sabato 15 febbraio 2020

Il sogno del fauno, di Renzo Montagnoli






Il sogno del fauno
di Renzo Montagnoli


A volte accadono fatti che appaiono del tutto inspiegabili, misteri che ci attirano, ma possono anche sconvolgerci. Ricordo di un sogno di una notte di tanti anni fa, nulla di particolare se non fosse per quanto mi accingo a raccontare.
Non ho memoria se fosse estate o inverno, ma propendo per la seconda stagione, giacché con la calura le mie notti sono sempre state spezzate, puntate di sonno e altrettante di veglia. Non intendo però dilungarmi oltre e preferisco passare direttamente a questo strano sogno.
Anche lì era notte, ma non buia, perché in cielo splendeva una pacioccosa luna piena, ogni tanto coperta da qualche capricciosa nuvoletta; procedevo lungo una strada sconosciuta, anzi meglio ancora passeggiavo, anche se in me una forza oscura guidava i miei passi. Camminavo in campagna, con ai lati file di alberi di cui indovinavo solo i contorni. Era quello che si potrebbe definire un viale, lungo, dal selciato dissestato e di cui intravvedevo a stento la fine, sbarrato com’era da un cancello. Rammento che allungai la falcata e in breve, più velocemente di quanto potessi pensare – ma si sa che in sogno tutto è possibile – arrivai a quella chiusura in ferro, due ante di metallo dall’aria antica e assai ben lavorate. Ne spinsi una e il cancello si spalancò su un giardino, ma data la grandezza e gli alberi di alto fusto era più probabilmente un parco e proseguii lungo un sentiero ben battuto, mosso da un’arcana forza che mi imponeva di sapere. Attraversai altri sentieri, vialetti coperti da finissima ghiaia, scivolai sotto rami protesi e infine giunsi là, a una piazzetta, con in mezzo quella che a prima vista mi sembrò una fontana e che invece, pur rivelandosi tale, aveva dimensioni ben superiori, quasi quelle di una, se pur piccola, piscina. Da un fauno troneggiante in mezzo scendeva un getto d’acqua che sotto s’infrangeva su una marmorea sirena. All’intorno, altra acqua, e un coro di ninfee, una cornice che esaltava la bellezza delle forme delle due statue. Le guardai a lungo, mi piacevano, l’artista che le aveva scolpite sembrava aver trasfuso in loro la sua anima. Nel mentre nell’ombra osservavo, la luna, fino ad allora coperta da una nuvoletta, s’affacciò e la sua luce cadde improvvisa ed eterea su quell’elegiaco quadretto. Fu allora che vidi quello che non poteva che essere un sogno: il fauno, irrigidito dai secoli nella pietra scolpita, si contrasse, le giunture scricchiolarono, insomma si animò e lo stesso accadde per la sirena, la cui rigidità si sciolse nella tenera mollezza di una femmina che rinasceva in quel momento. Di sottofondo il rumore dell’acqua che cadeva divenne le note di un flauto di Pan, una melodia che s’ispirava ad amori lontani, a passioni mai sopite, a desideri irrealizzati. Si capiva chiaramente che il fauno avrebbe voluto toccare, magari accarezzare il corpo seducente di quella sirena, un desiderio forse in essere da tempo immemore e che ora, con la magica complicità