lunedì 27 gennaio 2014

Il giorno della Memoria

Oggi, 27 gennaio, è il Giorno della Memoria, data scelta non a caso, visto che fu appunto il 27 gennaio 1945 che venne liberato dalle truppe sovietiche il campo di concentramento di Auschwitz, mostrando al mondo quello che già si sapeva dell’immensa tragedia dell’Olocausto. Ma non si trattò solo del genocidio di una razza, perché i nazisti rinchiusero e soppressero nei lager centinaia di migliaia di soldati russi, di altre genti inermi, che furono anche massacrate  nei territori occupati.
Di seguito riporto alcuni scritti che trattano di questo orrore.



                                                 Foto da web

Sant’Anna 12 Agosto 1944
di Renzo Montagnoli


C’era quell’alba un’aria di vetro
gente svegliata con grida di belva
ammassata nella piccola piazza
e poi il latrato feroce dei mitra tedeschi
i corpi segati da raffiche intense
e il fuoco a divorare ogni cosa
a incenerire quei poveri morti
donne vecchi e bambini
immolati nel comune destino
e le fiamme alle case
i bimbi arrostiti nel forno del pane
i fuggitivi rincorsi e massacrati di botte.
Dense nuvole di fumo salivano il monte
in un girone d’inferno i diavoli neri
l’elite della razza
a sporcarsi le mani
a bere quel sangue
a gioire nel portare le offese.
E infine fu notte
e un buio pietoso scese
a celare l’orrore del giorno.

Ero a Sant’Anna quel 12 agosto
e ancora vi sono e sempre resterò
uno dei nomi di un lunghissimo elenco
incisi su una lapide segnata dal tempo
affinché di orrore e di morte
di ogni ignominia che l’uomo può fare
non venga mai persa questa memoria.

Da La pietà

Alle 560 vittime dei carnefici nazi-fascisti.


                                              Foto da web


HOLOCAUST
von Esther Rind in Russo

Grauverhangener Himmel über Güterzüge,

überquellende Menschenmassen an der Rampe,

rufende, schreiende Kinder, Frauen, Männer,

in Reih und Glied mit scharfen Befehlen,

einer links einer rechts, Selektion über Köpfe, Leiber,

verzweifelte, fragende, nicht verstehende Augen,

Rauch aus Schloten, spiegelnd in Wasserpfützen

Erinnerungen, die nicht vergehen wollen!!



OLOCAUSTO
di Esther Rind in Russo

Un cielo grigio e incombente sopra i treni da trasporto,

dove una massa enorme di esseri umani sostava sulla rampa,

bambini, donne, uomini che gridavano, piangevano,

soldati allineati davano ordini precisi e inevocabili,

uno a sinistra, uno a destra, selezione fatta a caso,

occhi sgomentati, non comprendenti, richiedenti,

camini fumanti, rispecchianti nelle pozzanghere.

Ricordi che non vogliono scomparire!!

(Traduzione di Lorenzo Russo)





