Dopo
la trebbiatura
di
Stefano Giannini
Correva
l’estate del 1952, era tempo della campagna per la trebbiatura nei
poderi e fattorie sparse sulle colline della media Valle del Savio.
La
trebbiatrice itinerante, “passava” da una casa colonica all’altra
trainata da due paia di buoi. Veniva poi impiantata nell’aia a
fianco del grande barcone del grano, ( la meda ). Al suo seguito
c’era una “squadra”, composta da una quindicina di persone .
Uomini e donne, diretti da un caposquadra, il ns. si chiamava
Ernesto.
La
trebbiatrice era attesa con ansia dai contadini, non solo per mettere
al sicuro l’agognato raccolto, frutto di tante fatiche, ma anche
perché, il suo arrivo, segnava un giorno di grande festa per tutti .
Avevo
compiuto 15 anni, ero a casa dal collegio per le vacanze. Mio padre
chiese ad Ernesto se anch’io potessi dare una mano per quel giorno.
Fui accettato !
All’alba
dovevo trovarmi presso il podere “ Cassandra”, dalla Signora
Caterina degli Onofri. Era un gran bel podere, confinante con la ns.
proprietà. Loro, una buona famiglia di grande reputazione : persone
laboriose, oneste e generose.
Alle
cinque e mezzo del mattino seguente, puntuale, ero sull’aia. Già
vi trovai altre persone. Donne con sgargianti fazzoletti legati al
collo e del cappellacci di paglia in testa. Uomini indaffarati a
livellare la trebbiatrice, con delle zeppe di legno che venivano
inserite sotto le ruote di ferro.
Tutti
assieme facevano un gran baccano. Partivano ordini urlati da ogni
parte. Le donne operaie vociavano come al lavatoio. Il motore fu
messo in funzione, si trattava di un “Bubba” a testa calda, a
petrolio. Era collegato alla trebbiatrice con un “cinghione”.
Dalle nostre parti ancora non era arrivato il trattore a cingoli.
La
trebbia era grande, bella, tutta di legno color marrone chiaro. Nella
sua imponenza
mi
faceva quasi soggezione.
In
mezzo all’aia si ergeva un bellissimo “barco” di grano che
sembrava un monumento. Alto, tutto tondo come una pagoda. Piantata
sulla cuspide v’era una croce di canna.
Le
spighe spiovevano verso terra, tutte allineate e pari come un tetto
di coppi.
Era
proprio un capolavoro. Un vero peccato doverlo smontare. Avrebbe
potuto piovere anche per un mese che l’acqua, certamente, non
sarebbe penetrata a bagnare il grano nel centro del “barco”.
Di
fianco si trovava un altro “barco” più piccolo, di orzo. Per
terra, sotto i due barchi e tutt’intorno vi era stata spalmata la “
biuvacca”, che rendeva il piano terra, liscio e marrone, rilucente
al sole come un pavimento di cotto delle nostre case di oggi.
Seppi
che la “biuvacca”, veniva fatta con lo sterco di vacca allungato
con acqua.
Si
spandeva sull’aia perché, con la scopa, si potesse meglio
raccogliere il grano che sarebbe caduto a terra durante la
trebbiatura ed anche perché non si formasse fango in caso di
pioggia.
Ernesto,
il capo squadra, inizio ad assegnare la posizione di lavoro a tutte
le persone della squadra. : Due donne con i rastrelli alla pula,
erano : la Rosina di Gigiot, signora magra e minuta come uno stecco,
e la Teresa di Luigi, la quale, invece, era robusta e grassa .
Indossavano dei vecchi calzoni dei loro mariti, lisi e rattoppati.
Alla
paglia, mandò altre due donne energiche e toste che, con le forche
dovevano spingerla verso il pagliaio in crescita. Le forcate di
paglia venivano prelevate da Giovanni di Capro, detto Zvanén, il
quale assieme alla Maria di Falchetto, costruivano e modellavano, con
consumata perizia, il pagliaio.
Poi,
mandò due uomini, coi tridenti, sopra il barco; dovevano alzare le
cove di grano e passarle alla Filomena, moglie di Tugnon che, lesta
come la polvere da sparo, con un falcetto le slegava e le passava al
“paiaròl”, (Domenico dei Sassoni), detto Minghin; era lo
specialista della battitura.
Infilava
mannelli di spighe nel battitore, in giusta misura . Né troppi, nè
pochi, ciò per non intoppare la trebbia. Il suo era il lavoro più
delicato e rischioso.
