lunedì 20 aprile 2020

La ricorrenza del 25 aprile




25 aprile 1945
di Pietro Calamandrei


Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio del torturati
Più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA.




25 aprile
di Dino Buzzati


Ecco, la guerra è finita.
Si è fatto silenzio sull'Europa.
E sui mari intorno ricominciano di notte a navigare i lumi.
Dal letto dove sono disteso posso finalmente guardare le stelle.
Come siamo felici.
A metà del pranzo la mamma si è messa improvvisamente a piangere per la gioia,
nessuno era più capace di andare avanti a parlare.
Che da stasera la gente ricominci a essere buona?
Spari di gioia per le vie, finestre accese a sterminio,
tutti sono diventati pazzi, ridono, si abbracciano,
i più duri tipi dicono strane parole dimenticate.
Felicità su tutto il mondo è pace!
Infatti quante cose orribili passate per sempre.
Non udremo più misteriosi schianti nella notte che gelano il sangue
e al rombo ansimante dei motori le case non saranno mai più così immobili e nere.
Non arriveranno più piccoli biglietti colorati con sentenze fatali,
Non più al davanzale per ore, mesi, anni, aspettando lui che ritorni.
Non più le Moire lanciate sul mondo a prendere uno qua uno là senza preavviso,
e sentirle perennemente nell'aria, notte e dì capricciose tiranne.
Non più, non più, ecco tutto;
Dio come siamo felici.