della luce della luna, poteva realizzare. Si piegò verso di lei, ma per quanti sforzi facesse non riusciva a raggiungerla, nonostante che lei si inarcasse, cercasse di andargli incontro. Ecco, le mani di entrambi protese a sfiorarsi, quel tocco da tanto atteso, gli sforzi di lui sempre più esasperati, forse un grido lacerante e il fauno si spezzò. I piedi, fino alle caviglie, restarono sul basamento, ma il resto del corpo precipitò a toccare l’oggetto del suo desiderio. La luna si era di nuovo coperta e restarono solo pezzi di marmo, braccia, gambe e anche la testina a coprire la sirena, pure lei in frantumi.
Forse il sogno proseguì, ma non ne ebbi memoria e solo la mattina, al mio risveglio, potei vedere ciò che negli antri oscuri della mente la notte aveva scolpito.
Non ne feci parola con altri, e neppure ne accennai a mia moglie, forse timoroso di avere un’interpretazione stramba o comunque inverosimile; ricordo invece che tentai a lungo di comprendere il suo significato, ma inutilmente, tanto che alla fine preferii desistere e poco a poco dimenticai anche il sogno.
Passarono gli anni, fra dolori e anche gioie, e finii con l’arrivare a oggi, alla mia ultima stagione, avara di speranze, ma satura di certezze. Come tutti gli anziani tendo a passeggiare, portando a spasso il cane, o meglio penso che sia lui che mi porti in giro. Le stesse strade alla lunga stancano e allora ieri ho preso l’auto e ho deciso di spostarmi di qualche chilometro, fino a un parcheggio, da cui parte un bel viale. Così ho fatto e, liberato dal guinzaglio il cane, ci siamo incamminati lungo quella strada ombreggiata da due filari di pioppi. Dopo aver percorso un centinaio di metri mi sono accorto che la strada, più avanti, era chiusa da un cancello, a cui man mano mi avvicinavo facevano eco i palpiti accelerati del mio cuore. Fra me dicevo: “Non è possibile, è come nel sogno, di cui di colpo m’è tornata la memoria, o forse sono io che voglio vedere così, senza sapere nemmeno il perché”. Ho spinto un’anta e la chiusura si è spalancata su un parco secolare, da tanto tempo probabilmente abbandonato; lungo il sentiero che ho percorso ne ho incrociati altri e ho affrettato il passo, benché timoroso di avere conferma in quel che avrei trovato. Ecco là la piazzetta e in mezzo la fontana che non butta più acqua; ho rallentato, il cuore sembrava scoppiarmi, a piccoli passi mi sono avvicinato: fra erbacce e muschio un cumulo di pietre spezzate ricopriva in parte qualche cosa, un tronco forse; lo sguardo ha indugiato ancora un po’ e si è bloccato sulla coda di una sirena. Tremavo, perché ora sapevo, sapevo ciò che quel sogno di tanti anni fa mi ha inteso dire e che del resto solo ora, in questa mia vecchiaia, avrei potuto capire: si lotta tanto, si cerca il senso di una vita e quando l’hai trovato, quando stai per coglierlo non c’è più tempo.
Mi è rimasto un timore: che anche questo di ieri sia stato un sogno, a occhi aperti, ma non ho qualcuno a cui chiedere conforto, se non il mio cane, che c’era, ma che se ha capito non potrà mai parlare.


