Conversazione con Primo Levi
di Ferdinando Camon
Presentazione dell’autore
Disegno e grafica di copertina di
Guido Scarabattolo
Guanda Editore
Saggistica
Collana Quaderni della Fenice
Pagg. 75
ISBN 9788882469290
Prezzo € 10,00
Il dilemma di Primo Levi
Due scrittori, assai noti (Primo Levi aveva già
scritto e pubblicato Se questo è un uomo e La
tregua, Ferdinando Camon, benché più giovane, era già conosciuto per Il
Quinto Stato, La vita eterna, Occidente e Un
altare per la madre), si incontrarono nei primi anni ’80, per la
precisione il primo contatto diretto avvenne nel 1982 a Torino, città in cui
Primo Levi era nato e risiedeva; ce ne furono successivamente degli altri,
tanto che l’ultimo fu nel 1986.
Quella che doveva essere un’intervista di Camon a
Levi divenne una vera e propria conversazione, che pur obbedendo a una scaletta
di domande predisposte dal primo e concordate con il secondo, si rivelò uno
scambio di opinioni di grandissimo interesse. Deve essere dato atto a
Ferdinando Camon di aver ben interpretato i desideri dei lettori, più che mai
curiosi di conoscere qualche cosa di più di questo grande autore, testimone e
vittima della Shoa, per sua natura persona assai umile e che ha sempre cercato
di parlare attraverso le sue opere.
Ma cosa spinse Camon a contattare Levi per
intervistarlo? Questa è la prima domanda che ho rivolto allo scrittore padovano
che mi ha risposto, come sua consuetudine, in modo esauriente e senza
reticenze. Mi ha detto che era stato spinto da un complesso di colpa, in quanto
figlio di quella civiltà dell’Europa occidentale che nel tempo ha preso di mira
gli ebrei, con un lavorio di esclusione durato diversi secoli e giunto al suo
culmine con la follia nazista volta al loro sterminio.
Beninteso questo senso di colpa è una radice che
uno si porta appresso per atti compiuti, magari molto tempo prima che nascesse,
dal mondo di cui fa parte, da una civiltà che si crede esemplare e che invece
nasconde in un’atavica avversione per
gli ebrei, un nocciolo di inciviltà ancor oggi difficilmente scalzabile, atteso
un serpeggiante dilagare dell’ostracismo per tutti quelli che non ne sono
membri.
Come dice Camon, per lui andare da Levi era come
andare a Canossa, e forse ha avvertito tanto di più questo senso di colpa in
quanto cristiano e anche cattolico, proprio per la constatazione che il far
parte di un credo religioso porta inconsciamente a vedere gli altri, cioè
quelli di fede diversa, come degli estranei.
E’ stato però fortunato, perché Levi sì era ebreo,
ma non praticante, anzi non credente, per quanto in lui ci fosse una continua
ricerca che andava oltre l’umana comprensione dell’Olocausto, ma anche di una
relazione fra questo e un eventuale Entità superiore. Quando a conclusione
della conversazione Levi dice “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio,”
aggiunge poi a matita sui foglio sui quali la stessa è trascritta “Non trovo
una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo” è evidente che l’uomo era
impegnato in un logorante, ma anche angosciante tentativo di dare una risposta
logica, razionale, che andasse oltre l’atto di fede, in pratica una certezza
che per lui e per noi è del tutto impossibile.
Questa conversazione, in cui si misurano due
intellettuali di diversa matrice religiosa, è stata ben orientata in nove temi,
svolti con scambio di opinioni, non sempre coincidenti, e che inducono il
lettore a riflettere, magari esponendo un pensiero anche dissimile, tanto che
più di una volta, e questo è accaduto a me, nasce proprio la voglia di potersi
inserire nel colloquio che non risulta di un asettico accademismo.
Il diavolo
nella storia, La colpa di essere nati, Cos’era il lager, La Germania allora e
ora, Perché scrivere, Lager nazista e lager comunista, La nascita di Israele,
Le opere, L’uomo e la chimica,
sono questi gli argomenti su cui si è
svolta la conversazione e, se pur non si è arrivati a conclusioni di verità
assolute, lo scambio di pareri, le osservazioni puntuali e razionali a cui è
sempre stata improntata costituiscono un contributo importante che, senza
arrivare a conclusioni certe e definitive, pur tuttavia rappresentano un
arricchimento di cui tutti possono beneficiare.
In fondo ci troviamo di fronte a due persone che
non desiderano imporre le loro idee, ma che vogliono solo capire, e questo è
l’altro aspetto di pregio di questo libro, perché alla fine non ci sono né
vinti, né vincitori, ma si resta consapevoli che qualche cosa si è fatto, che
un altro passo verso la conoscenza si è compiuto.
Devo dire che mi sarebbe piaciuto poter
intervistare Levi, ma non credo proprio che avrei potuto dare vita a una
conversazione così interessante come invece ha fatto Camon e l’impressione che
alla fine si ritrae é che questi due uomini, di estrazione diversa, sono più
simili di quanto non si possa immaginare e pagina dopo pagina è piacevole
lasciarsi condurre quasi per mano da entrambi in un percorso altamente
gratificante e che porta a una grande sensazione di serenità, la stessa che si
raggiunge quando si è consapevoli di un accrescimento del proprio patrimonio
culturale.
Per quanto ovvio, Conversazione con Primo Levi
è sicuramente e ampiamente raccomandabile.
Il suo sito è www.ferdinandocamon.it
Intervista a Ferdinando Camon, autore del
libro Conversazione con Primo Levi,
edito da Guanda.
La Sua è un’intervista realizzata in un arco di
tempo piuttosto lungo e in più incontri; considerato che all’epoca (all’incirca
nella prima metà degli anni ’80) non esisteva ancora Internet e quindi non era
possibile effettuare il tutto con uno scambio di messaggi elettronici, Lei
ricorse a incontri diretti con lo scrittore nella sua città natale (Torino), a
scambi di telefonate e raramente in via epistolare. Fu indubbiamente un impegno
non trascurabile, anche se ne valeva la pena. Che cosa la spinse però a
contattare Primo Levi per intervistarlo?
