sabato 19 novembre 2016

Il prete rosso, di Renzo Montagnoli

Il prete rosso
di Renzo Montagnoli




Il Guercio amava poco parlare della sua esperienza partigiana e proprio per questo diventavo sempre più curioso, gli rivolgevo domande, a cui non rispondeva, oppure si limitata a una sconsolante alzata di spalle. Rammento che una sera fui particolarmente incalzante, al punto da indispettirlo e farlo sbottare in una frase che sembrava definitivamente conclusiva. “Non mi piace parlare di guerra, di morti, di rastrellamenti, di torture; io ero là, fra i ribelli, come avrebbe dovuto esserci ogni uomo amante della libertà e della pace, ma se non mi pento di questa scelta, non passa giorno che non provi rimorso per qualche vita che ho tolto”.
Rimasi un paio di minuti in silenzio e poi mi venne del tutto naturale dirgli che la mia non era semplice curiosità, ma il desiderio di uno che voleva sapere, voleva conoscere.
Restammo zitti entrambi per un po’, poi mettendomi il volto fra le mani, sbottai: “Possibile che non ci sia un ricordo determinante, un personaggio unico, qualcuno che tu non dimenticherai mai e che dalle tue parole sarà per me altrettanto indimenticabile?”.
Sospirò e cominciò a raccontare.
<< Ti dirò del prete rosso, un uomo che se fossero tutti così i preti, la Chiesa sarebbe ben diversa e sarebbe veramente la casa di Dio. Don Severino Fancelli, così si chiamava, era il parroco di un piccolo paese dell’Appennino modenese, talmente piccolo che la minuscola chiesa avrebbe potuto raccogliere tutti i suoi abitanti per la Messa. Era povera gente, sempre stata povera, e con la guerra si era immiserita ulteriormente; quindi questo prete non poteva fruire di particolari prebende, tanto che per mantenersi faceva diversi lavori a seconda della stagione: nei campi in primavera e d’estate, campi di altri, beninteso, perché lui non possedeva nulla, e con l’avvicinarsi della brutta stagione dava una mano ai carbonai. Era talmente povero che portava lo stesso paio d scarpe da almeno dieci anni, scarpe a cui dedicava una cura particolare, con un’abilità manuale che gli derivava dall’esperienza. Mangiava quel che riusciva a trovare, cioè sempre poco, e non era quindi uno di quei reverendi ben pasciuti che si possono trovare con una certa facilità nelle parrocchie; no, lui era magro come un’acciuga, forse anche per costituzione fisica, ma certo con quel poco di cui si alimentava non sarebbe mai potuto ingrassare. Sempre contrario a ogni forma di violenza, era diventato subito inviso ai fascisti, di cui aveva assaggiato più di una volta il manganello e l’olio di ricino. Ma lui non stava zitto, perché la domenica a Messa predicava ai suoi parrocchiani il rispetto per le idee altrui e la temperanza. Con l’avvento della guerra, poi, aveva cominciato a calcar la mano e i suoi sermoni, senza mai essere violenti, incitavano a non prendere le armi, a non andare a militare, al punto che per il suo comportamento subì una denuncia, che solo grazie al suo vescovo non ebbe conseguenze. Questi lo invitava a essere prudente, a non esporsi, ma erano parole al vento. Restò buono per alcuni mesi, anche perché per una nefrite dovette lasciare temporaneamente la parrocchia e andare in un ospedale. Ritornò dai suoi fedeli agli inizi del settembre del 1943, cambiato come notarono alcuni, ma men che meno remissivo, anzi le sue prediche estesero il campo d’azione, chiamando in causa i ricchi che fanno fare la guerra ai poveri e auspicando un mondo in cui tutti fossero proprietari solo di se stessi, tutti uguali, tutti insieme per il bene comune. Da lì venne il soprannome di prete rosso, e non per i capelli, che erano biondicci. Ebbi modo di conoscerlo dopo l’8 settembre, quando cercai di unirmi ai partigiani; fu