Il suono delle campane
di Renzo Montagnoli


Il primo chiarore dell’alba riuscì a infilarsi fra le fitte maglie della grata che chiudeva l’unica finestrella della stalla e un piccolo raggio andò a colpire gli occhi dell’uomo che dormiva in una mangiatoia, steso sulla paglia e coperto appena da un vecchio pastrano militare. Annibale Chiocchetti aprì l’unico occhio che gli era rimasto e, ancora addormentato, si chiese dove mai si trovasse. Poi si sovvenne della lunga camminata che aveva fatto il giorno prima da Reggio a Codisotto, di quella casa colonica in cui si era imbattuto quando ormai erano già scese le ombre della sera, dell’accoglienza ricevuta dai suoi abitanti che non conosceva, del pasto caldo consumato e infine dell’agognato riposo in quella stalla. Vicino a lui sentiva delle mucche muggire e il tipico rumore del latte appena munto che cadeva nel secchio.
Hai dormito bene?
Ero talmente stanco che mi sarei coricato anche per terra.
Il contadino gli allungò una tazza di latte fumante e una fetta di polenta riscaldata nella cenere.
Non ho altro, ma comunque è meglio di niente.
Il Guercio, che era il nome di battaglia da partigiano e che gli sarebbe rimasto appiccicato tutta la vita, ringraziò, poi divorò quell’umile, ma sana colazione.
Se vuoi lavarti, la pompa é nell’abbeveratoio di fuori. E’ acqua fredda, ma risveglia bene.
Sì, era decisamente fredda, un getto gelato che inondava il viso con la barba di tre giorni, ma era quello che ci voleva per affrettarsi a riprendere il cammino verso casa. Il contadino lo osservava, incerto su qualche cosa che voleva chiedergli, poi si decise: -Eri un partigiano?
Sì, un partigiano, operante sull’Appennino e che ha partecipato alla liberazione di Reggio. Poi siamo stati costretti a restare, per consegnare le armi agli americani, ma ieri mattina abbiamo avuto il via libera e allora tutti, con ogni mezzo, ma soprattutto a piedi, ci siamo fiondati verso casa.
Brutta cosa la guerra, brutta cosa soprattutto la guerra civile. - disse il contadino. Poi aggiunse:- Avevo un figlio, anzi ne avevo due, che non torneranno, uno, un partigiano come te, è stato ucciso in un rastrellamento, l’altro non era della stessa idea, stravedeva per Mussolini e dopo l’8 settembre è entrato nelle Brigate Nere. Morto anche lui, durante un rastrellamento. E magari sei stato tu a sparargli, ma poco importa, perché l’uno e l’altro non ci sono più.
Può anche essere che sia stato io a sparargli, ma ho sparato tante volte, anche perché sparavano a me. Sì, brutta cosa é la guerra, un’esperienza che non potrò mai dimenticare.
Il contadino mise in un cesto tre fette di polenta, un mezzo salame e un pezzo di formaggio. -Ti serviranno lungo il viaggio per arrivare a casa.
Grazie. - disse il Guercio e riprese il suo cammino. Fatti pochi passi si voltò per guardare quell’uomo che l’aveva aiutato e solo allora si accorse delle lacrime che solcavano il suo viso.
Brutta cosa è la guerra. - disse a voce alta e quello rispose, correndo dentro la stalla:- Una guerra non finisce mai, anche per chi resta.
Già il sole s’era ampiamente affacciato a oriente mentre il Guercio percorreva la strada diretta al Po, un tempo così ben tenuta, ma ora disastrata, costellata dai crateri delle bombe che l’avevano colpita. Sperò di trovare un passaggio, un camion, un carro, insomma qualsiasi mezzo per arrivare alla svelta, ma era una speranza vana. Pressochè deserta, era percorsa solo da qualcuno che magari si era congedato come lui. Lo stupì il silenzio, l’assenza di suoni, fatta eccezione per i latrati di qualche cane lontano. Era ormai primavera, ma non s’udiva il canto degli uccelli, né si vedevano, forse ancora impauriti dalla battaglia di alcuni giorni prima. Poi udì un suono, un suono di campane che chiamavano alla prima Messa. In verità erano più suoni che sembravano rincorrersi nell’aria, una serie di note che sapevano di tempo andato, tanto che pareva perduto e lui si commosse. Pensò alla sua casa, a cui contava di arrivare il più presto possibile, a sua madre, a sua moglie e al suo bambino e nel rivedere quei volti che l’ultima volta aveva scorto più di un anno prima iniziò a piangere, calde lacrime che non lo stordivano, ma lo facevano sentire meglio, che gli dicevano, scivolando fra i peli della barba, che l’incubo era finito e che era tempo di tornare a vivere.
Sentiva nascere dentro di sé un anelito, una speranza in un mondo diverso, senza più spari, senza più scoppi, ma era inevitabile allora volgersi indietro, ai tanti compagni di quell’avventura che aveva lasciato sotto croci di legno, a gente come lui che mai avrebbe visto la fine di quella catastrofe: il prete rosso, fucilato dai fascisti, Giuanin di Gualtieri, torturato e ucciso, il loro primo comandante Gambalesta che, ferito, era morto per coprire la ritirata dei suoi uomini e di tanti altri di cui non avrebbe mai saputo il vero nome, ma che, fra un passo e l’altro verso casa, sembravano affiancarsi, ombre sfumate che accompagnavano il suo ritorno e che mai avrebbe dimenticato, come non si sarebbe mai scordato gli occhi impauriti e imploranti di una spia che avevano fucilato, niente più di un ragazzo cresciuto dalla parte sbagliata.
La strada era accidentata per via dei crateri, ma ogni tanto gli capitava di trovare una bomba d’aereo inesplosa, conficcata nel terreno, e allora era opportuna una deviazione, per sicurezza., magari in mezzo i campi, sempre con il timore che fossero minati. E qui si sorprendeva, sgomento, nel vedere i filari di viti tagliate al piede, gli alberi da frutto schiantati, segno evidente che i tedeschi in ritirata avevano voluto lasciare ancora una volta il segno della loro ferocia, come se un mondo senza il terzo Reich non dovesse essere che desolazione e dannazione. Non seguiva più in pratica la strada, andava per i campi sui quali l’umida erba si cullava al sole primaverile; temette a un certo punto di aver sbagliato strada, ma poi disse a se stesso che in ogni caso era a Nord che doveva andare per arrivare al grande fiume, di cui in distanza gli pareva già di scorgere gli alti argini. Non sapeva che ore fossero, perché non aveva l’orologio, ma dalla posizione del sole pensò che forse erano le 8 o le 9 di mattina e mentre faceva questi calcoli andava, accelerando il passo, così che senza quasi accorgersi si trovò ai piedi dell’argine. Oltre c’era il Po e sull’altra riva il suo paese, la sua casa, quel piccolo mondo che aveva lasciato e che ora fremeva per il desiderio di tornare a farne parte. Salì sull’argine e guardò la grande massa d’acqua, che più sotto scorreva. Come aveva temuto il ponte di barche non c’era più e allora volse lo sguardo a sinistra, verso il ponte in ferro della ferrovia, ma non vide che lamiere contorte e piloni abbattuti.
Il fiume sotto scorreva tranquillo e l’acqua era solcata da alcune barche, con i rematori che, ritti in piedi, affondavano il remo ritmicamente e con apparente tranquillità. Guardò giù e si accorse che sulla riva sabbiosa erano allineati dei corpi intorno ai quali si muovevano alcuni uomini; scese e mano a mano che s’avvicinava all’acqua notò che quei cadaveri, gonfi come otri piene, indossavano una divisa tedesca. Da una barca, attraccata alla riva, ne stavano scaricando altri. Rimase sconcertato e allora uno degli uomini che allineavano i morti gli disse: - Anche oggi la pesca è buona.
- La pesca? - gli rispose Annibale. - Sì, questi disgraziati negli ultimi giorni di guerra, pur di scappare, hanno cercato di attraversare il fiume con qualsiasi mezzo, a volte addirittura aggrappati alle assi per fare la pasta. Si vede che non sapevano che, sotto quell’aria sorniona, il Po è traditore e ne sono annegati a centinaia. É da una settimana che ne tiriamo su; gli americani ci danno 500 lire per ogni cadavere e di questi tempi non si può fare gli schizzinosi. E poi, cosa volete che vi dica, mi fa anche piacere vedere come questi superuomini si sono ridotti. Annibale li osservava, uno per uno e a un certo punto provò sgomento: - Ma sono quasi dei bambini! - Che ci volete fare, ormai, quando mancano le braccia, tutti sono buoni per diventare carne da cannone. Ma a me sembra di conoscervi. Siete per caso del paese?
- Sono del paese e anche voi non mi sembrate un viso nuovo. Il mio nome é Annibale Chiocchetti. - Ma certo, lo sposo della Tilde. Adesso ricordo, ma siete un po’ cambiato; si diceva che stavate coi partigiani. - E’ vero, ero coi partigiani e sono cambiato; con una guerra, prima il fronte greco, poi la Resistenza non si è più quelli.
- “Non so se vi ricordate di me, ma sono Mariin, il figlio della Festona e di Giuachin, gli ambulanti di frutta e verdura. - Ricordo i vostri genitori, ma voi non siete quasi mai stato in paese, mi pare che lavoravate a Milano. - Sì, ma poi, un bombardamento oggi, uno domani, ho deciso di rientrare, anche se poi anche qui, con la faccenda del ponte, di bombe ne cadevano spesso; a essere del tutto sincero, là con il razionamento non si mangiava, ma qui, con la campagna,non ho rischiato di finire a pelle e ossa. Annibale continuava a guardare i corpi, si era incupito e si passava una mano sui capelli.
- Li ho sempre odiati e li odio anche ora da morti. - fece l’altro.
- Anch’io li ho odiati quando facevano i rastrellamenti e incendiavano le case, uccidevano gli uomini e violavano le donne, ma ora, nel vedere questi corpi sfatti, penso che non abbiano mai avuto una gioventù, non siano mai stati in grado di costruirsi un futuro diverso da quello imposto da un folle dittatore, e poi mi vengono in mente le mamme che aspetteranno invano. No, ora non provo odio, ma solo tanta pietà. - disse Annibale.
- Se volete vi do un passaggio fino all’altra riva.
- Sì, grazie, cosa vi devo dare in cambio?
Ma niente, ci mancherebbe altro.
Raggiunta l’altra sponda, Annibale scese, strinse le mani a Mariin e comunque volle sdebitarsi, dandogli un pacchetto di sigarette americane, un regalo molto gradito anche dai non fumatori, in quanto considerato buona merce di scambio.
Si avviò di buon passo, nonostante gli dolessero i piedi; alla meta ormai mancavano solo un paio di chilometri, che tuttavia finirono con il sembrargli molti di più. Anche lì la strada era martoriata dalle buche provocate dai bombardamenti, ma più andava avanti, più ogni cosa gli diventava familiare, e così finì per giudicarla non così malmessa. Le campane suonavano di nuovo, era domenica e la messa doveva essere finita. Nelle orecchie udiva ancora le parole di Don Zeffirino <<Ite missa est>> e gli sembrava di vedere la gente che usciva dalla chiesa per poi fermarsi sul sagrato per scambiarsi le consuete due parole. Sperò tanto di arrivare in tempo e accelerò ulteriormente fino a quando, in fondo al breve rettilineo, scorse il campanile, poi la chiesa e infine la gente, la sua gente che vi sostava davanti. Erano tanti, quasi tutto il paese; qualcuno lo vide arrivare, ci fu chi lo riconobbe e allora si udì un grido: - E’ tornato Annibale!. E un altro, un altro ancora, in breve fu un coro. E quando scorse fra i tanti sua moglie, sua madre, il bambino e Don Zeffirino che li abbracciava felice, si accorse di piangere, non vide più quella calca che fendeva, che voleva toccarlo, non udì più le parole di saluto e gli parve di volare. Si strinse ai suoi, senza parlare, in un lungo fremente abbraccio, da cui si sciolse lentamente per dire, con voce tremante: - Andiamo a casa, la tempesta è finita ed è tornato il sole.