Mi spinse
un complesso di colpa. Come ho scritto da qualche parte, andare a parlare con
Primo Levi per me significava andare a Canossa. C’è nel libretto, se uno lo
legge bene, un punto di attrito tra Levi e me, che mi fu ascritto a colpa dalla
stampa tedesca e francese di destra. Levi sosteneva che la colpa dello
Sterminio era del personaggio che dominava la Storia, e cioè Hitler. Levi aveva
un’idea eroica della Storia. La Storia la fanno
Grandi, i dominatori, gli domi eroi. Costoro sono il vento che scuote il
mare, sul quale i popoli galleggiano come sugheri. Lui aveva un’idea ristretta
della Grande Colpa. Io sostenevo allora (cioè: mi aggregavo a chi sosteneva)
una colpa collettiva, la responsabilità di massa. Che non vuol dire di ogni
tedesco, singolarmente preso. Ma del popolo tedesco, nel suo insieme. Questa
tesi ha finito poi per scalzare la tesi di Levi: Hillberg e Goldhagen e tanti
altri parlano sempre e solo di una “responsabilità di massa” dei tedeschi per
lo Sterminio. E pongono, Hillberg specialmente, la tesi che lo Sterminio fu
l’ultima fase di un’opera di espulsione ed esclusione durata molti secoli.
Dapprima fu detto agli ebrei: “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che
diventiate come noi. Convertitevi”. Fu l’epoca delle conversioni coatte. Poi fu
detto: “Non siete diventati come noi, andate a vivere da un’altra parte”. Fu
l’epoca dei ghetti. Il nazismo venne per attuare la terza fase: “Né fra noi né
lontano da noi, non potete vivere da nessuna parte. Ovunque siate, dovete
morire”. Ma questa terza fase non sarebbe stata possibile senza la seconda, e
la seconda senza la prima. E su quella fasi ha un’impronta fondante la civiltà
euro-occidentale, della quale io, come tutti qui, siamo figli. Levi è una
nostra colpa. Recensendo il mio libretto “Conversazione con Primo Levi”, la
stampa tedesca di destra (ma sono comunque grato che la Germania l’abbia
tradotto) e la stampa francese di destra (ma sono grato che il libretto sia
stato tradotto e recitato in teatro in una ventina di città, e la pièce
dovrebbe ripartire di nuovo quest’anno) giudicavano Levi “obiettivo”,
nell’attribuire la colpa al solo Führer, e me “razzista”, nel coinvolgere il
popolo tedesco. Si crede che veder
girare un proprio libro nel mondo sia una gioia, invece è un martirio.
Si potrebbe dire che Hitler nel popolo tedesco è
riuscito a far emergere determinate caratteristiche che prima erano sopite, o
comunque in letargo. Al riguardo mi pare che Marlene Dietrich abbia espresso
sostanzialmente lo stesso concetto e lei appunto era tedesca.
C’è un passo della conversazione, all’argomento “Il
diavolo nella storia”, in cui Lei dice: - Tuttavia,
nei momenti delle grandi riprese dei loro movimenti morali e religiosi, loro
pescano sempre in un repertorio di perdizione, di dannazione, di… e Levi
aggiunge: - Di demoniaco? Al che la
sua risposta è questa: - Di demoniaco,
che coinvolge e annulla la stessa divinità…
La pregherei di precisare quali siano questi
momenti in cui sono emerse caratteristiche di diabolica perdizione e di
abbandono al male. Già che ci sono, mi risulterebbe che accadimenti simili non
hanno caratterizzato solo i tedeschi, ma anche i polacchi e i russi.
Nella mia
memoria si affacciava un brano di uno storico tedesco, che commentava come
adesso dirò l’avvento del luteranesimo. Lo può trovare nell’Antologia di
Critica Storica di Armando Saitta, in tre volumi, per Laterza. Il brano è
questo: Lutero sta dialogando con un seguace, gli espone il suo concetto di Dio
e di giustizia divina, come questa giustizia sia legata alla Grazia e separata
dai merito. “Ma come si può amare un Dio come questo?” esclama terrorizzato
l’allievo. “Amarlo?” risponde Lutero, “io lo odio”. Questa confessione di
Lutero, che odia il proprio Dio, mi entrò nel cervello allora, ero studente di
liceo classico, e non m’è più uscita. Nella mia cultura di euro-mediterraneo è
inammissibile. Se non erro, Freud s’interrogava su quel che facevano i tedeschi
del suo tempo, e rispondeva che erano “battezzati male”, cioè “mal
cristianizzati”. In questi giorni mi sto occupando di Primo Levi, presento
sulla “Stampa” un libro di Frediano Sessi intitolato “Il lungo viaggio di Primo
Levi”, e mi son riletto le opere concentrazionarie di Levi: i custodi del lager
non erano uomini, non avevano niente di umano. Nell’incontro del ’38 al
Brennero con Mussolini, Hitler gli portò in regalo le opere di Nietzsche
rilegate in pelle. Hitler non ha mai taciuto che intendeva realizzare il
Superuomo di Nietzsche con le sue SS. L’avvento del Superuomo è teorizzato in
“Così parlò Zarathustra”. “Tre incarnazioni dello Spirito io vi narro –
esordisce Zarathustra -, com’esso divenne cammello, e di cammello leone, e di
leone fanciullo”. Lo Spirito-cammello è il Cristianesimo. “Qual cosa pesa di
più?” chiede lo Spirito cammello, partendo
per il proprio deserto, “ditemelo, o eroi, affinché io me lo sobbarchi”.
Ma, fratelli miei, non significa questo immergersi nell’acqua putrida della
verità, senza scacciare da sé i rospi viscidi e i vermi schifosi?” Le SS
servivano a depurare l’acqua della vita dai rospi viscidi e dai vermi schifosi,
a correggere l’umanità, perché com’era stata creata non andava bene.