Il giorno della memoria
di Renzo Montagnoli

Oggi, 27 gennaio, è il giorno della memoria, ricorrenza introdotta dal nostro paese con una legge del 2000 in adesione a una proposta internazionale volta a ricordare le vittime del nazismo e del fascismo, con particolare riguardo a coloro che furono eliminati sistematicamente solo per il fatto di appartenere a una razza, oppure di avere un diverso credo religioso o un orientamelo sessuale particolare.
Infatti, nel corso della seconda guerra mondiale, ma anche negli anni immediatamente precedenti, la Germania adottò un piano volto a sopprimere ebrei, omosessuali, zingari, testimoni di Geova, Pentecostali, Untermenschen (cioè sottouomini, come venivano considerati i russi). Nel girone infernale rientrarono anche i disabili e i dissidenti politici.
Quante furono le vittime? E’ difficile quantificarlo con esattezza, ma la stima è di circa 16 milioni di esseri umani uccisi con esecuzioni sommarie o periti per stenti. Di questi circa sei milioni furono ebrei, oggetto di persecuzioni anche in passato.
E’ giusto ricordare perché un simile orrore non abbia più a ripetersi, ma secondo me non si possono tacere tutti quelli eliminati unicamente perché componenti di un’altra razza, e allora preferisco pensare che oggi vengano ricompresi anche il milione e trecentomila armeni che i turchi in vario modo soppressero, nonché i milioni di nativi americani uccisi dai conquistadores spagnoli e dai coloni degli Stati Uniti e del Canada, sempre dimenticati, ma erano genti che vivevano sulla loro terra, avevano tradizioni, delle civiltà che finirono per soccombere alle violenze degli invasori. 
La storia dell’uomo è purtroppo costellata da genocidi, fin dai suoi primordi, e il fatto che l’ultima grande strage sia accaduta non più di una settantina di anni fa lascia dei dubbi sull’evoluzione della specie.
Del resto, fino a quando ammetteremo le guerre per risolvere i contrasti, gli olocausti saranno sempre possibili, a riprova che l’uomo, a volte, riscopre in se stesso una bestialità non riscontrabile nemmeno fra gli animali.
Se oggi è un giorno della memoria, questa è corta per alcuni, individui che si affidano a un negazionismo farneticante per difendere il loro concetto aberrante di supremazia della razza. Non sono casi sporadici, anzi stanno diventando sempre più frequenti; questi signori, ma signori è un termine troppo rispettoso nei loro confronti, cercano il mito della superiorità per ovviare alla loro debolezza, per riscattare ai loro occhi le inesistenti qualità umane che li contraddistinguono.
Il razzismo serpeggia nell’ignoranza e purtroppo questa si sta espandendo in un mondo in cui gli interscambi sono sempre più frequenti; la paura del diverso poi viene abilmente giocata da governi per distogliere l’opinione pubblica dai veri problemi. E’ come una calunnia che poco a poco fra presa sugli individui, alimentando nei più l’indifferenza e in altri la violenza, due miscele esplosive che, combinate, possono giustificare qualsiasi azione, anche la sistematica eliminazione di esseri umani.
Occorre quindi vigilare, non prestare facilmente ascolto a campagne più o meno larvate che inducono l’insorgenza di un concetto razziale, perché oggi può toccare ad altri, ma domani potrebbe toccare anche a noi di essere vittime di un genocidio.




P.S.:

L’immagine fotografica è una scultura in materiale refrattario opera di Mara Faggioli e dedicata all’olocausto. Rappresenta uno dei tanti bimbi dei lager sottoposto alle crudeli sperimentazioni del famigerato Dr. Menghele. Chi era costui?
Così lo descrive Mara:
Il Dott. Josef Mengele fu certamente tra i peggiori criminali nazisti.
Ad Auschwitz effettuò atroci, orribili ed agghiaccianti esperimenti sui bambini, in particolare sui gemelli.
Prelevava, senza anestesia, parti di fegato o di altri organi vitali, praticava iniezioni di virus e trasfusioni incrociate, iniettava metilene blu negli occhi, al fine di mutarne il colore, ma l’unico risultato, dei suoi folli e insensati esperimenti, era quello di procurare la cecità dopo atroci e inutili sofferenze.
Ed altro ancora……..
Penso che si possa notare in quella posizione fetale tutto il dolore di un bimbo a cui è stata negata la vita così atrocemente.


A un bimbo del lager
di Renzo Montagnoli

Non più lamenti
né sofferenze.
Finalmente libero
da un mondo
senza futuro
ritorno a te,
mamma,
puri spiriti
nella pace
dell’eternità.


