Canne
al vento – Grazia
Deledda – Garzanti Libri – Pagg. XXVIII – 215 –
ISBN 9788811365518 - Euro 9,00
“Siamo
canne, e la sorte è il vento”
Non
so se “Canne al vento” possa essere considerato il capolavoro
assoluto di Grazia Deledda - come la particolare fama di quest’opera
induce facilmente a pensare - dal momento che, tra romanzi e novelle,
finora ho letto purtroppo soltanto una minima parte della a dir poco
vasta produzione letteraria della scrittrice nuorese. Obiettivamente,
il romanzo non manca di nulla che gli neghi l’etichetta appunto di
capolavoro né, mi sento di dire, sfigura tra le opere dei nostri più
grandi autori di fine Ottocento e primo Novecento.
Se “La madre” mi aveva indignata per il finale con il quale si conclude, se “Cosima” mi aveva incantata per lo “strano senso di sogno” che a tratti lo pervade, “Canne al vento” mi lascia ora un senso di inquietudine e smarrimento difficile da spiegare. Eppure anche qui ci sarebbe da indignarsi (per il giovane e scapestrato Giacinto che, a causa del suo comportamento, si sarebbe meritato di essere rispedito dall’isola al continente a suon di calci nel sedere; per donna Noemi che, al fine di fuggire dai sentimenti e dalla rovina economica, si rassegna infine a sposare chi non avrebbe mai voluto), anche qui ci sarebbe da incantarsi (davanti alle immagini di terra e cielo che si fondono in poetiche cornici dell’anima)… Ma l’incanto e l’indignazione del lettore sono sopraffatti da un intenso pathos che non viene meno neppure nelle ultime pagine, dal peso del destino che appare ineluttabile e contro cui è impossibile lottare, dal fruscio del vento che serpeggia indifferente nel canneto.
Siamo canne, sentenzia la penna deleddiana per bocca del vecchio servo Efix, e la nostra sorte è il vento: è l’essenza del romanzo, il messaggio cardine attorno a cui si svolge la vicenda narrata. Mi ha riportato alla mente l’immagine del giunco di Blaise Pascal: “L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura”, quindi soggetto a tutte le intemperie dell’esistenza, caduco per sua propria condizione. Solo che, aggiunge il filosofo francese, “è un giunco pensante” e ciò implica un margine di meriti (e demeriti) personali sulla strada sia pur segnata del nostro destino. Del resto, lo stesso Efix, quando decide di recarsi al mulino per parlare con Giacinto, non pensa e agisce di conseguenza per cercare di risolvere una situazione in apparenza già decretata dalla sorte? E, sempre lui, non sceglie forse di ritornare al paese dalle sue nobildonne decadute, sebbene il suo destino gravato dal fardello di un’antica colpa non l’abbia guidato nel frattempo sulla via della penitenza tramutandolo in un mendicante errabondo?
“Canne al vento” non si limita però a questo: pubblicato nel 1913, esso è anche un romanzo che, tra fatalismo e rassegnazione, tabù e colpe da espiare usque ad mortem, fotografa la realtà sociale dell’epoca attraverso i colori inquieti dell’incontro-scontro tra vecchio che ristagna e imputridisce e nuovo che erompe e avanza con energica vitalità, magari facendosi largo a gomitate. È la novella società dei poveri arricchiti, mercanti e usurai come il Milese e Kallina, mentre ciò che resta dell’antica nobiltà di sangue si gioca a carte la propria dignità o si arrocca sdegnoso in palazzi che cadono a pezzi di giorno in giorno, proprio come le dame Pintor ridotte ormai a praticare ignominioso commercio di verdure pressoché di nascosto; persino il matrimonio di un servo figlio di servi con un rampollo sia pur squattrinato della ex aristocrazia terriera è una palese rottura delle antiche e silenti consuetudini che imponevano a ciascuno di stare se non con i propri pari.