Comprendo; mi pare, però, di aver capito che in
fondo Levi in questa conversazione non attribuisce le colpe dell’Olocausto al
popolo tedesco e penso che questo atteggiamento gli sia derivato dal timore di
essere pure lui considerato un razzista. Tuttavia, in un altro suo libro (I sommersi e i salvati) esplicitamente
incolpa i tedeschi per la loro volontaria indifferenza. A Pag. 29
dell’argomento La colpa di essere nati
Lei dice, fra l’altro: - E cioè il
problema di trovarsi a scontare la colpa di essere nato. Perché credo che
questa fosse la <<colpa>> che distingueva l’ebreo dal politico o
dal prigioniero di guerra. I quali scontavano una battaglia persa, o una
opposizione politica; la l’ebreo per il solo fatto di essere nato doveva
scontare questa <<colpa>> : la colpa di esistere.
Concordo pienamente, ma mi sono sempre chiesto
perché proprio l’ebreo, ed è una domanda a cui ho cercato di dare più di una
risposta. Se non si è trattato di una scelta dovuta al caso, la colpa di essere
nato deriva forse da una altra colpa, così come concepita a lungo dalla Chiesa,
soprattutto quella luterana: gli ebrei erano coloro che avevano immolato Gesù
Cristo. Qual è la sua opinione al riguardo?
Il
nazismo però non si presentava come un movimento cristiano, inteso a punire i
nemici del Cristianesimo, anzi si poneva come pagano, anti-cristiano, legato ai
miti del suolo e del sangue, al culto della forza, della razza, delle
tradizioni ancestrali. A un certo punto fu ordinato che nelle chiese luterane,
sull’altare, accanto alla Bibbia, fosse collocata una spada. Il “Mein Kampf” è
stato un libro proibito per mezzo secolo, ma in Italia lo stampava una casa
editrice di estrema sinistra, la ERS, Edizioni Riforma dello Stato, fondata e
diretta da Armando Cossutta, che era un fuoriuscito dal Pci, a sinistra del
Pci. Io l’ho trovato, l’ho comprato e l’ho recensito, sull’”Unità”. Ho letto il
libro alla ricerca del “sistema” di Hitler, se voleva la guerra o no, contro
chi, a che scopo, se preparava lo sterminio degli ebrei, e perché. Il libro è
chiarissimo. È lo sfogo di una nevrosi fobica-depressiva, che diventa
aggressiva. Hitler è sgomento per la sconfitta della Germania, e spaventato per
la potenza di Francia e Inghilterra. Sogna la vendetta. Per la vendetta gli
serve un popolo compatto, obbediente, educato militarmente, fisicamente
robusto. Raccomanda che nelle scuole non s’insegni il francese, ma la boxe.
Inculca l’odio verso gli ebrei, ma non li accusa mai di qualche colpa specifica
(hanno fato questo male o quello), ma li accusa di tutte le colpe in generale.
L’odio verso gli ebrei, non avendo una colpa da correggere, è immotivato e
perciò implacabile. Gli ebrei vanno sterminati perché sono ebrei. Non importa
se per sterminare gli ebrei dedichi uomini, mezzi, risorse e tempo, che
sarebbero necessari per vincere la guerra: anche quella contro gli ebrei è una
guerra, serve a liberare la Germania e l’umanità.
Certamente, il Mein Kampf è talmente chiaro che
nessuno che lo legga potrebbe dire che Hitler da agnello si era trasformato,
una volta giunto al tepore, in lupo feroce.
Mi scusi, però, se ritorno alla domanda, che non è
frutto di curiosità: perché sempre l’ebreo deve essere un capro espiatorio?
Forse ciò è dovuto a più concause, non ultima quella religiosa. Vede, la cosa
mi interessa sia come parte del genere umano, sia per motivi personali. Del resto,
se Hitler ha praticato l’annientamento sistematico degli ebrei, questi hanno
sempre patito nella storia persecuzioni più o meno ampie; al riguardo, basti
pensare ai pogrom e andando più indietro nel tempo la Spagna del XV secolo.
Forse non è in grado di darmi una risposta compiuta, come in verità non lo sono
nemmeno io, ma Hitler non si è inventata la persecuzione degli ebrei, l’ha
adottata e ne ha fatto uno scopo della sua vita, applicandola con metodo e
ferocia.
Ecco, io
pongo questa esatta domanda a Levi, a pagina 17, e lui la rifiuta: dice che
“non i tedeschi odiavano gli ebrei”, ma “Hitler odiava gli ebrei” e “ i nazisti
odiavano gli ebrei”. Quando io cerco di trovare radici lontane del superomismo
dei tedeschi nella loro mitologia, e m’interrogo sulla separazione che loro
pongono tra merito e salvezza, opere e grazia, lui ribatte che non c’è traccia
di questo in Goethe. Ammette però che il diavolo è una presenza fondamentale
nella loro formazione. Io mi spingo fino ad affermare che l’irruzione dei popoli
germanici nella storia degli altri popoli europei non hanno effetti diversi
dall’irruzione della peste e delle epidemie, lui ritorna a limitare questo
ruolo ai tedeschi nazisti, e questo ha prodotto un curioso effetto nella
circolazione del mio libretto di conversazioni con Levi in Germania e in
Francia: c’è in Germania e in Francia anche una stampa di destra, che s’è
buttata su queste pagine ribadendo che Levi assolve i tedeschi mentre
Camon li condanna, quindi Camon è il
vero razzista, che combatte il razzismo tedesco con un razzismo antitedesco.
Allora queste accuse erano possibili, oggi non più. Perché oggi il concetto di
“responsabilità di massa”, “responsabilità collettiva” è molto più chiaro,
diffuso ed accettato, anche dai tedeschi, fino alla cancelliera Angela Merkel.