Da Storie di paese




Lo zio partigiano
di Piera Maria Chessa
  
L'indomani sarebbe stato il 25 aprile, giorno della Liberazione. Una data importante per Anna per due motivi, quale dei due lo fosse di più era difficile da dire. Il 25 aprile, tanti anni prima, era morto suo padre, nello stesso giorno di un anno ancora più lontano, il 1945, l'Italia si accingeva a rinascere, dopo tanta desolazione.
Due avvenimenti così diversi tra loro ma ugualmente intensi per lei. Uno intimamente privato, l'altro straordinariamente collettivo.
In quel momento Anna stava seduta sul divano, dinanzi al televisore, davanti a lei le immagini di quel giorno lontano, mai conosciuto nella realtà ma profondamente interiorizzato grazie ai racconti di suo padre, dei suoi zii, alle fotografie sui giornali, sulle riviste, sui libri, ai servizi trasmessi alla televisione.
Un giorno di gioia e di “
liberazione” per lei ormai adulta. Ma, subito dopo, il ricordo di un fatto tragico si era affacciato alla sua mente, un avvenimento precedente al 25 aprile del '45. Poco meno di un anno prima, il 21 maggio del 1944, un suo zio, fratello di suo padre, partigiano di poco più di vent'anni, era stato ucciso dai nazisti in Slovenia, al confine col Friuli- Venezia Giulia.
Uno zio mai conosciuto ma del quale aveva sentito parlare tanto.
Rifletteva Anna in quella sera di primavera, era rilassata ma col cuore e la mente rivolta a fatti e affetti che non voleva dimenticare. E, a un certo punto, il sonno ebbe la meglio sulla sua attenzione agli avvenimenti raccontati.
 