(Liberamente ispirata
alla scultura di Mara Faggioli)


                                                Foto da web


Primo Levi, dire l'indicibile
di Ferdinando Camon


"Avvenire", 1 aprile 2007


Primo Levi è morto di sabato, il martedì dopo m'è arrivata una sua lettera. Mi viedeaddosso una tristezza infinita e mi dico: "Ecco, adesso mi spiega perché ha deciso di uccidersi". Mi aspetto la confessione che vivere gli è impossibile, che dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c'è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega, che lui si uccide adesso ma doveva farlo quarant'anni prima, e che dunque le spiegazioni non vanno cercate in quel che succede adesso, ma in quel che era successo 45-40 anni prima. Questo m'aspetto, aprendo la lettera, che dev'essere stata l'ultima che ha scritto e imbucato. Se m'è arrivata al martedì, doveva averla imbucata il sabato: dunque durante la passeggiata che faceva ogni mattina. La apro: un inno alla vita, un vortice di programmi, speranze, attese, da riempire settimane, mesi e anni. In quei giorni stavo cercando di farlo tradurre in Francia da Gallimard: a Gallimard suggerivo ogni tanto dei libri italiani, l'editore li faceva leggere ai suoi consulenti, che erano tre, e ognuno emetteva un voto, che poteva essere 1 o 2 o 3. Se il libro otteneve tre 3, passava. Se otteneva due 2, era bocciato. Se otteneva due 3 e un 2, lo prendeva in mano l'editore in persona. Con mia enorme sorpresa, il libro di Levi, il suo capolavoro assoluto: "I sommersi e i salvati", non era passato. Da Parigi mi chiamava al telefono il direttore della Gallimard, Hector Bianciotti, grande scrittore argentino di origine italiana, ora membro dell'Académie Française, e mi diceva: "Ferdinando, non ci piace". Non potevo crederci. Chiamai il quotidiano "Libération" e concordai di scrivere un intero paginone, per spiegare ai francesi perché dovevano tradurre Primo Levi. E' in questo frattempo che Levi muore. Nella sua ultima lettera, mi chiede se Gallimard vuole un'altra copia de "I sommersi e i salvati", mi chiede una copia di "Libération" quando esce l'articolo che lo presenta ai francesi, si mette a disposizione per tutto quel che può servire. L'articolo è uscito due giorni dopo la morte di Levi, e da quel momento il destino delle sue opere in Francia ha avuto un andamento grottesco: chiama la Gallimard, m'informa che l'editore Albin Michel ha preso "I sommersi e i salvati", anche loro vogliono "I sommersi e i salvati", gli farei un piacere se avvertissi la signora Levi, Lucia. Dopo una settimana richiamano: Albin Michel prende tre libri, anche loro prendono quei tre libri. Una settimana dopo sono a Brescia, sto tenendo una conferenza alla libreria Ulisse, chiamano per dirmi che loro "sono disposti a prendere di Primo Levi tutti i libri che si possono prendere, a condizioni non inferiori a quelle di nessun altro". Non è finita. Albin Michel protesta: "Lo avevate rifiutato, io l'ho preso, perché mi ostacolate?". Per chiudere la faccenda, mi chiedono una fotocopia della lettera di Primo Levi: quella è la prova che Primo Levi