Gli ebrei sono stati sradicati dal loro suolo nel 70 dopo Cristo, da Tito, che
non era ancora imperatore, soprannominato “deliciae generis humani”, il quale
ordinò l’uccisione di tutti i maschi in età di armi e la cacciata delle donne e
dei bambini. La diaspora degli ebrei comincia allora, e finisce dopo la seconda
guerra mondiale. A differenza di altri popoli, gli ebrei hanno conservato
cultura, religione, tradizione, non scomparendo nei popoli dentro i quali
confluivano, e questo ha sempre distinto le comunità ebraiche negli studi,
nella scienza, nelle arti, nei commerci, nella produzione…: nelle università,
tra i premi nobel, tra gli scienziati, insomma nelle classi dirigenti, la
presenza di ebrei è sempre stata alta. Può darsi che questo li abbia esposti
alla visibilità, e la visibilità all’odio: e che così il loro merito (avere una
forte comunità ebraica è una fortuna per un popolo) sia diventato un demerito
(se qualcosa va male, si può dare la colpa a loro). Ma ripeto: nei testi degli
“odiatori degli ebrei” non c’è mai un’accusa chiara, c’è solo un odio
viscerale, nebuloso e onnicomprensivo. È appena uscito qui da noi in Italia un
libro di Céline, col titolo “Céline ci scrive”, pubblicato da una piccola casa
editrice di destra, contiene le lettere e gli articoli di Céline contro gli
ebrei: me lo sono subito procurato proprio per vedere se Céline chiarisce, una
volta per tutte, le ragioni del suo antisemitismo, ma niente, lo ripete
infinite volte ma non fornisce alcuna ragione. C’è un film di Godard in cui un
marito torna a casa e dice alla moglie: “Sai la notizia? Il governo ha deciso
di eliminare tutti i medici e gli ebrei”, e la moglie: “Perché i medici?”.
Mi sembra quindi di comprendere che alla base di
questo odio razziale ci sia una irrazionalità, una sorta di atavica prevenzione
che deriva da un popolo che è riuscito, pur integrandosi, a mantenere la
propria individualità. Dove sta l’irrazionalità? Nella mancanza di presupposti,
anche fasulli, che alimentino l’antisemitismo e del resto, anche in persone
insospettabili, ho sentito più volte questo ragionamento: “Se gli ebrei sono
stati trattati così, un motivo ci sarà”.
Ecco che implicitamente in questi soggetti che, ripeto, non sono degli
estremisti, esiste una prevenzione che se non scatena un odio razziale, però fa
sì che questo possa essere tollerato. E da qui mi sorge spontanea la domanda:
non posso credere che la maggioranza del popolo tedesco avesse in sé quest’odio
razziale, mentre invece credo che per quel ragionamento che ho espresso prima
abbia di fatto accettata come logica la persecuzione degli ebrei. Quindi non
erano carnefici, ma tacitamente complici o al più indifferenti, il che non
sminuisce la loro responsabilità.
Qual è la sua opinione al riguardo?
La mia
risposta è questa. Curiosamente, il “Mein Kampf” non è un libro
delirante-aggressivo, che nasca dalla volontà di conquistare il mondo e
sterminare gli ebrei. È un libro fobico-depressivo, che nasce dallo spavento.
Hitler è terrorizzato dalla strapotenza di Francia e Inghilterra, le ammira e
le teme. Tutta la personalità e il programma di Hitler sono esplosioni del
trauma per la sconfitta della Germania: la Germania uscì dalla Prima Guerra
Mondiale non solo vinta, ma annichilita e umiliata. Il “Mein Kampf” è la
rivolta contro questa umiliazione. Il collante che unisce Hitler al suo popolo,
quel filo elettrico lungo il quale lui scarica i fulmini della sua forsennata
oratoria, è la vendetta. Si sente sempre nei suoi discorsi, nei suoi scritti,
un concetto elementare, primordiale, insostenibile da ogni punto di vista, ma
di facile presa sulla massa: noi tedeschi abbiamo perso, perché?, perché non
siamo “noi tedeschi”, in mezzo a noi ci sono dei non-tedeschi, i quali ci
corrompono e ci indeboliscono. Per questo abbiamo perso. La nostra sconfitta è
colpa degli ebrei. Eliminando gli ebrei, compiamo una giustizia retroattiva. In
Céline c’è un punto in cui il grande scrittore esclama: “Non è forse chiaro a
tutti che questa guerra è colpa degli ebrei?”. Naturalmente non c’è mai un
episodio, un fatto, una situazione in cui si possa individuare una colpa degli
ebrei verso la Germania o la Francia, ma accusare gli ebrei della sconfitta
nella prima guerra aveva molti effetti utili a Hitler, in primo luogo questo:
si liberava la coscienza dei soldati tedeschi dal peso di una disfatta, si
scaricava quella disfatta su un nemico interno, e così i soldati potevano
tornare a sentirsi invitti ed invincibili. Da notare che anche storici
non-tedeschi hanno scritto che le condizioni di pace imposte ai tedeschi a
conclusione della Prima Guerra Mondiale erano inique e insopportabili, il
popolo tedesco non poteva in nessun modo reggerle, erano in un certo senso
vendicative. E dunque l’esplosione di Hitler sarebbe stata la vendetta per una
vendetta. Ma io non sono uno storico, le ragioni per cui andavo a parlare con
Levi non erano storico-politiche, ma morali e sociali.
E’ indubbiamente vero che condizioni di pace
imposte di fatto costituirono i prodromi della seconda guerra mondiale, ma
giustamente come dice lei i motivi che l’hanno indotta a intervistare Primo
Levi non sono di carattere storico o politico, bensì morali, forse ancor più
che sociali. E quindi è opportuno rientrare nel tema principale, che presenta
spunti di notevole interesse, come quando Levi fornisce una spiegazione alla
sua domanda volta a comprendere, come psicologicamente parlando, si riuscì a
condizionare, meglio ancora a circonvenire un popolo quale quello tedesco. Levi
risponde che il mezzo fu la propaganda e l’arma spettacolosa la comunicazione
di massa, la manipolazione della folla, sperimentata dapprima dai regimi
totalitari e poi, come anche ora, in costanza di una democrazia più di
apparenza che di sostanza. Passo comunque al altro, all’argomento 6, quello del
lager nazista e di quello comunista.