Stanca, dopo un lungo viaggio, Anna, insieme ad alcuni parenti, arrivò finalmente al confine tra il Friuli-Venezia Giulia e la Slovenia.
Alcune persone del luogo, con le quali faticosamente erano riusciti ad avere dei contatti, li aspettavano, insieme sarebbero andati nel piccolissimo paese sloveno dove, avevano saputo, era stato sepolto Stefano, lo “zio partigiano”, come da sempre veniva chiamato in famiglia.
Anna non avrebbe saputo dire con precisione che cosa provasse in quel momento, nostalgia, rimpianto, ansia, malinconia?
- Malinconia, forse, – si disse, – un gran rimpianto, ma anche tanta rabbia per la morte di un ragazzo che aveva poco più di vent'anni!
Presero diversi mezzi, inizialmente un treno, poi dei pullman. Il primo, comodo e spazioso, gli altri invece erano mezzi vecchi che ad Anna sembrarono persino poco sicuri.
Finalmente, dopo diverse ore di incertezza e preoccupazione, arrivarono nel piccolo borgo situato in terra slovena che ospitava, nel suo minuscolo cimitero, lo zio Stefano.
Era una bella giornata autunnale, ancora tiepida, quasi un giorno di fine estate. Già sul pullman la loro guida aveva mostrato oltre i vetri un punto lontano.
- Quasi arrivati, – disse, – nel suo italiano impreciso ma comprensibile, – là, dopo monte, vedete piccola chiesa, e vicino, cimitero.
Anna si sporse un poco, ma il sole le impedì di vedere con chiarezza, intravedeva lontano soltanto un po' di foschia.
Passò ancora qualche tempo, poi finalmente il pullman si fermò.
Anna si allontanò un poco dai suoi, voleva vivere intensamente e da sola quel momento. Doveva essere molto stanca ma, coinvolta com'era, non ne percepiva l'intensità. Lo zio di cui tanto aveva sentito parlare, sul quale aveva fatto tante domande ai genitori, soprattutto al padre, fino a sfinirli, era là, poco lontano da lei.
- Ventidue anni di una vita che si era conclusa con un massacro per colpa forse di giovani come lui, indottrinati da gente ben più smaliziata, ma non per questo incolpevoli, – pensò.
Si fermò sul ciglio di una strada polverosa e guardò intensamente davanti a sè. Ecco la piccola chiesa di cui aveva parlato la guida, il tetto spiovente, e a fianco il campanile, alto e snello. Poco distanti i muri del minuscolo cimitero rettangolare, a malapena Anna intravedeva alcune croci, poi, piccole case bianche con i tetti rossi, ordinate, una vicina all'altra, quasi sentinelle in quel luogo di preghiera e meditazione. Intorno, muretti a secco, alberi ancora verdi ma già tendenti verso colori autunnali, campi e prati color smeraldo si alternavano ad altri gialli. Sullo sfondo, colli avvolti da una luce azzurrina. Nessuno presente, tranne loro venuti da lontano.
Anna provava ora una sensazione di pace, era in attesa, come sospesa.
Qualcuno la chiamò per avvicinarsi insieme al cimitero, dovevano percorrere ancora un breve tratto di strada a piedi. Si incamminarono. Impiegarono dieci minuti, forse quindici, poi furono davanti al cancello.
Anna, le sue due sorelle e un cugino, quasi un fratello, si fermarono nel medesimo istante. Erano tutti molto emozionati, da tempo aspettavano quel momento perché quel viaggio desiderato era stato rimandato più volte. Ma ora erano lì a rendere omaggio allo zio Stefano.
La guida li guardò e intuendo il loro stato d'animo attese con discrezione un cenno.
Anna capì, scambiò qualche parola con i suoi e poi disse:
- Possiamo entrare, siamo pronti.
Il ragazzo aprì il cancello. Doveva essere chiuso da tempo perché cigolò vistosamente. Poi li precedette nel breve viale che conduceva ad un piccolo gruppo di tombe situate su uno dei lati più lunghi del cimitero. Quando arrivò a destinazione si fermò. Indicò una tomba, stava al centro, quasi protetta dalle altre. Anna si avvicinò ancora un poco seguita dai suoi.
La commozione era grande. Su una lapide c'era quel nome a lungo ripetuto nella mente dopo che i genitori avevano raccontato loro quel che era successo.. La storia di Stefano, zio ed eroe, amato e rispettato da quei bambini diventati poi adulti. C'era anche una fotografia, ingiallita e poco chiara, ma abbastanza da riconoscere le sembianze di un ragazzo dagli occhi grandi, dal sorriso timido e ugualmente determinato, dallo sguardo intenso proteso, come quello di tutti i giovani, verso il futuro.
La sua vita aveva preso invece un corso diverso. Nascosto in una casa, presso una famiglia amica, era stato preso dai nazisti insieme ad alcuni compagni. Per loro e per i generosi ospiti non c'era stato scampo.
Anna pensò ai loro ultimi istanti chiedendosi che cosa potevano aver provato, quali pensieri avevano attraversato le loro menti.
Ancora dolore e rabbia in lei. Lasciò che gli occhi si bagnassero senza opporre resistenza, si voltò infine verso i suoi e vide in loro la stessa commozione.
Si era fatto tardi, in certe circostanze il tempo corre fin troppo velocemente. La guida spiegò che era arrivato il momento di andar via, avevano diverse ore di viaggio prima di arrivare al confine con l'Italia.
- Andiamo, – disse Anna, – siamo pronti.
Si diressero di nuovo verso il cancello.
 
