provincia veneta che, ancor piccola, è costretta a lasciare insieme alla famiglia alla ricerca di migliori condizioni economiche e di cui, però, conserverà sempre nella memoria un affettuoso ricordo indelebile. Un rievocare, quello di Vera, che si tinge inevitabilmente di malinconia e, spesso, anche di tristezza.
Ed ecco, al cospetto delle stelle di una tersa sera invernale, riaffiorare gli anni della scuola, quando lei aveva dovuto faticare per passare dal dialetto alla lingua italiana, quando subiva lo scherno e l'ostracismo da parte delle compagne di classe a causa delle modeste condizioni familiari, quando il suo cuore di bambina s'era scontrato con i modi solitamente rudi e spicci di una madre avara di amore e comprensione nei confronti del suo stesso sangue. E proprio questa figura materna, ritratta in maniera efficacemente cruda, diviene a poco a poco centrale nel corso della narrazione, suscitando in chi legge moti di ribellione e, forse, condanne senz'appello. Ma il cuore di una figlia perdona incondizionatamente e, con il tempo, arriva a comprendere l'inettitudine di un genitore che, in fin dei conti, si è ritrovato quasi per caso a rivestire quel ruolo senza grande consapevolezza.

“[...] La mamma doveva essere sempre al centro del mondo. Suo malgrado Vera si trovava costretta ad ammetterlo, sebbene non sia piacevole per nessuno accorgersi di avere una madre egoista, egocentrica, ingrata. Una madre che non aveva mai saputo dire la parola “grazie” a qualcuno, incapace di ammettere i propri errori. Sono pensieri che coltivava con animo sereno, rassegnato, senza astio. [...]”

Anche altri affetti ruotano attorno alla vita della protagonista, tra cui il padre, venuto a mancare troppo presto, la cui scomparsa, come s'intuisce, resterà una ferita aperta nel cuore di Vera.
Pubblicato lo scorso anno dalle Edizioni Ipazia Books, il libro offre una scorrevole lettura imperniata su frequenti flash-back e salti temporanei che, in particolare nei ricordi della campagna dell'infanzia, rimandano a un “piccolo mondo antico” che ormai non esiste più e sul quale la Oppio ha voluto porre l'accento, non senza una certa dose di nostalgia, come quando vengono rievocati i periodi di vacanza trascorsi a casa dei nonni e le conseguenti vecchie storie di famiglia, prima fra tutte quella del nonno emigrato in America e assunto come minatore nelle miniere dell'Illinois. Pagine a tratti molto intense che parlano di sentimenti, rimpianto e tanta solitudine, mettendo infine a fuoco una figura femminile che “non è cresciuta, è solo invecchiata” durante un'esistenza piena di amarezze e dolori.


Laura Vargiu



La Basilica di San Pietro a Roma, di Renzo Montagnoli





La Basilica di San Pietro a Roma
di Renzo Montagnoli




Parlare del Tempio cristiano più famoso non è semplice, perché non si può liquidare il tutto in poche righe, né limitarsi a invitare a visitarlo può far comprendere il suo valore storico, artistico e spirituale. Nondimeno, è mia intenzione descrivere questa meraviglia, partendo dall’aspetto storico, che è laborioso, per arrivare a quello artistico, altrettanto complesso; per l’aspetto spirituale non ci possono essere parole, l’unica possibilità, per comprendere, è di andare in loco, di entrare per una visita, raccogliendosi in un angolo e cercando di astrarsi dai suoni e dalle voci delle migliaia di pellegrini sempre presenti.