Una lettura che fa male e molto riflettere. E questo perché il senso della vita, che sia dentro o fuori delle pagine di un romanzo, continua a essere il più grande mistero che non ci è dato comprendere.
Se “La madre” mi aveva indignata per il finale con il quale si conclude, se “Cosima” mi aveva incantata per lo “strano senso di sogno” che a tratti lo pervade, “Canne al vento” mi lascia ora un senso di inquietudine e smarrimento difficile da spiegare. Eppure anche qui ci sarebbe da indignarsi (per il giovane e scapestrato Giacinto che, a causa del suo comportamento, si sarebbe meritato di essere rispedito dall’isola al continente a suon di calci nel sedere; per donna Noemi che, al fine di fuggire dai sentimenti e dalla rovina economica, si rassegna infine a sposare chi non avrebbe mai voluto), anche qui ci sarebbe da incantarsi (davanti alle immagini di terra e cielo che si fondono in poetiche cornici dell’anima)… Ma l’incanto e l’indignazione del lettore sono sopraffatti da un intenso pathos che non viene meno neppure nelle ultime pagine, dal peso del destino che appare ineluttabile e contro cui è impossibile lottare, dal fruscio del vento che serpeggia indifferente nel canneto.
Siamo canne, sentenzia la penna deleddiana per bocca del vecchio servo Efix, e la nostra sorte è il vento: è l’essenza del romanzo, il messaggio cardine attorno a cui si svolge la vicenda narrata. Mi ha riportato alla mente l’immagine del giunco di Blaise Pascal: “L’uomo non è che un giunco, il più debole della natura”, quindi soggetto a tutte le intemperie dell’esistenza, caduco per sua propria condizione. Solo che, aggiunge il filosofo francese, “è un giunco pensante” e ciò implica un margine di meriti (e demeriti) personali sulla strada sia pur segnata del nostro destino. Del resto, lo stesso Efix, quando decide di recarsi al mulino per parlare con Giacinto, non pensa e agisce di conseguenza per cercare di risolvere una situazione in apparenza già decretata dalla sorte? E, sempre lui, non sceglie forse di ritornare al paese dalle sue nobildonne decadute, sebbene il suo destino gravato dal fardello di un’antica colpa non l’abbia guidato nel frattempo sulla via della penitenza tramutandolo in un mendicante errabondo?
“Canne al vento” non si limita però a questo: pubblicato nel 1913, esso è anche un romanzo che, tra fatalismo e rassegnazione, tabù e colpe da espiare usque ad mortem, fotografa la realtà sociale dell’epoca attraverso i colori inquieti dell’incontro-scontro tra vecchio che ristagna e imputridisce e nuovo che erompe e avanza con energica vitalità, magari facendosi largo a gomitate. È la novella società dei poveri arricchiti, mercanti e usurai come il Milese e Kallina, mentre ciò che resta dell’antica nobiltà di sangue si gioca a carte la propria dignità o si arrocca sdegnoso in palazzi che cadono a pezzi di giorno in giorno, proprio come le dame Pintor ridotte ormai a praticare ignominioso commercio di verdure pressoché di nascosto; persino il matrimonio di un servo figlio di servi con un rampollo sia pur squattrinato della ex aristocrazia terriera è una palese rottura delle antiche e silenti consuetudini che imponevano a ciascuno di stare se non con i propri pari.
Una lettura che fa male e molto riflettere. E questo perché il senso della vita, che sia dentro o fuori delle pagine di un romanzo, continua a essere il più grande mistero che non ci è dato comprendere.
Laura
Vargiu
Una bella e approfondita recensione ad un libro che, come ben dice l'autrice, fa riflettere. La Deledda è stata molto amata e qualche volta anche detestata, ma quanta bravura nel descrivere un mondo difficile, che però incominciava ad avviarsi verso un faticoso cambiamento.
RispondiEliminaComplimenti a Laura Vargiu, sempre brava.
Grazie a te, Renzo, perché spesso proponi i grandi autori sardi.
Piera