lui a farmi da tramite, a ospitarmi per due giorni nel minuscolo appartamento annesso alla chiesa, a dividere con me il suo scarso cibo. E dato che io non ero arrivato a mani vuote, ma portandomi dietro tre salami e due prosciutti mi fece una proposta che all’inizio giudicai oscena. Mi guardò con due occhi fermi, due occhi grigi determinati, ma che esprimevano anche dolcezza: “Tu vuoi che li mangiamo? Forse non sai che in paese ci sono un paio di persone seriamente malate e che avrebbero bisogno di mettere sotto i denti qualche cosa di sostanzioso; io e te in fondo non siamo malati, possiamo mangiare la zuppa di rape, ma loro, loro, se vogliono sopravvivere, hanno bisogno di roba nutriente e questa lo è. Aiutare chi ha bisogno sarà proprio di una società di domani, dove si è uno per tutti e tutti per uno. Molti dicono che sono un marxista, ma non so nemmeno che cosa voglia dire; io sono un cristiano e come tale devo comportarmi, non per obbligo, ma per convinzione. Vuoi ancora che ce li mangiamo?”. Abbassai gli occhi e feci cenno di no con la testa. Al che lui mi abbracciò dicendo: “Benvenuto, Annibale, nel regno dei giusti.”.
Dopo che ebbi raggiunto i partigiani, ebbi ancora alcuni contatti con lui, pochi, ma illuminanti. Ogni tanto scendevamo noi alla parrocchia a rimorchiare qualche nuova recluta, alcune volte veniva su lui, a informarci delle novità, dei movimenti dei nazifascisti. Era certo pericoloso per lui, tanto che gli proponemmo di lasciare la parrocchia e di unirsi a noi. “No – rispose – come posso abbandonare i miei parrocchiani nel momento del bisogno? Come posso dare conforto alle madri e alle mogli che si sono viste strappare i figli e i mariti? Come posso lenire la loro miseria se non predicando la speranza di un mondo migliore?”.
Ci guardammo in faccia sconsolati, ma sicuri che aveva ragione e allora gli proponemmo di portare con sé un’arma, una pistola. “Un’arma? Per magari uccidere un altro essere umano? No di certo, preferisco morire io.”
Lo lasciammo andare e rammento che fu l’ultima volta che lo vidi, perché, come poi venimmo a sapere, due giorni dopo piombarono in paese i fascisti e lo portarono giù a Modena. Per tre giorni e tre notti lo sottoposero a torture perché volevano sapere dove eravamo e lui, per tre giorni e tre notti, stette zitto, nonostante i patimenti. Poi, all’alba del quarto giorno lo portarono al poligono di tiro e lo fucilarono. Sembra, che già legato al palo, con la vista annebbiava per le botte, abbia mormorato: “Io vi perdono, Dio non so, ma spero di sì, perché solo così un giorno potreste avere rimorso e diventare uomini veri.”
Il corpo fu messo in una fossa comune, ma i suoi parrocchiani, finita la guerra, andarono a prenderlo e lo portarono al paese, dove fu tumulato nel piccolo camposanto. Sulla lapide, oltre al nome, al cognome, alle date di nascita e di morte, misero questa iscrizione “Grazie, per la speranza che ci hai dato.”.
Spesso sono gli uomini migliori a morire troppo presto, come nel suo caso; resta il ricordo, incancellabile, di un uomo esile, quasi minuto, con gli occhi chiari e miti, un uomo che faceva però paura non solo ai nazifascisti per quel messaggio che indomabile portava avanti. Era forse utopia? Non lo so, forse sì, ma era bello, immensamente bello crederci.>>


Da Storie di paese


1 commento:

  1. Le tue "Storie di paese" sono sempre belle e avvincenti, il tuo Guercio è una figura di grande spessore che ogni volta che leggiamo un tuo racconto sembra veramente di incontrare nella realtà. Il Guercio esiste o è esistito, di questo sono certa, e credo abbia lasciato in te segni profondi.
    Grazie dunque perché ogni tanto ce ne parli.
    Piera

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