voleva Gallimard. E così la faccenda s'è chiusa. Primo Levi rifiutato in Francia è la ripetizione di Primo Levi rifiutato in Italia. "Se questo è un uomo" era stato letto, nella casa Einaudi, da Natalia Ginzburg, e respinto. Quando Levi morì, Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: "E' morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale". Come possono due editori importantissimi non capire opere che varranno fino al Giudizio Universale compreso? La risposta che mi viene è che c'è "troppo", in quelle opere. Questa risposta è legata a mia valutazione di Primo Levi scrittore, che è la seguente: Primo Levi ha vissuto la massima colpa della storia, non al grado massimo in cui la colpa fu commessa, ma al grado massimo in cui poteva essere raccontata. Levi era un chimico. Un chimico studia le reazioni nel contatto tra elemento ed elemento. Levi ha osservato e descritto le reazioni nel contatto tra l'uomo più potente e il più debole. Il primo fa della propria volontà la legge della storia. La volontà "propria" è propria del popolo ma anche del singolo individuo dentro il popolo. Se il potente uccide, il delitto è giusto perché il potente lo vuole. Questo sistema è riassunto nell'incontro fra Levi e il dott. Pannwitz. Il dottore sta esaminando Levi, è proprio un esame di Chimica. A un certo punto alza gli occhi e lo guarda. Anche Levi lo guarda. Levi cerca di capire il proprio pensiero e il pensiero dell'altro. L'altro pensa: "Questo essere davanti a me merita certamente di morire. Ma prima vediamo se contiene qualcosa di utile". Nel proprio cervello, Levi sente formarsi questo pensiero: "Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono intimamente malvagi". (Cito a memoria, con possibili imprecisioni). Levi doveva rendere quel che di utile conteneva, e morire. Non doveva né sopravvivere né scrivere. Nella sua sopravvivenza e nella sua scrittura c'è stato un doppio fallimento del sistema Lager. Il sistema Lager non ha agito su Levi con tutta la sua forza. Perché Levi era un chimico, perché ha imparato il tedesco, perché non si è mai ammalato, e perché ha avuto la fortuna di ammalarsi negli ultimi giorni, evitando la marcia della morte, l'evacuazione dal Lager (raccontata da Elie Wiesel). Claude Lanzmann ha incontrato superstiti del lager che hanno sofferto di più, sono stati torturati o hanno lavorato ai forni. Davanti alla macchina da presa, si torcono, piangono, o svengono. Dicono qualche parola, non di più. Hanno passato il limite del dicibile. Levi è arrivato a quel limite. Forse non lo ha retto, e questo potrebbe spiegare la sua morte. Sono andato a trovarlo più volte, e ho raccolto in un librino i nostri dialoghi. Nell'ultima risposta dice: "C'è Auschwitz, quindi non può esserci Dio". Era una negazione drastica dell'esistenza di Dio. Quando gli ho mandato il testo per le correzioni, ha aggiunto, a matita: "Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo". Era una riapertura: non c'è, lo cerco, non lo trovo, lo cerco ancora. Rigirandomi la sua ultima lettera fra le mani, mi dicevo: Spero che l'abbia trovato.