Quando Dio perse la pazienza, di Cristina Bove






Quando Dio perse la pazienza
di Cristina Bove



Isole di plastica occupavano gran parte degli oceani, pesci e cetacei morivano soffocati da sacchetti e bottiglie di plastica, alghe e coralli erano spariti già da tempo. Gli uccelli marini andavano a morire ricoperti di catrame sulle spiagge di immondizie nauseabonde.
Sulle città incombeva lo smog, si propagavano mali incurabili, mali nuovi e oscuri, mali di tossicodipendenza e asocialità. La violenza fomentava guerre che arricchivano sempre più i potenti e gli accaparratori a scapito degli indigenti.
L’odio per il diverso rendeva ciechi e sordi all’altrui sofferenza. Le torture più orribili venivano inventate ed applicate ai corpi di altri esseri umani.
La violenza di genere mieteva donne come spighe, ne occultava le forme ed il pensiero, le lacerava in nome di un amore malato.
I poveri di tutto il mondo, accalcati nelle immense periferie delle città, rinchiusi in falansteri tra spacciatori e drogati (quelli che ancora avevano un lavoro nelle fabbriche sortivano al mattino per guadagnare quanto bastava per sopravvivere e acquistare ciò che le pubblicità televisive inducevano a consumare), erano carne da macello nelle guerre tra banche e governanti: un gregge inerme anestetizzato dai mass-media, ma in cui ciascun individuo, paradossalmente, era illuso di poter accedere alla classe dei privilegiati.
Tra i massimi detentori dei poteri e la massa agonizzante, la borghesia faceva da spartiacque, forte dei propri valori ereditati, culturali e finanziari, immersa nel suo egoistico benessere, dedita ai piaceri dell’arte e del consumo di beni inaccessibili ai miserabili.
Tendaggi e sipari pomposamente ben distribuiti celavano la natura vera del caos.
Spettacoli e concerti, opere che sorprendevano le menti distraendole dai ladrocini dei corrotti, dalle violenze di genere, dai disastri ecologici.
Società castali, piramidi umane dove la base, spolpata a morte, costituiva il concime su cui si innalzavano via via gli strati verso l’alto.
All’apice i padroni del mondo.
Dio era giunto al culmine di ogni benevolenza e comprensione, nemmeno i pochi esseri buoni riuscivano a recargli un minimo conforto. Ormai anche le feste in suo onore gli erano insopportabili. Troppa la contraddizione tra preghiere e operato, troppa la discriminazione tra fratelli, troppa ogni verità rivelata.
Quindi riprese in mano la sua creazione, ordinò ai fiumi di ingrossare gli oceani, a questi di esondare fino a coprire le più alte vette. Ai venti di disperdere ogni traccia di malavita umana e trasportare altrove tra le stelle uomini e donne di buona volontà.
Affranto e desolato, aggiunse il pianto alle acque che tutto travolgevano.
Infine rimpastò l’argilla, fece un palla e la scagliò nell’infinito Nulla.