La Storia


La Basilica di San Pietro, venerata per la presenza del sepolcro di San Pietro, a decorrere dall’anno 1377 diventa la residenza ufficiale del Pontefice, in precedenza fissata al Laterano. Ma le origini sono di molto antecedenti, perché nella seconda metà del II secolo venne edificata un’edicola sulla tomba dell’Apostolo, in una sepoltura piuttosto ricca, nei pressi del luogo dove avvenne il martirio. Davanti al sepolcro fu istituita un’area di rispetto di cinque metri per sette, delimitata da un muro dipinto di rosso, su cui i pellegrini presero l’abitudine di di tracciare delle incisioni a ricordo della loro visita, il che dimostra che la categoria dei “graffitari” era attiva anche nell’antichità. Una piccolissima colonna del monumento funebre e una parte dello stesso sono ancora visibili in un vano della basilica chiamato Confessio, sotto il grandioso ciborio del Bernini. Fu l’imperatore Costantino a proporre al papa Silvestro I di erigere lì una grandiosa basilica che racchiudesse il sepolcro dell’Apostolo Pietro, opera che da subito presentò notevoli difficoltà, perché avrebbe dovuto sorgere su un’altura, la cui cima doveva essere preliminarmente livellata, con lavori di sterro che sarebbero notevoli anche oggi che disponiamo di scavatrici e di ruspe meccaniche, immaginiamoci all’epoca in cui si faceva conto solo sul lavoro manuale. Si procedette così fra il 319 e il 324 al livellamento, da cui derivò un piano di 290 metri per 90, su cui furono gettate le fondamenta della basilica, che era già a buon punto alla morte di Costantino (337), e di cui tuttavia oggi resta ben poco. Per quanto ci è dato di sapere (incisioni e descrizioni antecedenti la ricostruzione rinascimentale) si trattava di un’opera imponente, adeguatamente dotata di arredi e di finiture di prestigio. Successivamente numerosi pontefici apportarono modifiche e ampliamenti, senza porre mano a una manutenzione oculata ed efficace, così che piano piano il naturale degrado si accentuò a tal punto da rendere precarie le condizioni della basilica, a tal punto dal consigliarne la ricostruzione. Fu sotto Papa Niccolò V (1447 – 1455) che venne deciso l’intervento. I lavori iniziarono nel 1450, ma la morte del pontefice li interruppe per circa mezzo secolo, fino a quando al soglio pontificio salì Giulio II, che si disinteressò dei progetti precedenti per arrivare a edificare un tempio gigantesco, il più grande della cristianità. Si aggiudicò i lavori Donato Bramante, arrivato a Roma da alcuni anni, provenendo da Milano. Il suo progetto aveva convinto il Papa, il denaro necessario sarebbe stato raccolto grazie alle indulgenze, non restava altro che dare avvio ai lavori, che prevedevano una prima fase di pressoché totale abbattimento della precedente basilica. La morte del papa avvenuta nel 1513, e poi del Bramante (1514) rallentarono notevolmente l’esecuzione; al precedente architetto subentrarono altri artisti di notevole valore, quali Raffaello Sanzio e Antonio da San Gallo Il Giovane, ma impedimenti vari ritardarono i lavori, fino a quando poi questi cessarono del tutto e ciò avvenne in occasione del Sacco di Roma del 1527. Solo nel 1530, sotto il pontificato di Paolo III, venne ripresa l’esecuzione dell’opera, ma le disavventure non erano finite, perché nel 1546 venne a morire anche Antonio da San Gallo, a cui subentrò Michelangelo Buonarroti, che nel solco della tradizione di chi lo aveva preceduto pensò pure lui di apportare modifiche all’originario progetto, allungando così ulteriormente i tempi di realizzazione. Alla morte di Michelangelo (1564) la Basilica era ben lungi dall’essere completata; gli subentrò Giacomo Della Porta, anche lui con idee del tutto personali sull’opera; si arrivò così, dopo una serie che pareva infinita di pontefici e di architetti al completamento della Basilica, che fu solennemente consacrata da papa Urbano VIII il 18 novembre 1626. Occorse quindi un bel po’ di tempo fra inizio (1450) e fine (1626) lavori, ma lo scopo dell’opera, la sua grandiosità possono benissimo giustificare questo lungo periodo e quando si parla di grandezza, al fine di comprendere che non si tratta di esagerazione, fornisco di seguito alcuni dati: la basilica si estende per 21477 mq, il suo perimetro esterno è di 1.778 metri; è lunga 186,35 metri con una larghezza al transetto di 46 metri; la cupola è alta 132,5 metri; vi sono 44 altari e ben 778 colonne. Come è possibile notare, sono numeri da capogiro e tanto per fare dei paragoni relativi alla sola lunghezza il Duomo di Firenze misura m. 149,28 e quello di Milano m. 134,94; San Pietro supera perfino la Basilica di San Paolo a Londra e che misura m. 158,10.