Se questo è un uomo
di Primo Levi
Postfazione di Cesare Segre
Copertina di Fabrizio Farina
Einaudi
Narrativa romanzo
Pagg. 209
ISBN: 9788806176556
Prezzo: € 9,80

Ancor oggi, anzi ora più che in passato, ci sono non pochi che dubitano che vi sia stato effettivamente l’olocausto. Accanto a quelli che per ideologia lo negano ci sono molti scettici e, purtroppo, tanti, troppi agnostici che si disinteressano completamente del problema.
I giovani, poi, nati molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ne hanno una vaga conoscenza, spesso maturata visionando pellicole sull’argomento, con il risultato che un’immane tragedia sta per venire sepolta dalla polvere del tempo e dell’indifferenza degli uomini.
I campi di sterminio, i famigerati lager non sono purtroppo una leggenda, ma una realtà che non deve essere dimenticata.
In questo senso la lettura di libri come Se questo è un uomo di Primo Levi non solo è opportuna, ma indispensabile e dovrebbe essere oggetto degli studi scolastici, per sapere, per capire, per evitare che un giorno ci siano nuovi olocausti.
Ogni volta che lo apro, che ne scorro le pagine soffermandomi su un punto o sull’altro, ritrovo l’emozione provata nel corso della prima lettura, perché il pregio della narrativa di Levi è di essere non romanzata, ma la descrizione della pura e semplice verità. L’autore, che racconta in prima persona essendo stato rinchiuso ad Auschwitz, non ricorre all’enfasi, né va alla ricerca della facile commozione, ma, con tono quasi distaccato, parla della sua esperienza e, pur descrivendo sofferenze e patimenti, ha il pregio di effettuare riflessioni che donano all’opera una valenza generale, non limitandola a una dolorosa esperienza personale.
In lui c’è pacatezza, desiderio di comprendere per rendere partecipe il lettore di una grande tragedia che supera ogni umana immaginazione.
Le lunghe giornate invernali, coperti da abiti che non riparano dal freddo, l’alimentazione insufficiente, i carichi di lavoro eccessivi, la spersonalizzazione dell’individuo che perde il suo nome, sostituito da un numero tatuato sul polso, portano in pochissimo tempo a un generale abbrutimento, in uno stato quasi vegetativo, dove ciò che conta è solo il presente, essendo il futuro anche prossimo del tutto inimmaginabile. E’ in queste condizioni che all’eccesso emergono le caratteristiche degli individui.
I deboli si lasciano andare, sono le vittime designate delle prossime selezioni fra chi ancora potrà vivere e chi invece sarà avviato alle camere a gas.
I raziocinanti rafforzano il loro spirito di conservazione e operano per sopravvivere giorno per giorno, per lavorare meno, per mangiare un po’ di più, arrivando perfino al punto di collaborare con l’aguzzino. E se fra questi la quasi totalità cerca di instaurare un rapporto con il carnefice che gli consenta di tirare ancora un po’ avanti, ce ne sono altri che, per attitudini, diventano simili alle crudeli SS e questi sono i Kapò, indispensabili peraltro nella gestione del campo di concentramento, vigilato da un ristretto numero di militari nazisti.
Levi ci descrive così una varia umanità, per lo più cenciosa, spettri che si agitano nelle tormente di neve, che s’impantanano nel fango primaverile, che boccheggiano nell’arsura estiva, tutti figuranti di una danza macabra che porterà all’annientamento della dignità umana e alla distruzione del Terzo Reich.
Ci sono pagine che non si possono dimenticare, sopra tutte le ultime, con i russi ormai alle porte e con i nazisti che eliminano gli ultimi prigionieri rimasti, fatta eccezione, per un motivo che non si saprà mai, per i ricoverati nell’ospedale da campo, forse perché ritenuti insanabili. Fra questi c’è l’autore che, questa volta con una commozione che passa dalla pagina all’animo del lettore, ci racconta delle giornate di ritrovata libertà nell’attesa dell’arrivo dell’Armata Rossa. E’ forse l’unico momento in cui, ipotizzando un futuro, l’uomo non è più così pragmatico e l’essere consapevole di esistere ancora, nonostante tutto,  lo porta a scrivere della penosa fine di alcuni suoi ultimi compagni di sventura. Riaffiora così, se pur frenata, la pietà “Somogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione.”
Se questo è un uomo è un capolavoro?
Lo è, per lo stile narrativo, per il modo di affrontare il tema trattato, per la capacità dell’autore di raccontarci la pura e semplice verità, pur essendo parte della vicenda.


Primo Levi (1919 – 1987). Ha scritto anche La chiave a stella, I sommersi e i salvati, Se non ora, quando?, Il sistema periodico, I racconti, L’altrui mestiere, La ricerca delle radici, La tregua, L’ultimo Natale di guerra e Dialogo (con Tullio Regge).   



Recensione di Renzo Montagnoli  




                                                 Foto da web 

Il superstite
di Primo Levi


Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni.