Sul treno, di Piera Maria Chessa





Sul treno
di Piera Maria Chessa


Era un giorno di marzo, molto vicino all’arrivo della primavera, e in realtà tutto sembrava anticipare i bei giorni a venire. Era stato un inverno piuttosto insolito, un’alternanza di giorni molto freddi con giornate tiepide, che facevano bene al fisico ma anche alla mente.
Ben disposto verso gli altri e verso la natura, quel giorno Carlo, alle otto e mezza del mattino, si era diretto verso la stazione per prendere il treno che da Lucca lo avrebbe portato a Siena, dove si recava per un colloquio di lavoro. Magari fosse andato a buon fine, se lo augurava con tutto se stesso, dopo aver trascorso intere giornate a compilare curriculum da spedire un po’ ovunque!
Aveva dovuto attendere dieci minuti prima che il treno partisse, ma era certo che avrebbe recuperato lungo il percorso.
Si sedette in uno scompartimento già occupato da due ragazzi e da una coppia di mezza età. A quell’ora del mattino bisognava avere pazienza, era già tanto aver trovato un posto libero, così levò un libro da uno zaino, intenzionato a portare avanti una lettura che già da qualche giorno lo coinvolgeva.
Amava moltissimo leggere, e spaziava da un genere all’altro senza difficoltà, romanzi storici, noir, biografie e autobiografie, saggi, racconti, senza tralasciare neppure la poesia. Tutto lo interessava, a tal punto da trascurare persino i pasti pur di concludere velocemente una storia avvincente.
Quella mattina era dunque così motivato da non accorgersi che i due ragazzi seduti di fronte a lui lo guardavano con un atteggiamento piuttosto arrogante, pur senza dire nulla. Fu durante una breve interruzione che, sollevando gli occhi dal libro, li notò. Non se ne occupò minimamente e riprese a leggere.
A quel puntò qualcosa scattò nella mente dei due ragazzini. Erano giovanissimi, ma incredibilmente agguerriti. Fu forse l’atteggiamento tranquillo ed educato di Carlo, o forse la noia dell’attesa, chi lo sa, sta di fatto che in un attimo incominciarono a infastidirlo con frasi inopportune.
Inizialmente Carlo fece finta di niente, proseguendo la sua lettura e cercando di ignorarne il comportamento. Ma loro continuavano, imperterriti e sempre più aggressivi, a formulare delle frasi ancora più esplicite e chiaramente omofobe.
I due signori seduti accanto mostravano la più totale indifferenza, mentre Carlo, interrompendo a quel punto la lettura, cercava di far capire ai ragazzini, con gentilezza ma anche con determinazione, che forse era il caso di smetterla.
Fu allora che uno dei due, ancora più irritato e infastidito, sbottò dicendo:” Se non la smetti di darti tutte queste arie, ma chi pensi di essere, ti spiego meglio chi sono io!”
Nel frattempo, l’uomo e la donna seduti nello scompartimento continuavano a tacere come se nulla stesse avvenendo. Non una parola, non un gesto.
Carlo non sapeva proprio che cosa fare nè che cosa dire, lui che desiderava semplicemente essere rispettato.
In quel momento, voltandosi per puro caso verso il corridoio, vide una ragazza che si era avvicinata per un istante allo scompartimento, a lei bastò poco per capire quello che stava accadendo, ma non entrò. Carlo si sentì ancora più isolato, gli sembrava tutto così assurdo! Solo più tardi capì le sue vere intenzioni.