Verso la fine c’è una Sua domanda che partendo dal
fatto che Se questo è un uomo è
considerato oggi un testo esemplare della cosiddetta “letteratura
concentrazionaria” cerca di comprendere i motivi per i quali gli editori
l’hanno rifiutato per diversi anni. E qui fra la risposta di Levi trovo una
stranezza, una non sincerità. Infatti dice: Se
spegne il registratore glielo dico. E poi il risultato non è eclatante, bensì si accenna a una
disattenzione nella lettura.
Non ci credo, non posso crederci, perché lo
spegnere il registratore equivale a non voler ufficializzare un discorso. Ora
non so quel che poi Le ha detto Levi e se Lei possa ora riferirlo, ma comunque,
in ogni caso, ha un’idea del perché di questi ripetuti rifiuti di
pubblicazione?
La mia
“Conversazione con Primo Levi” ha avuto più edizioni e più editori, e credo che
le ultime edizioni diano una risposta al suo dubbio. Io il libretto l’avevo
pensato per Garzanti, gli avevo proposto una collanina agile, di volumetti di
poche pagine, 100 o meno, di autori o su temi di attualità, saggi, racconti,
confessioni. Lui rifiutò dicendo: “Libri come coriandoli? Mai”. Allora i primi
libretti di quella collanina, progettata come collana-rivista, li feci io a
casa mia. Li stampavo in una tipografia veneta, le tipografie venete, e del
Nord-Est in generale, costano molto meno
di quelle lombarde. Di ogni volumetto tiravo 5-6 mila copie, e le spedivo alla
sede grafica della Garzanti, a Cernusco sul Naviglio. Avevamo un contratto,
Garzanti ed io, lui alla consegna pagava come già venduta la metà della
tiratura che riceveva. Io con quei soldi pagano tutte le spese e ne avanzavo.
Il primo volume andò bene, il secondo
pure, gli altri (ne feci 6) pure, e a quel punto Garzanti decise di fare lui
una collanina sulle 100 pagine, di formato snello, e la chiamò proprio
“Coriandoli”. La inaugurai io, con un racconto intitolato “Il canto delle
balene”. Ricordo ancora il giorno che presentammo la collana, in via della
Spiga, Franco Fortini, Piero Camporesi ed io. La “Conversazione con Primo Levi”
però aveva ormai una sua storia, non la trasferimmo nei “Coriandoli”. Esaurita
la mia tiratura, la ripubblicammo in una collanina intitolata “I libri di”, poi
la chiese Guanda ed è ancora in Guanda, ci sarà una prossima edizione presso le
edizioni della Università di Pisa ma sarà un’edizione su licenza di Guanda.
Nelle prime edizioni ho rispettato il volere di Primo Levi, e quando pronuncia
il nome di chi rifiutò il suo libro per Einaudi e mi chiede di spegnare il
registratore, affinché quel nome non restasse, io quel nome non l’ho messo. Poi
c’era troppa pressione dei lettori e dei giornali, che volevano saperlo, quel
nome. Allora, nelle ultime edizioni, l’ho messo. Il “Corriere della Sera” sul
supplemento culturale, allora diretto da Riccardo Chiaberge, imbastì una
discussione. Il nome è quello di Natalia Ginzburg, ed è stupefacente che una
scrittrice ebrea non abbia sentito la potenza della denuncia di quel libro di
un fratello ebreo, che doveva restare nei secoli e nel mondo il testimone
numero 1 dello Sterminio. La Ginzburg era ancora viva, quando il “Corriere”
aprì la polemica, e intervenne, ma senza dire niente d’importante: le solite
cose, non ero io che decidevo, decideva tutto Cesare Pavese, e così via. Non credo ci sia niente di misterioso sotto:
si tratta del giudizio sbagliato di una consulente inadeguata. Tutto qui. Primo
Levi però non è facile da capire e da valutare. Più tardi, la casa francese
Gallimard ripeté l’errore di rifiutarlo, e questo quando Levi era già noto nel
mondo, proprio alla fine della sua vita. Ci ho sofferto molto, per quel
rifiuto. È una storia complicata.
La Sua risposta è indubbiamente convincente, perché
come sappiamo non è la prima volta che un consulente editoriale cade in un
errore grossolano (al riguardo basti pensare alla tormentata vicenda della
pubblicazione del “Gattopardo”) e può darsi che la Ginzburg sia stata anche
condizionata dal fatto di essere ebrea, il che, magari nell’incertezza che
dovrebbe avere avuto sulla validità dell’opera, deve aver pesato non poco, nel
timore che un giudizio positivo, seguito da un insuccesso commerciale, potesse
esserle rimproverato per una scelta che qualcuno in azienda e anche fuori
poteva attribuire alla comune appartenenza. In fondo stupisce di più il rifiuto
della Gallimard, poiché ormai Levi non era certo uno sconosciuto. È a
conoscenza dei motivi per cui l’editore francese decise di non pubblicare
l’opera?
Era un
mio ripetuto consiglio al direttore editoriale della Gallimard, di pubblicare
“I sommersi e i salvati”. Il direttore era Hector Bianciotti, nato in
Argentina, da genitori italiani, piemontesi, poi fuggito dall’Argentina e
vissuto in Francia, a Parigi. Un grande scrittore, un suo libro autobiografico
è tradotto in italiano da Feltrinelli. Persona mite, affabile, gentile, con un
senso squisito per i libri. Fu nominato membro de l’Académie Française, la
cosiddetta Accademia degli Immortali, un posto a cui teneva molto, perché gli assicurava
una rendita mensile. Per la cerimonia d’insediamento lui doveva presentarsi
vestito come un cavaliere del Settecento, calzoni aderenti corti al ginocchio e
giaccia attillata color verde, bordata in oro, con al fianco uno spadino. I
suoi invitati dovevano indossare lo smoking. M’invitò, ma io non avevo uno
smoking. Mi scusai e non ci andai. Col senno del poi, e visto che lui è morto
prestino, non solo me ne pento, ma anche me ne vergogno. Mi giustifico
attribuendo la causa alla mia cronica mancanza di denaro. Ma questo avvenne
dopo. Torniamo a Levi.