Alvaro,
un ragazzo di tre, quattro anni più grande di me, molto in gamba,
era l’abile aiuto macchinista. Lo invidiavo nel vederlo
destreggiarsi con gli appositi attrezzi, attorno al motore, tutto
schizzato di olio.
Dopo
aver posto ogni operaio alla propria mansione, mi chiamò : “ a te
Stefanino che sei ancora “bocia”, non voglio farti ingoiare tanta
polvere, ti metto alle buchette dietro alla trebbia, dove esce il
grano. Apri e chiudi e due sportellini; quando il sacco è pieno lo
togli, poi aiuta gli altri uomini a pesare i sacchi con la “stadèra”.
Però sta attento al “cinghione”, che è molto pericoloso :
l’altr’anno nel podere di Camporcino, un uomo restò sfregiato
per esserci passato sotto.”
Nel
frattempo giunsero sull’aia i figli della padrona del podere.
Portarono molti sacchi di juta ed altri di tela di canapa, bianchi
con righe marroni. Li aveva tessuti in casa d’inverno la Caterina,
col vecchio telaio di famiglia.
Essi
spostavano e pesavano i sacchi di grano e, con una matita vi
segnavano sopra il peso.
Si
iniziò a trebbiare verso le sei e mezza. Un rumore assordante, un
fumo, un polverone che sembrava fosse comparsa la nebbia.
Quelle
povere donne addette alla pula, e quelle alla paglia, dopo poco,
parevano dei mostri : tutte coperte di pula e di polvere, oltre
quella che inghiottivano respirando.
Anch’io,
come altri, misi un fazzoletto attorno alla bocca.
Per
due, tre volte si ruppe il cinghione di cuoio, che collegava il
motore alla trebbia, trasmettendole energia, per far girare le
pulegge e i valli.
Il
motorista, ad ogni intoppo o problema, sgranava rosari di bestemmie
che bruciavano l’aria. Più volte, fra lui ed il “paiaròl”,
scoppiavano accalorate discussioni che sfociavano in litigi.
Quest’ultimo, secondo lui, intoppava il battitore inserendovi
troppe spighe in una volta. Si scambiarono un sacco di brutture da
cani.
Intanto
che aggiustavano il cinghione, giunse la Gigina, nipote della
padrona.
Una
ragazza mora, mia coetanea, dotata di tutte le curve giuste, con
capelli lunghi sciolti e gli occhi neri come il carbone, con un
fiasco di vino e un bottiglione d’acqua, offriva da bere a tutti.
Vi
erano certi uomini che si bevevano anche tre bicchieri di vino di
seguito. Le donne lo annaffiavano con l’acqua.
La
Gigina, mi si avvicinò e, sorridendo, chiese : “Stefano, vuoi
acqua o vino ?”, balbettando dall’emozione risposi: “ solo
acqua, grazie !”
Passò
oltre seguita dal mio sguardo, appiccicato come una calamita, alla
sua sottana a fiori, svolazzante .
Dalla
sua bocca larga, la trebbia, sputava di continuo tanta paglia che, a
stento, quelle donne riuscivano, in tempo, a tirarla via da sotto.
Il
grano che usciva abbondante dalle buchette era pulito e sano. In
pochi minuti il sacco era pieno, ed io, svelto, lo toglievo e, al
volo, ne sistemavo un altro vuoto.
Arrivati
ai 100 sacchi, il macchinista suonò a lungo la sirena.
Era
una bella giornata, il sole di fine luglio scottava sulla pelle.
Proprio tutti portavamo un cappello di paglia in testa.
Il
sudore calava, sulla fronte e sul corpo, la pula e la polvere si
appiccicavano alla pelle e scendevano lungo la schiena, provocando un
prurito insopportabile.
Verso
le ore quattordici, fu inserita nel battitore l’ultima cova di
orzo.
Spensero
quel motoraccio nero, a testa calda, che faceva un rumore d’inferno.
Persino i polli, spaventati, stavano alla larga e, finalmente, si
fece silenzio.
Giovanni,
detto Gigiot, che stava in vetta al pagliaio, si fece issare, una
corona, come d’alloro, fatta con rametti di quercia intrecciati che
pose in cima a mò di cappello, che poi riempì di terra.
Fu
allora che giunse la Signora Caterina, ad invitare tutti a casa per
il pranzo.
Ci
attendevano due tavole apparecchiate sotto il loggiato. Pranzo da
tutti atteso.
Era
risaputo che presso questa famiglia sarebbe stato ricco, abbondante e
prelibato, come quello dei matrimoni.
L’azdora
veniva aiutata in cucina dalla nuora e da due vicine di casa, brave
cuoche, che si scambiavano vicendevolmente i favori.