In quell'istante Anna avvertì qualcuno accanto a lei che la chiamava. Rabbrividì leggermente, poi sentì suo marito che diceva:
- Ti sei addormentata sul divano, è tardi, dai, andiamo a riposare!
- Addormentata? – ripetè Anna, – Che è successo, ho solo sognato? Niente è vero, dunque!
Suo marito la guardò perplesso, incuriosito dal suo sguardo ancora assente le chiese di raccontargli il sogno.
- Prima che tu possa dimenticarlo. – scherzò.
Ma Anna era certa che non lo avrebbe dimenticato. Glielo raccontò infatti senza omettere niente.
E mentre narrava una storia che aveva creduto vera si ricordò che qualche anno prima un conoscente, il cui padre era stato partigiano ed era morto in un agguato per mano dei fascisti, era riuscito, sia pure tra tante difficoltà, a riportarne a casa le spoglie.
Perché non incominciare a informarsi sulle procedure da seguire?




Cos'è il 25 aprile
di Ferdinando Camon
 
 
"Avvenire" 25 aprile 2015 
 



Per chi c'era, in quella fine aprile e inizio maggio del 1945, la liberazione dai nazifascisti fu un evento enorme, e come tale allora non valutabile e non comprensibile. Sì, scappavano i fascisti e i nazisti, ma chi restava? E chi veniva? Per fare che cosa? S'intuiva che nella liberazione dai nazi-fascisti c'era il germe oscuro di un'Italia dai molti partiti, forse ancora monarchica (ma diversamente), forse addirittura repubblicana, comunque senza manganelli, senza olio di ricino, con manifestazioni pubbliche, giornali, giornali radio. Si sentiva che la Resistenza avrebbe contato moltissimo. Noi eravamo un popolo che “aveva la Resistenza”. Sì, eravamo il popolo che aveva inventato il fascismo e il fascismo era stato il maestro del nazismo. Che poi l'allievo avesse superato il maestro, questo era già nella storia. Però noi avevamo inventato il fascismo ma anche la lotta al fascismo, la resistenza del popolo. Ci sono popoli che ci sfottono con la famosa barzelletta coniata contro di noi: “Qual è il libro più breve del mondo? Risposta: l'elenco degli eroi di guerra italiani”. A questa barzelletta rispondeva Brecht (“Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”), ma rispondiamo anche noi, quando vediamo sul digitale o su Sky o al cinema, qualcuno dei tanti film costruiti sui cosiddetti eroi di guerra: la grandezza della guerra e la grandezza umana stanno su piani diversi, ambedue sono memorabili ma una sola è benefica. E la Resistenza ha avuto un suo eroismo, che nasceva proprio dall'essere la parte militarmente improvvisata e dunque più debole. Bande contro esercito. Oggi, 
25 aprile, noi festeggiamo la vittoria delle bande. Abbiamo un lungo elenco di eroi partigiani, perché abbiamo avuto una lunga Resistenza. E possiamo dire: “Infelici quei popoli che, avendo una dittatura, non hanno anche una Resistenza”. Magari avranno diserzioni, tradimenti, congiure, attentati, ma le congiure dei comandi militari, gli attentati alla vita del dittatore, le bombe alle sue riunioni, sono atti eroici, molto eroici, però non sono azioni del popolo, sono sempre azioni del vertice.
Man mano che cresceva la Resistenza al fascismo e che cresceva la repressione fascista, si faceva chiaro un concetto: una parte avrebbe vinto e l'altra avrebbe perso. La parte perdente non combatteva più per la vittoria: combatteva per la vendetta. Il suo motto era: “Morire come lupi”. È questo che rende impossibile oggi onorare ambedue le parti. Aver pietà per i morti dell'altra parte è umano ed è cristiano, ma il tributo d'onore è un'altra cosa. Il capo dello Stato, il cattolico Mattarella, ci ricorda che una parte combatteva per la libertà, l'altra per la sopraffazione. Da una parte è venuta l'Italia in cui viviamo, che avrà mille difetti ma li possiamo denunciare e combattere, dall'altra sarebbe venuta un'Italia in prosecuzione di quella che moriva, che avrebbe continuato a far vivere i suoi cittadini in attuazione della volontà di un uomo o di una oligarchia o di una dottrina. Controllato da quella volontà, tu dovevi essere fascista, non potevi essere marxista, non potevi essere cristiano... È questa la differenza. Ed è una differenza che sta nella Costituzione. Il che significa che il risultato più grande e più duraturo della Resistenza è la Costituzione che abbiamo. Chi è morto da partigiano o da resistente, è morto perché fosse cambiata la Costituzione. La Costituzione si può perfezionare, tutto è perfettibile, ma non si può tradirla. Ricordare oggi la Resistenza vuol dire ricordarsi di questo.
 
www.ferdinandocamon.it




La Festa amara della Liberazione

di Ferdinando Camon

 

Quotidiani locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 25 aprile 2013