Levi non
era tradotto in Francia, e questo mi sembrava assurdo. Io avevo tutte le opere
tradotte da Gallimard e avevo un rapporto col suo direttore Bianciotti. Insistevo perché traducesse “I sommersi e i salvati”,
gli mandavo lettere. Lui mi chiamava al telefono e mi rispondeva: “Ferdinandò,
non ci piace”. Io rispondevo: non vi piace? Ma come lo leggete? seduti? Non
dovete leggerlo restando seduti, dovete cadere in ginocchio. Era una lotta
lunga, era ancora in corso quando concludevo con Levi la conversazione
contenuta in questo libretto. Per aiutare “I sommersi e i salvati” sono andato
a Torino, a incontrarlo di nuovo, era una domenica, e insieme con lui
scegliemmo una decina di pagine da pubblicare subito su “Panorama”. Lui preferì
le ultime, quelle che terminano con l’affermazione: “C’è Auschwitz, dunque non
può esserci Dio”. Esce l’intervista su “Panorama”, e chiamo “Libération” per
chiedere spazio, un paio di pagine nelle quali spiegare ai francesi perché
devono leggere Levi. “Libération” accetta. Mando il mio pezzo, piuttosto lungo.
Levi muore di sabato. “Libération” mi chiama alla domenica, mi legge tutta la
traduzione del pezzo, lo approvo parola per parola, il pezzo esce. Il martedì
mi arriva una lettera di Primo Levi. Levi era morto al ritorno dalla solita
passeggiatina di fine settimana, e io mi dico: ”Se mi arriva oggi, martedì,
questa lettera l’ha imbucata sabato, a metà passeggiata, adesso mi spiega
perché ha deciso di uccidersi”. Apro la lettera. È una lettera vitale, piena di
progetti, “mi mandi l’articolo di Libération quando esce, mi sappia dire se
Gallimard vuol qualche altra copia dei miei libri”, non è affatto la lettera di
uno che dieci minuti dopo si suicida. Perciò io sono fra coloro (siamo tre o
quattro) che non credono al suicidio. Non ho le prove del voler-morire, mentre
ho le prove del voler-vivere. Due giorni dopo mi chiama Bianciotti:
“Ferdinandò, l’editore Albin Michel vuol prendere “I sommersi e i salvati”, ti
preghiamo di dire alla vedova, signora Lucia, che anche noi vogliamo prendere
“I sommersi e i salvati””. Due settimane dopo altra telefonata: “Albin Michel
vuol prendere due libri di Levi, di’ alla signora Lucia che anche noi prendiamo
quelle due opere”. Un mese dopo mi trovo a Brescia, alla libreria Ulisse (che
adesso non c’è più, era una libreria raffinata, diretta da un libraio che era
anche uno scrittore squisito, Umberto Stefani), sto presentando il mio libro
“La donna dei fili”, squilla il telefono: era ancora Bianciotti che mi cercava
trafelato per darmi questo incarico: “Albin Michel vuol prendere quattro libri,
ti preghiamo di trasmettere alla signora Lucia, e alla casa Einaudi, questo
messaggio: la Gallimard è disposta a
prendere tutti i libri di Levi che si possono prendere, a condizioni non
inferiori a quelle di nessun altro”. Non
è finita. Un mese dopo, altra telefonata di Bianciotti: “Ferdinandò, Albin
Michel vuol portarci in processo, perché dice: voi lo avete rifiutato e io l’ho
preso, perché adesso mi ostacolate? Ritiratevi”, se tu Ferdinandò ci mandi
quella lettera di Levi, nella quale lui esprime il desiderio di essere
pubblicato da Gallimard, ci aiuti”. Mando una fotocopia della lettera, e la
questione si chiude, Primo Levi esce da Gallimard. C’è un piccolo strascico:
quando esce in Francia “I sommersi e i salvati”, l’Istituto Italiano di Cultura
organizza una giornata di presentazione, lei conosce la sede dell’Istituto, è
in Rue de Varenne 50, pubblica anche una rivista che si chiama col nome della
via e numero del civico, è una sede magnifica, ampia e sontuosa, le stanze sono
piene, tutta la Parigi colta aspetta, io arrivo e un signore che non conosco mi
s’accosta mormorando una cantilena: “Monsieur Camon, io non la benedico, io non
la benedico”, il Direttore dell’Istituto accorre e mi trascina via, io gli
chiedo: “Chi è questo signore? E perché non mi benedice?”, “Non ci badi – fa il
Direttore -, è il traduttore che Albin Michel aveva già assunto, gli dispiace
molto di non tradurre Levi, e pensa che la colpa sia di Camon”. Ecco, le cose
andarono così. La mia conclusione è questa: “Levi è troppo”, al primo impatto
(Natalia Ginzburg, Hector Bianciotti…) ispira un rifiuto che è un gesto di
autodifesa, un istinto di sopravvivenza. Levi non commuove il lettore, non lo
turba: lo tramortisce.
E’ una vicenda quasi da vaudeville e non a caso il
teatro è la Francia; dispiace molto che Levi non ne abbia visto la conclusione
e che la morte l’abbia colto anzitempo. Al riguardo, potrebbe essere stato un
incidente, un malore improvviso, o anche un subitaneo sconforto; di certo non
lo sapremo mai, ma in fondo poco importa, perché la morte è uno di quegli
eventi che prima o poi accade a tutti, quella morte a cui era sfuggito quasi
miracolosamente ad Auschwitz; mi sembra che questa “fortuna” (ma il termine è
probabilmente improprio) gli sia tuttavia pesata, un po’ come per il
protagonista di Diceria dell’untore.
Poi, come emerge dall’intervista, qualcuno addirittura ha voluto vedere un
disegno superiore in questa sua salvezza, circostanza che ha indignato Levi
perché, come dice lui stesso, sembrerebbe che Dio avesse concesso dei
privilegi, salvando qualcuno e condannando qualcun altro. Con questo arriviamo
alle ultime righe della conversazione, al punto in cui Lei domanda: “Cioè Auschwitz è la prova della non
esistenza di
Dio?” e Levi risponde: “ C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio.” (Sul dattiloscritto, a
matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la
trovo).