Ci
lavammo alla meglio le mani e il viso nella vasca di pietra dove, di
solito, bevevano le mucche. Era stata riempita con acqua del pozzo.
Per
primo invitò Ernesto a capo tavola, alla sua destra, il motorista
Sprangon, il proprietario della trebbia e del “bubba”, quindi il
“paiarolo” e tutta la squadra, compreso i due contadini venuti a
dare una mano. Seduti a tavola eravamo 20 persone.
Subito
portarono in tavola due zuppiere di minestre in brodo : cappelletti e
passatelli, poi, quattro fiamminghe di tagliatelle al ragù composto
di fegatelli di pollo.
Per
secondi servirono, in quattro piatti da portata, arrosti misti:
galletti, coniglio, tacchino e umidi di piccione con patate.
Tutta
carne di animale del cortile, preparati il giorno prima. Cotti in
grandi tegami di coccio nel forno a legna dopo aver sfornato il pane.
Emanavano
un buonissimo odore di genuino che inebriava. Seguirono i contorni.
Patate fritte, pomodori e melanzane in gratè al forno. Non mancarono
le insalate..
L’azdora,
invitava tutti a servirsi, senza fare complimenti . Carne genuina,
pane fragrante e quant’altro abbondavano.
Tutti
bevvero parecchio. Anch’io mangiai e bevvi come non mai,
assaporando ogni piatto con gusto e sommo piacere. Il vino mi
inebriava togliendomi la timidezza cronica che mi affliggeva,
riuscendo così a scambiare qualche parole con la bella Gigina.
Malgrado
tutta la fatica della mattinata, gli uomini e le donne della squadra
si mostrarono molto allegri e gioviali.
Alcuni
uomini raccontavano delle storielle, anche piccanti, le donne
reagivano ridendo sguaiatamente. Invece alle barzellette spinte
ridevano arrossendo, fintamente imbarazzate.
Per
giustificarsi, gli uomini, le invitavano di lavarle, trangugiando un
bicchiere di vino ad ogni barzelletta.
Cantavano
: “ L’uselin della comare”, “ Lo spazzacamino”, Il molinaro
con : “dagala ben biondina...”, ed altri stornelli simili.
Verso
le diciasette si finì di pranzare. Tutti gioiosi, e qualcuno
alquanto brillo. Anche Sprangon, il macchinista, e Minghin, il
paiarolo, fecero la pace dandosi pacche sulle spalle e sollevando i
bicchieri per infiniti brindisi.
Si
era ai dolci : ciambelle, biscotti e budino, bagnati con anice,
mistrà e grappa fatta in casa, quando d’un tratto, s’udirono
strani muggiti, come di animale in sofferenza, provenire dalla vicina
stalla. Subito, il padrone di casa, allarmato, si alzò : “
scusate, devo correre in stalla, c’è una mucca che sta per
partorire “ e, rivolto agli uomini : “ se due di voi se la
sentano di aiutarmi a tirare fuori il vitellino tirandolo per le
zampe e, se necessario, imbragandole con la corda, mi farebbe
piacere. “ Il fratello Pio, Sprangon e Minghin si alzarono,
seguirono Fafin, mentre tutti gli altri, me compreso, restammo seduti
a gustarci i dolci appena serviti.
Un racconto veramente coinvolgente che riporta ad un passato in cui molti di noi avevano forse qualche anno. Si percepisce affetto e nostalgia nel ricordare quei tempi, duri ma, per certi versi, anche rimpianti.
RispondiEliminaPiera
grazie tante, anonimo; afetto: per tutte le persone semplici, forti e laboriose che mi hanno introdotto nella vita lavorativa di gruppo, tanto ! Nostalgia: dell'atmosfera unica e irrepetibile, in cui mi trovavo avvolto. Dell'ottimistica e speranzosa visione del futuro, che sognavo mi attendesse a braccia aperte, tanta ! Rimpianti: alcuno, se non quello della mia prima giovinezza così presto fuggita !
RispondiEliminaGrazie, Stefano, per aver risposto al mio commento, e per aver chiarito ancora meglio che cosa è stata per te quella lontana esperienza. Per quanto riguarda la giovinezza che non c'è più ti capisco perfettamente.
RispondiEliminaBuona serata.
Piera
Grazie ancora, Piera e un grazie anche al ns. poeta Renzo che ha mi ha pubblicato tanti racconti...! Buona serata e buona vita. Stefano.
RispondiEliminaRacconto "importante" quale descrizione di un tempo che fu, con tutta le sue fatiche, condite però da una genuina gioia di vivere. Ed è di questa gioia il ricordo più bello. Grazie
RispondiEliminaGio