sabato 18 gennaio 2014

Il palazzo Te a Mantova, di Renzo Montagnoli

                                                                       Foto da web


Il palazzo Te a Mantova
di Renzo Montagnoli



Non è solo perché è la città in cui sono nato, ma Mantova è un autentico gioiello, una città d’arte fra le prime in Italia. È doveroso ammettere che il merito di così tanto pregio sia della dinastia che per lungo tempo l’ha governata, quei Corradi originari di Gonzaga, paese a sud del Po, che, impossessatisi del potere con un colpo di stato a danno dei reggenti Bonacolsi, seppero costruire nel corso dei secoli una signoria fra le più famose e ammirate in Europa. Non fu certo facile per una piccola entità diventare famosa e un faro per l’arte, fu un lavoro costante, continuo che l’impose all’attenzione dei grandi regni delle epoche in cui i Gonzaga dominarono; grandi diplomatici, seppero sempre barcamenarsi fra i vicini e temibili stati limitrofi, in primis il ducato di Milano e poi la Serenissima, grazie a un servizio segreto di grande valore e alla parentela stretta con l’imperatore d’Austria, di cui, di volta in volta, erano cugini, nipoti o cognati.
È solo a loro che si deve la bellezza artistica della città, perché se avessimo dovuto aspettare i nativi mantovani la città sarebbe rimasta un borgo commerciale agricolo, magari di una certa importanza militare per la difesa costituita dai laghi che la circondavamo e che ancora in buona parte la attorniano. 

                                              Foto da web

Tutto questo panegirico serve per introdurre a parlare di un’opera di rara bellezza, inferiore forse al palazzo Ducale e al Castello di San Giorgio, ma senz’altro ragguardevole. In pieno Rinascimento, Federico II Gonzaga (Mantova, 17 maggio 1500 –Marmirolo, 28 giugno 1540), figlio del marchese Francesco II e di Isabella d’Este, abilmente guidato dalla madre riuscì a ottenere l’investitura a duca, un titolo che non era solo onorifico, in quanto trasmissibile agli eredi e che aveva una valenza solo di poco inferiore a quella di Principe. Ben introdotto alla passione per le arti dalla genitrice, quest’uomo, che avrà una vita relativamente breve, fu protagonista di burrascosi accordi matrimoniali, che da sempre per i nobili erano sinonimo di accordi patrimoniali. Si spiega così perché spesso i Signori, accanto alla moglie ufficiale, avessero una o più amanti, e anche Federico II non sfuggì a questa regola, essendo perdutamente innamorato di Isabella Boschetti, figlia secondogenita di Giacomo, uomo di corte e d’armi dei Gonzaga. Di lei si racconta che fosse molto bella, tanto  da meritarsi il soprannome di “Bella Boschetta”. Cosa non si fa per un’amata, quali desideri e idee si annidavano nella mente del giovane Federico, come accasarsi senza rompere il matrimonio con la ricca Paleologa? Pensa e ripensa al duca venne l’idea, tanto utile a lui quanto ai terzi, perché avrebbe salvato le apparenze, pur essendo la sua relazione nota a tutti. A quell’epoca la città era divisa dal canale “Rio” in due grosse isole circondate dai laghi, poi ce n’era una terza, più piccola, chiamata da tempi immemorabili Tejeto, termine poi abbreviato in Te. Questo piccolo lembo di terra, disabitato, appariva l’ideale per costruirvi una residenza patrizia discreta e comoda al palazzo, da utilizzarsi non solo per convegni amorosi, ma come residenza per le feste, luogo di ricevimento di personaggi influenti e famosi. Federico non lesinò sulle spese e infatti scelse come progettista dell’opera un certo Giulio Romano (Roma, 1499 – Mantova, 1 novembre 1546) che a quei tempi erano uno degli architetti pittori più contesi. Questi in pratica ebbe carta bianca e così poté dar sfogo alla sua grande vena artistica, edificando un palazzo che ancor oggi meraviglia per la sua bellezza. Si tratta di un’opera imponente, un edificio a pianta quadrata, con all’interno un cortile pure quadrato, e che si snellisce su un lato grazie a un’ariosa esedra.  