Passarono solo pochi istanti prima che arrivasse il capotreno. Chiese che cosa stesse succedendo, ascoltò con attenzione come si erano svolti i fatti e poi prese la sua decisione. Quella giusta, quella che avrebbe messo la parola fine a un comportamento disgustoso.
Senza dire una parola indicò la porta ai due ragazzini, che lo guardarono sconcertati, poi disse loro di uscire dallo scompartimento e di scendere dal treno subito dopo, alla prima fermata .
Quando, protestando, loro dissero che sarebbero dovuti scendere non in quel momento ma alla fermata successiva, il capotreno, cercando di controllare la propria indignazione, rispose con fermezza:” Io non voglio sul treno persone maleducate e con una zucca vuota come la vostra, gente che non sa stare al mondo e che non conosce il rispetto per gli altri, scendete all’istante!”
I due ragazzi a quel punto persero tutta la loro baldanza e uscirono dallo scompartimento, fermandosi nel corridoio.
Carlo, finalmente rilassato, pochi minuti dopo, attraverso il finestrino diede un ultimo sguardo a quei due ragazzi sbandati e arroganti che, come prima aveva detto il capotreno nel momento in cui scendevano, non sapevano che cosa fare della loro vita e avevano perciò tanto tempo da perdere.
Lui due cose soltanto in quel momento voleva fare, ringraziare la ragazza che aveva capito al volo la situazione in cui si era trovato, e poi manifestare la sua stima al capotreno, che aveva fatto esattamente ciò che doveva fare, ma che in un Paese come il suo non era affatto scontato.
Dalla raccolta “Sguardi di donne”




Un ritratto in quattro tempi, di massimolegnani






Un ritratto in quattro tempi
di massimolegnani

L’aveva vista, pochi tavolini più in là, sorbire un tè e addentare con grazia golosa pasticcini alla crema. L’amico gli parlava ma Amedeo non lo ascoltava più, era completamente immerso nei gesti accurati della giovane borghese, gesti che in un’altra donna avrebbe bollato come leziosi, il nettarsi le labbra con un tovagliolino candido, l’accenno di un sorriso educato alle parole dell’amica, la mano portata al collo in una minima apprensione. In lei invece notava una tale simmetria tra lineamenti e gesti, una così perfetta corrispondenza tra la mimica contenuta e la volubilità espressiva del viso (bastava un minimo corrugare la fronte per modificare radicalmente lo scenario di quel volto) che Amedeo non aveva resistito a lungo. Osservava la donna e già la vedeva prendere forma sulla tela. Così si era alzato di scatto e, ignorando lo sguardo esterrefatto dell’amico, si era diretto al suo tavolino: 
Le mandorle dei suoi occhi, l’avorio del collo…esigono un ritratto. Lei dovrebbe posare per me. 
Mentre la giovane signora con lo stupore di un sopracciglio squadrava gli abiti sgualciti e le mani sporche di vernice, Amedeo con un tozzo di matita aveva scarabocchiato un indirizzo sul tovagliolino di pizzo. Poi, fatto un goffo inchino, se n’era uscito dal locale con passo malfermo, anche se per una volta non aveva bevuto. 