Grande giornata oggi: Festa della Liberazione. Grandissima per coloro che ricordano come la Liberazione è avvenuta. Per tutti costoro la domanda è: è questa l'Italia Liberata? È così che la si aspettava? È stato realizzato l'ideale di coloro che hanno combattuto e sono morti per liberare l'Italia? Guardando l'Italia di oggi sarebbero contenti?
No, non sarebbero contenti. Avrebbero (hanno, quelli che sono ancora vivi) sorprese atroci. Inutile girare alla larga ed evitare la sorpresa più amara: abbiamo appena eletto il presidente della repubblica, e tra i candidati di un partito assai votato dagli italiani c'era un volontario dei repubblichini, i miliziani della Repubblica Sociale Italiana. Partigiani e repubblichini erano i due fronti opposti. Gli uni combattevano gli altri. La Repubblica Sociale era nata “dopo” la nostra sconfitta militare, quand'era chiaro che la guerra era perduta, i volontari che correvano ad arruolarsi nella RSI non volevano vincere ma volevano (sono parole loro, il loro programma) “morire come lupi”. Di fatto, i combattenti della RSI sono stati cacciatori e fucilatori di partigiani. Forse non tutti. I buoni ci sono dappertutto, anche tra i tedeschi di Marzabotto e di Stazzema. Può darsi che questo volontario della RSI sia personalmente incolpevole, ma se un nemico dei combattenti per la Liberazione è oggi candidato alla presidenza della repubblica, vuol dire che l'Italia non è nata sui progetti, le speranze, le attese dei combattenti per la Liberazione.
Certo, siamo liberi, e la libertà è il primo e massimo bene sognato nei giorni della Liberazione. Possiamo votare, studiare, lavorare, essere per il governo o per l'opposizione, pretendere che i nostri diritti siano rispettati, citare in processo chi li calpesta, mandare al parlamento chi vogliamo. Ma tutti questi diritti sono attuati in parte, e alcuni in minima parte. Non possiamo mandare al parlamento quelli che vogliamo, ma solo quelli prescelti dai partiti. Dunque non c'è pieno diritto elettorale. Non possiamo citare in processo chi ci fa un torto civile o penale. La Giustizia ha costi enormi, e dunque funziona per classi sociali. Ha tempi lunghissimi, e una giustizia che si fa aspettare anni e anni è un'ingiustizia. Molti cittadini, quando patiscono dei torti, si rassegnano senza reagire. Dall'altra parte, quelli che fanno i torti, li fanno contando sul fatto che saranno puniti molto tardi o addirittura mai. Il lavoro oggi non c'è, i figli pesano sui padri anche a 40 anni o vanno all'estero. Quelli che restano in patria, urtano contro un ostacolo che chi ha liberato l'Italia non sospettava che avrebbe avvelenato le nostre vite oggi: tu vuoi lavorare e sai lavorare e lavori bene, ma il lavoro non si ottiene per merito, questa Italia è costruita sulla negazione della meritocrazia. Non solo nei settori privati ma anche nei concorsi statali, anche quelli più delicati come l'università o la Giustizia. Chi ha combattuto per liberare l'Italia, e aveva contro di sé nemici criminali che facevano stragi di civili, contava sul fatto che, dopo la Liberazione, i criminali sarebbero stati perseguitati e scoperti e processati e condannati in tutta Europa. Purtroppo non è così. L'Europa non è nata sull'espiazione delle colpe, ma sull'oblio delle colpe. Non parlo in assoluto, non voglio fare un'affermazione contestabile: sto dicendo che non tutte le colpe sono state indagate, alcune, enormi e mostruose, sono state coscientemente nascoste. A insabbiare la Giustizia hanno lavorato governi europei, anche governi italiani. No, non è questa l'Italia che chi ha fatto la Liberazione sognava. La Liberazione è stata una Rivoluzione generale, che doveva far partire una catena di riforme. La catena s'è bloccata. Ricordiamocelo, oggi.
 
 



Qualcosa in cui credere

di Ferdinando Camon

 