Credo che queste ultime righe, oltre a concludere
una conversazione di estremo interesse, siano molto emblematiche; personalmente
vedo un Levi certamente non ateo, e tantomeno agnostico, però è un uomo che
cerca di capire, ricorre alla razionalità per cercare il trascendente, in un
percorso senza sbocco. E allora arrivo alla domanda: secondo Lei, Levi credeva
in un’Entità superiore, o comunque era alla continua ricerca di una risposta al
perché della morte e soprattutto al perché della vita?
È lui
stesso che risponde, nella conversazione. Dice che aveva ben ricevuto
un’educazione religiosa, ma che Auschwitz l’ha spazzata via. La sua conclusione
è: “C’è Auschwitz, dunque non può esserci Dio”. La mia impressione è stata
allora, e torna ad essere ogni volta che rileggo questo passo, che Levi volesse
proprio introdurre nel pensiero filosofico una prova della non-esistenza di
Dio, da contrapporre ai sistemi dei filosofi che sostengono l’esistenza, per
esempio Sant’Anselmo d’Aosta. “Dio c’è per questa e questa ragione”, dicono
questi filosofi. “Dio non c’è, perché c’è Auschwitz” obietta Levi. Per me, la
conversazione si chiudeva lì. Quando gliel’ho mandata, per un’ultima
approvazione, mi aspettavo che lui correggesse qualche parola, ma non un
concetto così essenziale, così fondamentale. Ci ho ragionato molto. Dopo le prime edizioni, a partire dalla
traduzione francese, ho aggiunto una prefazione con cui chiarisco ciò che per
me significa quell’aggiunta: Levi aveva espresso una negazione assoluta
dell’esistenza di Dio, ma se ne pente e riapre la questione: afferma che Dio
non c’è, dunque il problema è chiuso, questa è la soluzione, ma subito corregge
che “non trova una soluzione”, dunque il problema resta aperto, chiarisce che
il non-trovarla non mette fine alla ricerca, infatti aggiunge ancora “la cerco
ma non la trovo”: il messaggio finale è quello di una continua ricerca
continuamente esposta allo scacco. La conclusione “c’è” o “non c’è” sarebbe
comunque pacificante, la conclusione “non trovo ma cerco” resta aperta a
un’angoscia che non ha fine.
Secondo me questa continua ricerca dimostra che in
fondo Levi credeva che esistesse qualche cosa; la sua non era una negazione
assoluta, anzi partiva da una deduzione personale quando diceva: “Dio non c’è,
perché c’è Auschwitz.” In fondo in lui
era inconcepibile che Dio avesse consentito l’olocausto e se fosse stato ateo
il problema non si sarebbe posto, anzi il fatto stesso della Shoah sarebbe
stato un rafforzamento della sua convinzione. Comprendo che per lui questa
ricerca sia stata un problema angosciante, ma solo perché ha voluto fare di una
deduzione un ragionamento logico e senza dimenticare che l’essenza stessa di
chi crede è il persistere del dubbio.
Siamo alla fine di questa conversazione, che per
fortuna non ci ha impegnato per tutto il tempo che ha caratterizzato la Sua con
Primo Levi e credo che questo sia il momento di tirare delle somme, di
azzardare dei giudizi.
So che non è facile e so pure che parlare di
quest’uomo Le riesce difficoltoso, ma è proprio per questo che la domanda che
segue ha il suo senso.
Che cosa ha rappresentato e continua a
rappresentare per Lei Primo Levi?
Il rapporto tra me e Primo Levi è il rapporto tra
uno scrittore “minore” e uno non soltanto “maggiore”, ma “massimo”. Levi era
come dev’essere uno scrittore, e come, nel mio piccolo, tento di essere io: uno
scrittore “separato”, che si presenta al mondo con i libri, non in tv, non nei
giornali, non nei premi. Perciò era uno scrittore dimenticato. Si stampavano
storie della letteratura, in cui Levi non c’era. Ricordo che il manuale di
storia letteraria più diffuso allora nei licei e nelle università, cioè quello
di Natalino Sapegno, era giunto alla 43esima ristampa, e a Primo Levi non
dedicava neanche una riga. Ne ho parlato col direttore del supplemento letterario
della “Stampa”, che allora era Luciano Genta, e lui mi ha consigliato: “Scrivi
un ‘Parliamone’”. Il “Parliamone” era una rubrica-jolly, firmata ora da un
collaboratore ora da un altro, in cui si esponeva un problema
letterario-culturale-editoriale del momento. Scrivo il “Parliamone”. La mia
domanda era: “Si può ristampare 43 volte una storia letteraria, e dimenticare
sempre Primo Levi?”. Alla 44esima edizione, Natalino Sapegno include Primo Levi
con queste parole: “È forse il più grande scrittore italiano del secolo”.
Allora la mia domanda diventa: può una storia letteraria italiana dimenticare
per 43 edizioni il più grande scrittore del secolo? Da che cosa nasceva questa
dimenticanza? Dal fatto che Levi viveva rintanato, non andava a convegni, non partecipava
a dibattiti, non si faceva notare in nessun modo; se pubblicava un libro,
l’editore mandava le copie alla stampa, ma non sollecitava nessuna risposta. Si
comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce. Sono
convinto che fargli avere il Nobel sarebbe stato possibile e facile. Questa mia
“Conversazione”, della quale stiamo parlando qui, è uscita in Svezia, sono
andato a presentarla a Stoccolma, all’Istituto Italiano di Cultura e
all’Università: c’erano molti ascoltatori, studenti, docenti, giornalisti,
scrittori (a Stoccolma, se vien presentato all’Istituto di Cultura Italiano un
autore, gli intellettuali svedesi accorrono perché sanno che lì si trova il
vino italiano; non è che nei negozi e nei ristoranti il vino italiano sia
introvabile, ma è carissimo, perché è gravato da una pesante tassa che non va
al Fisco ma alla Casa Reale), c’erano anche membri dell’Accademia di Svezia,
votanti al Nobel, e parlando con loro ho avuto la netta sensazione che, se Levi
fosse stato presentato al Nobel, gliel’avrebbero dato. Ma questa è
un’operazione strana, che non dipende per niente dal Ministero della Cultura o
dell’Istruzione, ma solo dal Ministero degli Esteri. I nostri Istituti
Culturali all’estero sono gestiti dalla Farnesina. Anche questa è un’assurdità.