* * * * * * * * * * 

La donna lasciò passare parecchi giorni prima di decidersi, forse per una residua remora morale o perché la cosa non la incuriosiva più che tanto. Ma una volta deciso agì senza incertezze. Affrontò le vie maleodoranti del Marais con una camminata impettita che la proteggeva dall’assalto della miseria e salì i quattro piani di scale di un edificio fatiscente ignorando la sporcizia e lo sbattere violento delle porte. 
Quando Amedeo aprì la guardò a lungo come faticasse a mettere a fuoco un ricordo. Era primo pomeriggio e lui, alzatosi da poco, si trovava su quel crinale incerto tra i postumi dell’ubriacatura della notte precedente e il primo contatto quotidiano con il vino. 
Come ti chiami?- le chiese brusco ancora sulla porta, come avesse di fronte una di quelle prostitute con cui era abituato a lavorare. 
Agnese, rispose lei con voce chiara, e aggiunse Sono qui per il ritratto
L’uomo emise un grugnito e la fece entrare. 
La mansarda era nel disordine più totale, il letto sfatto, piatti con residui di cibo stantio, ovunque tele abbozzate ma poche quelle già concluse, un gatto dormiva sull’unica sedia. Nell’aria ristagnavano odori, anice e acquaragia su tutti. Agnese costituiva un’immagine stridente in quell’ambiente, ma vi entrò con naturalezza. Era più impacciato lui, nonostante l’aria scorbutica e il modo cattivo con cui cacciò il gatto dalla sedia. 
La donna si sedette al posto del micio e attese che l’uomo iniziasse il ritratto. 
Amedeo non si era ancora avvicinato al cavalletto, passeggiava irrequieto per la stanza, ora spostando una tenda per attenuare la luce troppo violenta che penetrava da un finestrone obliquo, ora tentando di pulire i pennelli con uno straccio immondo. 
Così non va, disse alla fine. 
Così come? 
Vestita di tutto punto, imbellettata, chiusa. 
In questo stesso modo mi aveva vista quel giorno. 
Sì, ma qui è diverso. 
In che senso? 
Là è stata una folgorazione, qui dovrei dare forma e senso all’intuizione. 
E allora? 
È troppo coperta. 
Lei deve ritrarre il viso e quello è sgombro. 
Nel quadro compariranno solo il volto e il collo, ma io devo conoscere anche il resto. 
Perché mai? 
Fermarmi al volto deve essere una mia libera scelta, non il limite stabilito dai pudori di una ricca borghese. 
Se sono qui significa che non ho preconcetti. Ma di qui a spogliarmi di fronte a lei. Nemmeno mio marito… 
Agnese ribatteva colpo su colpo mantenendo uno sguardo limpido. Ogni tanto increspava un sopracciglio o accennava a spalancare gli occhi, ma sempre con misura e più per manifestare il suo tentativo di comprensione che per esprimere un cruccio. Amedeo, al contrario, sembrava una bestia alla catena. Borbottava tra sé, gesticolava agitando un pennello per aria, misurava la stanza a passi inquieti. Si fermò di colpo solo di fronte al suo sorriso radioso: 
La fottuta buona educazione! Odio i sorrisi borghesi fatti con cortesia ipocrita, che poi se uno si fida di quel sorriso viene fregato. 
Non avevo quella intenzione, rispose lei tornando seria. 
Basta! Non ne facciamo niente. Sono stato un idiota a crederci. 
Lei si arrende sempre così presto? 
Vattene. 
Agnese rimase seduta, come non avesse udito quell’ultima parola quasi urlata. 
Lasciò passare qualche istante nel silenzio, poi intercettò il suo sguardo: 
Che cosa le premeva di me? 
Ritrovare nel corpo i tratti del volto, la corrispondenza o la negazione di quanto leggo nello sguardo. 
Che cosa vi legge? 
La mutevolezza del mistero. Fluttua dalla meraviglia alla consapevolezza, senza che io sappia per che cosa si meravigliano i tuoi occhi, di che cosa si fanno consapevoli. È questo il bel mistero, ma lasciamo stare, non capisci nemmeno di cosa sto parlando e forse non lo capisco nemmeno io. A dirlo diventa tutto così assurdo. L’arte non deve essere spiegata, ancor meno le sue intuizioni. 
La donna protese il collo in avanti come per un’improvvisa fame d’aria. Era il suo modo di riflettere. 
Sto cercando di seguirla. Temo di essere stata troppo razionale. La sua richiesta è legittima. So però che non sopporterei il suo sguardo su di me. 
Amedeo era ammutolito, percepiva lo sforzo della donna per entrare in un ruolo a cui non era abituata, ma a cui non voleva rinunciare. 
Vi fu un silenzio lungo, ricco di suggestione. 
Le parole di Agnese si fecero lente, soppesate ad una ad una: 
Non è un compromesso che le propongo, mi creda, è una via, l’unica via che sento giusta per entrambi. 
Di nuovo una pausa, come a creare un terreno comune. Poi la giovane parlò in un soffio tiepido: 
Vorrei che lei si mettesse una benda sugli occhi e mi percepisse in altro modo. La memoria poi l’aiuterà a dipingermi. 
L’uomo ubbidì all’istante. Usò lo straccio dei pennelli per bendarsi, e nemmeno per un istante pensò di barare. Ed era certo che neanche lei lo avrebbe ingannato. 