L’Arte



L’aspetto artistico può essere compreso solo grazie alla visita del monumento e nel nostro caso sono riportate le impressioni dell’autore dell’articolo in occasione di una sua breve gita turistica a Roma, avvenuta alcuni anni fa, e che ha avuto come meta principale la Basilica di San Pietro
L’esterno è grandioso, anche se non è in grado di offrire la sensazione di trovarsi nell’infinito e che si prova solo all’interno.
Piazza San Pietro ha come sfondo il grande sagrato con la facciata e la cupola della basilica, mentre ai lati si nota il doppio emiciclo del Bernini, che ha una funzione artistica laddove raccorda meglio la chiesa al tessuto urbano, e spirituale qualora lo si consideri come le braccia della Chiesa protese verso i fedeli per accoglierli nel suo grembo. Al centro della piazza svetta l’obelisco Vaticano, che arrivò a Roma, portato da Caligola e proveniente dal foro di Alessandria d’Egitto.
Per accedere all’interno ci sono cinque porte che sono, procedendo da sinistra a destra: una all’estremità realizzata da Giacomo Manzù nel 1964, detta Porta della Morte, perché è da essa che escono i cortei funebri dei pontefici; la porta del Bene e del Male, una realizzazione di Luciano Minguzzi; la Porta Centrale, detta anche Porta del Filarete, in quanto costruita da Antonio Averulino, chiamato appunto Il Filarete; la Porta dei Sacramenti, realizzata da Venanzo Crocetti; la Porta Santa, realizzata da Vico Consorti, che viene aperta e chiusa dal Pontefice in occasione dell’anno del Giubileo (da notare che una Porta Santa è presente nelle altre basiliche maggiori capitoline, vale a dire San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le mura).
Il notevole spazio interno è articolato in tre navate in forza di corposi pilastri; quella centrale è lunga ben 90 metri, larga 26 metri e alta 45 metri. Di pregio rilevantissimo sono i marmi della pavimentazione e fino ai punti di congiunzione con il transetto vi sono numerose statue di Santi, ricavate nelle nicchie dei pilastri che si trovano sulla destra dall’ingresso. La navata di destra è giustamente famosa perché nella prima cappella si trova la celebre Pietà di Michelangelo, intorno alla quale vi è sempre una ressa di turisti; seguono altre opere d’arte di cui nulla riporto per esigenze di spazio, limitandomi a segnalare solo ciò che ritengo della massima considerazione. Ed è per questo che passo già alla navata di sinistra, dove si trova lo stupendo Monumento agli Stuart, opera di Antonio Canova.
Sotto la cupola c’è il grande Baldacchino di San Pietro, opera di Gian Lorenzo Bernini, realizzata fra il 1624 e il 1633; realizzato con il bronzo prelevato dal Pantheon, è alto quasi 30 metri ed è sorretto da quattro colonne; al di sotto c’è l’altare papale.
Il transetto settentrionale venne costruito su progetto di Michelangelo Buonarroti.
Infine l’ambulacro, cioè quello spazio che circonda i quattro pilastri su cui poggia la cupola; lì è tutto un fiorire di altari, di nicchie, di monumenti funebri, fra i quali celeberrimo quello di papa Alessandro VII, una prodigiosa realizzazione del Bernini, e l’analogo di Pio VII, di pregevolissima fattura e che porta la firma dello scultore danese Bertel Thorvaldsen.
Per essere completa la visita deve ricomprendere la sagrestia, anche se è un edificio esterno alla Basilica, ma comunicante con la stessa, e le Grotte Vaticane, cioè lo spazio ricavato nel dislivello fra la nuova e la vecchia basilica, usate da molti pontefici come luogo di sepoltura.



Alcune notizie utili per la visita



L’accesso alla Basilica di San Pietro è gratuito ed è consentito a persone con abbigliamento decoroso e consono al luogo sacro; gli orari nel periodo invernale (1 ottobre – 31 marzo) sono le 7,00 per l’apertura e le 18,30 per la chiusura, mentre nel periodo estivo (dall’1 aprile al 30 settembre) sono, rispettivamente, le 7,00 e le 19,00. A pagamento invece è la salita alla cupola, che ha pure orari diversi, e cioè quello invernale con apertura alle 7,30 e chiusura alle 17,00 e quello estivo con apertura sempre alle 7,30, ma con chiusura alle 18,00 ( Costo del Biglietto: - Ascensore fino al livello terrazzo e si prosegue a piedi (320 gradini)  Biglietto € 10.00;- Salita a piedi 551 gradini Biglietto € 8.00; riduzioni per scuole sono possibili presentando alla cassa una attestazione dell’Istituto con l’elenco dei partecipanti.
Biglietto ridotto € 5.00).


Le foto a corredo dell’articolo, rappresentanti l’esterno e l’interno della basilica, sono state reperite su diversi siti Internet.