Quotidiani locali del Gruppo "Espresso - Repubblica" 30 aprile 2012


«C'è troppa indisciplina nelle nostre famiglie, propongo che quando entrano i genitori, i figli si alzino in piedi»: parole del primo ministro inglese, David Cameron. Dice che manca il senso del dovere in Inghilterra. Manca anche in Italia. In tutta la società: c'è troppa sregolatezza dappertutto, casa, scuola, lavoro, Parlamento. In casa manca il rispetto per i genitori, a scuola manca il rispetto della cultura, in azienda e in ufficio manca il senso del lavoro, in politica manca il senso dello Stato. Non vogliamo essere al servizio di niente, vogliamo che tutto sia al nostro servizio. I figli non obbediscono ai genitori, gli studenti irridono i professori su YouTube, in Parlamento ogni partito cura le proprie casse e i propri voti. Che i figli si alzino quando entrano i genitori forse è troppo, ma che si alzino gli studenti quando entrano i professori è giusto. Una volta era un dovere in tutte le scuole, adesso c'è un certo lassismo. Alzandosi in piedi quando entra il professore, gli studenti mostrano rispetto verso ciò che il professore porta: oggi spiegherà un canto di Dante o la teoria di Copernico, tornando a casa tu, studente, passi in mezzo a migliaia di persone che quelle cose non le sanno, il tuo insegnante ti regala qualcosa di prezioso, che cambia la tua vita. Mostrare rispetto significa mostrare gratitudine. Anni fa il Centro-Destra proponeva che prima delle lezioni gli studenti assistessero in cortile all'alzabandiera, dritti sull'attenti. Non se ne fece nulla. E come si poteva farne qualcosa, se un partito di quell'alleanza proponeva di tuffare la bandiera nel cesso? E che, i nostri ragazzi si mettono sull'attenti davanti al cesso?
L'oltraggio alla bandiera e al 
25 aprile sono segni di decadenza. Andrebbero puniti. Il parlamentare che dice: “La bandiera italiana mi fa schifo”, andrebbe espulso dal Parlamento.
C'è chi propone di abolire il valore legale della laurea: i laureati si presentano ai concorsi tutti alla pari, a prescindere dal punteggio con cui si sono laureati. E perché? Perché ci sono università che regalano i voti, e università che te li fan sudare. Ah, ma allora qui il problema non è nella laurea, è nelle università. Fatele funzionare tutte, ma se io ho la laurea con 110 e lode, pretendo che valga come tale. Il 110 e la lode sono un merito, questa dev'essere la regola.
Chi ha un ruolo pubblico, non può sgarrare neanche nelle piccole cose. Va al ristorante? Se lo paga. Va in vacanza? Se la paga. Ce la paghiamo noi, che guadagniamo un decimo di lui, perché non se la paga lui, che guadagna il decuplo? Se uno ti offre qualcosa, acquista il diritto di chiederti qualcosa, e tu governatore (in questo caso, della Lombardia) diventi ricattabile.
Chi ha rubato non deve soltanto smettere di rubare, deve anche restituire tutto quello che ha rubato. C'era una vecchietta a Venezia, che si fingeva cieca e tirava la pensione d'invalidità, lo Stato l'ha scoperta e adesso la costringe a restituire tutti i soldi. Non li ha? Deve pagare, o s'impicchi: le regole sono regole. Ma scusate, il figlio di Bossi rubacchiava lo stipendio di consigliere regionale, 12 mila euro al mese, non se lo meritava, lo ha riconosciuto e s'è dimesso. Ma dove sono i soldi che ha intascato finora? Se li tiene? Se lo Stato se li fa ridare, è uno Stato serio, se non se li fa dare, è uno Stato-burletta.
Burletta richiama burlesque: noi disperati per la crisi, con i più disperati che si suicidano, e il nostro ex-capo di governo rievoca le serate con fanciulle discinte, impegnate in gare di burlesque? Qualcuna era anche vestita da suora: lui chiede i voti ai cattolici, e poi profana ciò in cui credono?
Non si salva niente, studio lavoro governo finanza tasse religione bandiera… Se uno vuol salvarsi, vivere una vita che abbia una dignità, al servizio di valori che la superino, deve trovarli da sé, non nel pubblico ma nel privato, in famiglia. Per questo Cameron pensa che bisogna salvare la famiglia, imporle una disciplina. È che noi pensavamo la famiglia come regno dell'affetto, non dell'autorità. Se dovessimo imporre l'autorità in famiglia, perché fuori non ce n'è nessun'altra, sarebbe il danno più grave che patiamo dalla nostra decadenza.
  
www.ferdinandocamon.it



Il sentiero dei nidi di ragno
di Italo Calvino
Presentazione dell'autore
Arnoldo Mondadori Editore Spa
Collana Oscar
Narrativa romanzo
Pagg. 160
ISBN: 9788804375913
PrezzoEuro € 8,50