Poteva sembrare una scena grottesca, un pittore privato della vista di fronte a una modella nuda che attende fiduciosa di essere percepita al di là della vista, del tatto, del contatto. Ma non vi era nulla di artificioso o di ridicolo nel modo in cui Amedeo annusava l’aria cercando l’odore autentico di lei sotto il profumo di mughetto e sfiorava con un pollice le sue forme senza arrivare a toccarle; e nemmeno nel modo in cui Agnese si lasciava invadere senza imbarazzo dai sensi dell’uomo, lo sguardo limpido e i seni tesi, quasi fossero le punte a pretendere il contatto con quel dito. 
L’uomo aspettò a togliersi la benda che cessasse il fruscio della seta che tornava a coprire la pelle. Si guardarono come reduci da un viaggio in luoghi che non conoscevano, ma non si confidarono l’emozione provata. Solo un silenzio solidale, rischiarato questa volta dal sorriso di Amedeo. 
Quando Agnese fu uscita, l’uomo si mise al cavalletto. 
Dipinse un volto, gli occhi che sembravano due mandorle tostate e il collo smisurato, di un colore ambrato. 

* * * * * * * * * * * * 


Aveva appeso la tela a un chiodo, sulla parete di fronte al letto. La guardava prima di crollare nel solito sonno agitato, rischiarata da quel po’ di luna che filtrava dal lucernaio, e la cercava a occhi ancora pesti quando si svegliava, prima cosa reale nel subbuglio della sua mente caotica. 
Era capace di stare ore a fissare il ritratto, le mani intrecciate dietro la nuca, lo sguardo incantato sull’ocra e il nero che prevalevano sul resto. Non aveva mai dipinto così bene, ne era convinto. Nel volto ridotto a poche linee dure ed essenziali Amedeo rivedeva con facilità il viso reale della donna, ma lei avrebbe capito? Si sarebbe accorta di quanto lui l’aveva vista bella? Il timore che Agnese non sarebbe riuscita a specchiarsi in quelle guance prosciugate, a riconoscersi nella bocca stretta e violacea, negli occhi sottili, nell’iperbole del collo, lo assaliva a ondate. E allora lo coglieva una specie di paralisi, una voglia di far nulla, impensabile dipingere di nuovo prima che lei tornasse a vedere il quadro. Non gli era mai importato il giudizio delle proprie modelle, ma questa volta era diverso, lei era una donna di gran classe o almeno così a lui sembrava, forse appena benestante, in ogni caso enorme la distanza tra di loro. Così, aiutandosi col vino restava giorni interi a letto a ripensare al loro incontro e al suo ritorno che tardava. E ondeggiava pericolosamente tra entusiasmo per le proprie capacità espressive e sconforto per non essere apprezzato. 
Quando capì che lei non sarebbe più tornata, forse dimentica di un pomeriggio di follia o più probabilmente disinteressata al risultato di quello che aveva considerato un gioco stravagante, il quadro gli divenne insopportabile. Ancora lo guardava, al risveglio e prima di dormire, ma ora gli occhi erano astiosi e dalla bocca spesso uscivano parole di rancore. 
Il quadro, forse davvero il suo migliore, in una notte di furore finì nella stufa con la promessa di mai più dipingere. Ma le promesse degli artisti, si sa, durano il tempo di una sbornia.
*************
E dovette dipingere di fretta e di furia quando lei bussò alla sua porta.
Sono venuta per il quadro.
Non t’aspettavo più.
Dov’è?- chiese Agnese guardandosi intorno.
Roba da non crederci, rispose Amedeo indicando la stufa con una risata aspra.
Lei non capì, mosse le poche tele appoggiate a una parete e fu presa da uno sconforto rabbioso:
Non l’ha fatto! Tante parole roboanti e poi non è stato capace di ritrarmi. Dovevo aspettarmelo.
Amedeo non ci provò nemmeno a spiegarle come erano andate le cose. Diede una manata a far sloggiare il gatto acciambellato sulla sedia:
siediti qua, dietro di me, e guarda pure quello che faccio. Ma non parlare e non interrompere in alcun modo il mio lavoro.
Le diede le spalle e da quel momento si dimenticò di lei.
Dipingeva con tratti sicuri, veloci. Non seguiva il ricordo della donna ma “ricopiava” fedelmente il quadro che prima di essere distrutto gli si era impresso nella memoria come una colata di piombo nello stampo.
Agnese osservava muta, non per obbedienza ma per stupore, il procedere rapido del lavoro del maestro. Era lei la figura di donna che prendeva forma sulla tela, si riconosceva senza alcuna incertezza nonostante le palesi distorsioni che l’artista stava apportando al suo volto. Era sua quella bocca così rimpicciolita, erano suoi quegli occhi deformati a un taglio orientale, così diversi dal reale eppure identici. E le tornarono in mente le prime parole che lui le aveva rivolto al caffè, le mandorle dei suoi occhi. L’aveva dipinta allora, non adesso, e dal primo momento il suo modo di vederla era stata un’interpretazione personale della realtà, in cui lei si riconosceva.
Amedeo era alle ultime pennellate. Agnese si alzò e lo abbracciò da dietro appoggiando una guancia alla sua spalla. Lui fissò la figura dipinta e sembrò rivolgersi ad essa quando disse, fermati qui stanotte.
Agnese annuì in modo quasi impercettibile.


