Nome di battaglia:
Diavolo
L’omicidio
don Pessina e la persecuzione giudiziaria contro il partigiano Germano Nicolini
di Frediano
Sessi
Marsilio
Editori
Storia
Pagg. 256
ISBN 9788831774659
Prezzo € 14,46
Una vicenda allucinante
Nei quattro anni che
seguirono la fine della seconda guerra mondiale, in un paese come il nostro che
era stato dilaniato da una lotta fratricida e che vedeva contrapporsi ora i
filoamericani ai filosovietici, non pochi furono gli atti di violenza, frutto
spesso da un insano desiderio di vendetta. In particolare, nell’Emilia vi fu
una zona, ricompresa fra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara che venne chiamata Triangolo della morte o anche Triangolo
rosso, in cui partigiani e militanti di formazioni comuniste uccisero
all’incirca 4.500 persone.
Il tale contesto il 18 giugno 1946 viene assassinato
con un colpo di pistola Don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo, in
provincia di Reggio Emilia.
A prima vista può sembrare
uno dei tanti atti di violenza che funestano la zona ed è così, ma ciò che lo
differenzia da altri tragici analoghi episodi è la reazione nelle gerarchie
ecclesiastiche, perché la Chiesa e il Vaticano colgono l’occasione per cercare
in qualsiasi modo un colpevole, ma non il colpevole o un colpevole qualunque,
bensì uno che serva a sostenere la campagna anticomunista così cara a Pio XII.
Allo scopo un grande inquisitore viene trovato in monsignor Beniamino Socche,
vescovo di Reggio Emilia, che, con l’aiuto non certo disinteressato
dell’investigatore capitano Vesce (in seguito diventerà generale dei
carabinieri, ottenendo anche un’altissima onorificenza vaticana) e in presenza
di un sistema giudiziario che ancora risente della dipendenza politica propria del
fascismo, ha per le mani il capro espiatorio ideale. E non è un personaggio
sconosciuto, ma un valoroso comandante partigiano (nome di battaglia
Diavolo), sindaco comunista di
Correggio, stimato anche dagli avversari per la sua rettitudine e lealtà. Viene imbastita così una tela di ragno per
accusare del delitto Germano Nicolini, perché così si chiama quest’uomo di
grandi qualità, un comunista non ortodosso, cioè non privo di idee liberali, un
buon cristiano, ma non deferente verso una chiesa che troppo ha spartito con il
fascismo, un abile stratega militare, ma anche un pacificatore, visto che in
quei difficili anni, in cui la maggior parte della gente faceva la fame,
istituisce una mensa che possa garantire un pasto al giorno a tanti ex
partigiani disoccupati e poveri, e non solo a loro, ma anche agli ex nemici,
pesci piccoli che mai si erano macchiati di nefandezze.
Così fra false
testimonianze, verbali di interrogatori contraffatti, testimonianze vere (come
quelle di due dei tre colpevoli), ma che vengono dichiarate false nonostante
l’evidenza dei fatti, il povero Nicolini viene incarcerato, insieme ad altri
due disgraziati. La condanna, in tutti i gradi, era scontata, perché nessun
elemento probatorio a discarico, benché inoppugnabile, venne accolto, mentre
invece le prove di colpevolezza, evidentemente artefatte, furono sempre sostenute e considerate vere. I
tre vennero condannati a 22 anni di reclusione, di cui ne furono scontati per
fortuna solamente dieci. Oltre al teorema accusatorio del tutto infondato, vi è
da rilevare lo strano silenzio del Partito Comunista, che preferì lasciar
condannare degli innocenti invece di fare i nomi dei veri colpevoli che ben
conosceva. Del resto Nicolini, per
quanto famoso, era troppo democratico per essere considerato un autentico
comunista staliniano e troppo rivolto a sinistra per classificarlo come un uomo
di centro, tutte circostanze che giocarono a suo sfavore. Non fecero però i
conti con un essere umano che, più di
ogni altra cosa al mondo, desiderava dimostrare la sua innocenza. Con
l’evoluzione politica che portò prima alla fine dello stalinismo, poi a quella
dell’Unione Sovietica, e con il consolidarsi della democrazia nel nostro paese
che condusse a un’autentica autonomia dell’apparato giudiziario si vennero così
a creare i presupposti per pervenire a una seria ricerca della verità. . Si
dovrà attendere tuttavia il 1994, allorché alla luce di nuove prove e anche
della confessione di uno dei tre veri colpevoli il caso venne riaperto, ci fu
un nuovo processo e la piena assoluzione per non aver commesso il fatto.
Frediano Sessi ha saputo
porre mano alla vicenda assai intricata, riuscendo a delineare un quadro della
situazione e di tutto ciò che accadde con encomiabile completezza, dando luogo
a un libro che è sì un saggio storico, ma che si svolge incalzante come un
romanzo, punteggiato dalle puntuali e condivisibili osservazioni dell’autore
che ha il pregio nelle prime pagine, più introduzione che capitolo, di saper
ben delineare la situazione dell’Italia nel primo dopo guerra, documento
indispensabile per comprendere il perché di tante violenze.
Scorrevole, per nulla greve,
Nome
di battaglia: Diavolo è uno di quei libri che si leggono con piacere,
anche se poi rimane dentro una sorta di rabbia per tanta ingiustizia che
nemmeno la piena assoluzione dell’ultimo processo riesce a mitigare.
Frediano Sessi
vive e lavora a Mantova. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Il
ragazzo Celeste (1991),Ritorno a Berlino (1993), L’ultimo
giorno (1995), Alba di
nebbia (1998), Nome di
battaglia: Diavolo (2000),
Prigionieri della memoria (2006, due edizioni), Foibe
Rosse (2007, due
edizioni), Il segreto di Barbiana(2009) e con
Carlo Saletti Visitare Auschwitz (2011, due edizioni) tutti editi da
Marsilio. Sempre per Marsilio ha curato il saggio di Michel Mazor La città
scomparsa(1992). È autore inoltre dei romanzi per ragazzi Ultima fermata: Auschwitz (1996), Sotto il
cielo d’Europa (1998)
e Il mio nome è Anne Frank (2010), editi da Einaudi, per cui ha
curato anche l’edizione italiana definitiva del Diario
di Anne Frank (1993)
e il Dizionario della Resistenza (2000). Nel 1999 è stato pubblicato il
suo saggio La vita quotidiana ad Auschwitz (Rizzoli, tredici edizioni).
Recensione di Renzo Montagnoli
E' una vicenda veramente allucinante e temo che non sia l'unica.
RispondiEliminaAgnese Addari