Ma parliamoci francamente: cosa aggiungerebbe il Nobel, a Primo Levi? Nulla.
Grazie, caro Camon, per la bella conversazione,
dalla quale esce un quadro ancor più completo della straordinaria personalità
di Primo Levi.
Recensione
e intervista a cura di Renzo Montagnoli
Nuovamente un'ottima intervista di Renzo su due personaggi, istruiti e saggi, che aiutano a comprendere una fase storica dell'uomo che si può definire la più catastrofica che sia mai esistita.
RispondiEliminaAggiungo, unicamente, che furono le circostanze storiche che portarono Hitler al potere, ed esse sono il risultato di abusi e soprusi compiuti dall'uomo, uguale di quale fazione esso sia e in quale situazione si sia trovato.
Hitler crebbe in una famiglia soggetta a gravi disturbi mentali. Fu l'unico a sopravvivere di tre fratelli.
La sua personalità, contorta e squilibrata, lo spinse all'azione oppressiva, accompagnata dal significativo tono collerico dei suoi discorsi, verso il suo mondo esterno.
Di fatto, le sue infuocate proclamazioni popolari sono espressione del suo carattere demagogico e distruttivo.
Di non altro ebbe bisogno, che di trasferire le sue depressioni verso l'esterno, fatto che gli riuscì con l'arrivo al potere. Da qui si sentì a suo agio perché poté imporre la volontà dettata dalla sua psiche malata sul suo popolo, anche lui depresso e bisognoso di un capo dal tono forte e deciso.
Ne sorse così una situazione liberatoria sia per la sua psiche sia per quella del suo popolo, da credersi chiamato e autorizzato da una forza divina, con il compito di creare un mondo giusto, disciplinato e puro. Si nota, quanto il potere diventi demagogico, una volta che sia assunto da persone insane e maniache. Il nuovo Messia era finalmente arrivato e agiva conseguentemente.
Incolpare Dio di ogni disastro sarebbe come condannare anticipatamente l'uomo alla sua fine definitiva, come anche non ammettere la possibilità di elevazione attraverso la fede in un Dio padre che lo aiuti a risollevarsi e sperare in un futuro migliore.
Un Dio che si riflette nella straordinaria forza della sopravvivenza dell'uomo, così che nel corso della sua vita egli stesso riesca a sopravvivere, sostenendosi su questo straordinario riflesso psichico quale surrogato della sua limitatezza cognitiva ed emotiva.
Insomma è come se l'uomo fosse un malato, perché è costretto a vivere in un ambiente limitato e grezzo, dal quale però potrebbe salvarsi azzeccando una cura adeguata.
Nel successo della scelta della cura sta il grado della sua salvezza.
Aggiungo che è più facile incolpare un singolo dei malanni che colpiscono l'Umanità, invece che la società nel suo insieme, per essere stata sorda e permissiva davanti ai primi segni di comportamento demagogico e arbitrario di uno o qualcuno dei suoi membri.
Che la società oggi abbia imparato dalle ultime tragiche vicende della sua storia, rimane ancora da provare. La tendenza di molti a sostenere nuovamente idee razziste mi lascia perplesso e timoroso di un ritorno del passato.
Lorenzo
Ecco che mi ritrovo, come sempre mi accade dopo una lettura, a riflettere sulle parole, sulle frasi, sui periodi, a scandagliare, a capire in profondità il senso di ciò che ho appena letto.
RispondiEliminaLe interviste e le recensioni, poi, sembrano avere qualcosa in più, si arricchiscono della personalità dei protagonisti, di chi domanda e di chi risponde, delle loro conoscenze e delle loro opinioni che, sia pure in modo indiretto, arricchiscono il personaggio principale, in questo caso Primo Levi.
Una personalità gigantesca, ingombrante e complessa, uno scrittore che ha vissuto un'esperienza lacerante, ferite incise col fuoco sulla propria carne. Io credo che non ci si possa accostare a Primo Levi se non con quel profondo rispetto che soltanto i “grandi” meritano. Ferdinando Camon l'ha fatto e ci ha donato di lui un ritratto straordinario.
Belle, profonde e incisive, Renzo, sia la recensione che l'intervista a F. Camon, scrittore e giornalista che leggo sempre con interesse per il suo rigore, la chiarezza e i valori etici che accompagnano il suo lavoro.
Si ha l'impressione, ascoltandovi, di essere in vostra compagnia.
Grazie.
Piera
"Si comportava come deve comportarsi uno scrittore: scrive i libri e sparisce."
RispondiEliminaHo letto recensione e intervista affascinata da tante notizie inedite o poco conosciute sulla vita di Primo Levi e sui suoi rapporti con l'editoria e, naturalmente, con Ferdinando Camon.
Grazie
franca
Ho letto con calma e attenzione. La recensione, come sempre, fornisce un quadro copleto di quel che serve per sapere se un libro può interessare o meno (e questo interessa e tanto).
RispondiEliminaL'intervista, che è poi una conversazione fra il sig. Montagnoli e il Prof. Camon, è di altissimo livello e meriterebbe uno spazio televisivo, in modo da raggiungere il maggior numero possibile di persone. Ne emerge un quadro chiaro e nitido della personalità umana e artistica di Primo Levi, e dispiace che anche lui non possa aver partecipato.
Il prof. Camon è bravo e competente, lei sig. Montagnoli si è superato e si capisce chiaramente il piacere che ha ritratto da questo scambio di opinioni.
A entrambi dico grazie per averi aperto nuovi orizzonti, per avermi accresciuta culturalmente.
Agnese Addari