La Resistenza agli occhi di un bambino


Il sentiero dei nidi di ragno è il primo romanzo di Italo Calvino, scritto nel 1947, cioè quando l'autore aveva  24 anni e già collaborava con la casa editrice Einaudi occupandosi dell'ufficio stampa e della pubblicità.
Chi pensa di leggere una delle sue straordinarie storie fantastiche si sbaglia, anche se, a tratti, emergono risvolti fiabeschi che stemperano la cruda realtà della vicenda, una sorta di neorealismo improntato tuttavia, pur con una sua autonomia, al verismo di Verga de I malavoglia.
La guerra è finita da poco, con tutti i suoi lutti e la sola esperienza positiva della resistenza, ma siamo in un'Italia che risorge dalle ceneri alimentando speranze, già in parte deluse.
E' il periodo in cui finita la sbornia per la ritrovata libertà ci si interroga sul perché degli accadimenti passati, un percorso indispensabile per acquisire coscienza di ciò che è effettivamente accaduto e delle relative motivazioni.
In questo senso Il sentiero dei nidi di ragno è una splendida metafora dei reali motivi che stanno alla base della maggior parte di chi aderì alla resistenza, ma lo è anche per coloro che invece osteggiarono questo straordinario moto popolare.
Il personaggio principale è Pin, un bambino lasciato solo a se stesso, in condizioni di abbrutimento più morale che fisico e che cerca di essere prima del tempo adulto, non per una maturità raggiunta, ma per il desiderio di evadere dal suo squallido mondo.
Cattivo come può essere uno che non appartiene di fatto né all'infanzia, né alla pubertà, si atteggia a grande, rimanendo con l'esperienza di un bimbo.
In un'epoca di furore, di sangue e di rivolta giocherà alla resistenza, rimanendo sempre solo, senza veri amici, tranne uno, un adulto con la mentalità di un bambino, e con lui che assai probabilmente gli ha ucciso la sorella, meretrice collaborazionista dei tedeschi, si allontanerà nella notte, nel buio di una vita di cui nessuno dei due conosce ancora la strada.
E le motivazioni allora quali sono? Le spiega Kim, un giovane commissario politico: i partigiani  combattono per un riscatto dal mondo di miseria e di abbrutimento, lo stesso in cui si trovano anche le camicie nere, ma mentre i primi lottano per spezzare le catene, i secondi si oppongono per mantenerle strette.
Sì, perché tutti i personaggi di questo bel romanzo, visti con affettuosa pietà dall'autore, sono dei vinti, tranne forse Kim che, a differenza degli altri, si pone tutti quei perché, le cui risposte daranno coscienza alla sua e alla loro partecipazione.
Scritto in modo scorrevole, dinamico, mai statico, ha già lo straordinario pregio di introdurre gradualmente alla riflessione, che diventa parte e scopo del testo, al punto che, se rimarranno indelebili nella memoria le figure di Pin, di Lupo Rosso, di Cugino e molti altri, finiremo con il porci anche noi le stesse domande e verremo condotti inconsapevolmente per mano a conoscere le risposte.
E' forse superfluo che aggiunga che ne raccomando vivamente la lettura.
 
Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, 15 ottobre 1923 – Siena, 19 settembre 1985).
 
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
 
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949), Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963), Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili (1972).
  
Renzo Montagnoli



L’Agnese va a morire
di Renata Viganò
Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo storico
Pagg. 250
ISBN 9788806222178
Prezzo Euro 12,00


Che cosa è stata la Resistenza


Nella sua introduzione Sebastiano Vassalli scrive fra l’altro: “L'Agnese va a morire è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall'esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire che cosa è stata la Resistenza [...]”. Sono d’accordo, tanto più che in copertina, se pur a caratteri ridotti, c’è una frase che ritengo determinante per comprendere la portata di questo libro: “Per non dimenticare che cosa è stata la Resistenza”. Sì, perché al di là della purtroppo ricorrente retorica con cui ai giorni nostri viene commemorato questo vasto movimento di popolo i giovani non sanno che cosa sia stata la Resistenza e, francamente occorre ammetterlo, questa lacuna è spesso presente non solo nella precedente generazione, peraltro nata nell’immediato dopo guerra, ma anche chi per età anagrafica è stato testimone della stessa. E così libri come “La messa dell’uomo disarmato” di Luisito Bianchi e questo L’Agnese va a morire di Renata Viganò, rappresentano due scrigni preziosi il cui contenuto è da assaporare con lentezza, quasi centellinandolo, ma alla fine le idee saranno più chiare e sarà possibile comprendere veramente ciò che è stata e ciò che ha rappresentato la Resistenza. Agnese, un’umile lavandaia, che lavora anche per il marito Palita, impossibilitato a sostenere il lavoro dei campi in quanto di salute cagionevole, è un essere umano, anche poco istruito, ma che è in grado di comprendere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è bene e ciò che è male, per puro istinto. Indifferente alla guerra, all’occupazione tedesca, quando i nazisti le strapperanno il marito, comunista, per avviarlo al lager (morirà nel corso del viaggio) si trasforma e adesso che sa da che parte sta il bene e da che parte sta il male inizierà a sconvolgere la sua esistenza nella consapevolezza di essere nel giusto. Non è un’idea politica che la guida, è molto di più, è la ribellione della sua coscienza che le impone di dedicarsi anima e corpo alla lotta partigiana, che la porta a considerare quei ragazzi che così tanto rischiano come i figli che non ha mai avuto; il suo istinto, al riguardo, è come quello del contadino che sa quando è l’ora di procedere all’aratura o di seminare. Massiccia, con il cuore affaticato, Agnese è uno di quei personaggi che incontrati per strada paiono insignificanti, ma che conosciuti bene si rivelano straordinari, gente che non esita a sacrificarsi per qualcosa che sentono molto al di sopra di loro. La sua morte non ha nulla di eroico (di lei rimane solo un mucchio di stracci neri sulla neve), non si è immolata in un’azione disperata, non ci saranno medaglie alla memoria, eppure quella morte vale più di una battaglia vinta, perché in quella conclusione a cui eravamo preparati c’è tutto lo spirito di sacrificio di una donna che ha anteposto la libertà alla sua vita.
L’Agnese va a morire è semplicemente un romanzo stupendo che resta nel cuore.


Renata Viganò (Bologna, 17 giugno 1900 – Bologna, 23 aprile 1976), non potendo terminare gli studi di medicina per difficoltà economiche, lavorò a lungo come infermiera, dedicando il tempo libero alla stesura di poesie e racconti. L'esperienza partigiana, vissuta in prima linea assieme al marito, le ispirò il romanzo per cui è divenuta celebre nel mondo: L'Agnese va a morire.


Renzo Montagnoli