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Certo, l’esterno si presenta bene, anzi è un bel colpo d’occhio, ma il meglio è all’interno, con delle sale affrescate, come quelle dei Giganti, di Amore e Psiche, delle aquile, dei venti o dello zodiaco, delle imprese, di Ovidio, del Sole, dei bassorilievi, dei Cesari, e soprattutto dei cavalli. Sì, i famosi cavalli dei Gonzaga, conosciuti e apprezzati in tutta Europa, al punto che il dono di uno di essi era considerato un regalo di grandissimo valore. In questa sala, normalmente destinata al ballo, le pareti sono affrescate con i ritratti a grandezza naturale dei destrieri preferiti dai Gonzaga, purosangue che per un ardito artificio ottico sembrano seguire il visitatore con il loro sguardo fiero e mansueto. Inoltre, i cavalli, per un accurato studio prospettico, sembrano uscire dalle pareti su cui sono dipinti e vi assicuro che si rimane sbalorditi per questo effetto. La sala è generalmente considerata una fra le più belle artisticamente esistenti al mondo e un simile giudizio lo merita tutta, anche per la capacità dell’architetto di darle un senso di grande profondità, pur non essendo sì certo piccola, ma nemmeno assai grande.
In mezzo a tanta magnificenza non poteva mancare un opportuno luogo appartato, una piccola costruzione a fronte dell’esedra, denominata appartamento del Giardino Segreto, non tanto forse un luogo di quiete e riflessione per il duca, bensì una comoda e discreta alcova. Doveva essere certo un fiore stupendo la Boschetti per meritare una simile dimora per una relazione nota anche al di lei marito, ucciso poi in circostanze misteriose, sì che oltre le corna dovette patire anche la morte violenta. Da lei Federico ebbe due figli: Alessandro (1520 – 1580), dignitario di corte , e Emilia (1524 – 1573), data in sposa a Carlo Gonzaga, signore di Gazzuolo.

                                            Foto da web
Ecco, forse senza la passione e l’amore, Mantova non avrebbe beneficiato di questo tesoro artistico, perfettamente conservato, sede ogni tanto di grandi mostre, ancora lì a testimoniarci di un glorioso passato di cui senza gran merito godiamo i frutti.
Un’ultima doverosa notizia: in Palazzo Te sono presenti alcune interessanti collezioni permanenti. Mi riferisco: alla raccolta egizia composta da oltre 500 pezzi reperiti dal collezionista mantovano Giuseppe Acerbi, dal 1826 al 1834 Console Generale d’Austria in Egitto; alla collezione mesopotamica Ugo Sissa, reperti archeologici raccolti fra il 1953 e il 1958 a Baghdad; alla collezione gonzaghesca, che ricomprende una sezione numismatica e una dedicata ai sistemi di misurazione e di capacità, monete e misure in uso appunto nei territori dei Gonzaga; alla Donazione Mondadori, quadri di notevole valore di Federico Zandomeneghi e Armando Spadini, frutto della liberalità della famiglia Mondadori.


Quando visitare

Tutti i giorni, con i seguenti orari dall’11 novembre 2013:
Lunedì: 13.00 – 18.000;
Martedì-Domenica: 9.00 – 18.00

I prezzi del biglietto in vigore dall’11 novembre 2013:
Intero € 8,00
Ridotto € 5,00  (visitatori oltre i 65 anni, soci del TCI, gruppi di almeno 20 persone, possessori CARTARTE)
Ridotto speciale € 2,50 (visitatori fra i 12 e i 18 anni; studenti universitari)
Gratis per i bambini fino a 11 anni.


Come arrivare

In treno Mantova è lungo la linea ferroviaria secondaria Modena – Verona (poche corse, ritardi e cancellazioni piuttosto frequenti); dalla stazione Ferroviaria di Mantova a Palazzo è una comoda passeggiata di un paio di KM.;

In auto servirsi della A22 (autostrada del Brennero) – uscite di Mantova Nord e Mantova Sud, distanti dal palazzo, rispettivamente 9 Km. e 10 Km.; ci sono ottimi parcheggi nelle vicinanze.


Dove dormire e dove mangiare