Una bizzarra posta in gioco, di Grazia Giordani






Una bizzarra posta in gioco
di Grazia Giordani


Quell’avvocato di cui già sapete è stato una vera miniera di ispirazioni.
«Dai mie ricordi hanno tratto a piene mai Bevilacqua e la Maraini, oltre a tanti altri, quindi se scriverà qualcosa anche lei, poco male (sempre che questa sia in grado di farlo, mah ho i miei dubbi); vista la considerazione in cui la tengono gli amici, penso che lei sia una, una…»
«… una cornacchia?»
« Signora, cosa dice, non mi permetterei mai (che mi legga nel pensiero, questa?)»
«Lo so che quanto le racconto le sembra frutto di fantasia, ma le giuro che è tutto vero. Lei vive in provincia (chissà che posto sarà mai quel Polesine) e quindi, trascorrendo i suoi giorni in un luogo tanto sereno e tranquillo, fatica ad immaginare le storture e le aberrazioni di certa gente di città.
«Dunque, una bella mattina (a quell’epoca la Patrizia lavorava con me e la Rita non aveva ancora scoperto nulla) mi capita in studio una signora sulla quarantina. Un tipo elegante, sofisticata, vestita con classe, profumo giusto, accessori intonati. Sono un uomo che guarda a tutto; le donne le annuso quasi, le sento a naso, insomma».
«Come fossero tartufi?»
«Se mi interrompe sempre, perdo il filo e non riesco più a raccontarle. Dove eravamo rimasti?»
«Alla signora “annusata”».
Rassegnato alle mie interruzioni, l’avvocato, guardando fuori dal finestrino con occhio opacizzato dalle visioni di vita lontana, prosegue a raccontare la bizzarra vicenda di questa cliente, sposata a un professionista, malato terminale di un’orribile malattia. La moglie vorrebbe liberarsene, in quanto innamorata cotta di un giovane «squattrinato, ma tanto sensuale ed affettuoso», con cui spererebbe di rifarsi una vita e soprattutto vendicarsi del fatto che – quando il marito era nel pieno delle forze e della salute -, accanito giocatore di poker, la usava come posta di gioco. Se perdeva la partita, la costringeva ad amplessi forzati con il vincitore che acconsentiva a questo perverso accordo.
«Pochi giorni dopo, mi capita nello studio un uomo emaciato, col respiro corto. Lo faccio sedere, premurosamente, e – prima ancora che mi esponga il caso -, capisco subito che è il pokerista dalle strampalate abitudini».
«Sono disposto a qualsiasi compromesso – mi sussurra -, ma non voglio morire “separato”. Mi aiuti a convincere mia moglie a un ultimo poker, prima della mia fine».
«A quelle parole, mi sembrava di vivere dentro un romanzo scritto da una penna alienata. Avevo proprio la faccia che fa lei, Signora, la sua stessa espressione divisa tra meraviglia e disgusto -, e sì che ne ho viste di stramberie ed aberrazioni nella mia vita…»
Un camion che ci superava in corsa mi fece perdere le ultime parole del narratore.
«Come?»
«Dicevo che – impietosito – mi rivolsi alla moglie che, freddamente e contro ogni mia aspettativa, acconsentì sotto condizione che assistessi anch’io alla partita. «Veramente avrei preferito presenziare al “dopo partita”, perché non amo il gioco. Ma non seppi sottrarmi.
«La sera seguente, fui accolto in una lussuosa mansarda in una centralissima via della mia città. Un ascensore silenzioso, che sembrava volare sulla seta, mi condusse direttamente in casa da questa strana gente e quindi in un boudoir pieno di cineserie e abatjour ornate da frange che proiettavano irreali cerchi di luce sul tavolo verde.
La partita fu brevissima.
Sembrava che il marito volutamente desiderasse di perdere.
La moglie si allontanò col vincitore sottobraccio.
Con l’animo di chi ha vissuto un incubo, mi diressi all’ascensore.
Nel chiudere la porta, udii il fragore di uno sparo.


MondoBlog del 15 febbraio 2020



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