Il
ruggito della Terra
di
Rosella Rapa
Il
mio terremoto fu quello dell’ormai lontano 1976, in Friuli.
Io
sono Piemontese, ma mia mamma, e sua mamma e innumerevoli generazioni
di mamme erano nate a Majano (vicino a S. Daniele, provincia di
Udine) uno dei paesi che fu più colpito.
Non
ce ne accorgemmo subito. Quel giorno eravamo tutti già tristi,
abbattuti. Il nonno, quello paterno, era mancato da poco, ed eravamo
andati alla sua messa di Trigesima. Nessuno era in vena di
chiacchiere o divertimento; lo schermo grigio-verde della TV a due
canali rimase muto.
D’un
tratto sentimmo un leggero brusio dal pavimento e mio padre alzò gli
occhi verso il lampadario che faceva l’altalena.
- Il terremoto. – osservò con voce neutra.
Capita
spesso a Torino: le Montagne si agitano e i sussulti arrivano
smorzati in pianura.
Andammo
a letto, stanchi.
Cosa
accadde il giorno dopo non lo ricordo con precisione: mio padre prese
il quotidiano, ma se lo lesse subito o più tardi, negli intervalli
tra le lezioni, non lo so. Ricordo però benissimo che a un certo
punto partì una ridda di telefonate, che rimbalzavano di casa in
casa, di strada in strada, di paese in paese. Non tutti avevano il
telefono allora, né la TV; in più apparve chiaro che molte linee
telefoniche erano interrotte. La TV invece mostrava impietosa quel
che restava di un paese, vivo fino al giorno prima. Majano era un
susseguirsi di rovine: la Chiesa distrutta, il suo “Bel Campanile”
polverizzato, le bianche case contadine ripiegate su se stesse.
Finalmente
arrivò una notizia: Anna, una lontana parente, fece sapere che
stavano tutti bene. Ma chi erano questi tutti? Tutta la sua famiglia
o tutto il paese?
Continuarono
ore e ore di attese snervanti, con la TV che si era spostata per
mostrare Gemona, storico paese di montagna, completamente frantumato.
Verso
sera piombò in casa nostra mia nonna, giunta trafelata da Biella,
con un giornale in mano, bianca come un lenzuolo, gli occhi fuori
dalle orbite.
- Tutti! Sono morti tutti! –
- Chi? Cosa? Ma come? La TV… -
- Non hanno fatto vedere QUESTO ! – Esclamò la nonna Friulana.
Erano
due condomini gemelli, originariamente di 5 piani, completamente
accartocciati su se stessi.
- C’era il Pieri, con la Ida… e mio cugino Toj… -
In
tutta onestà, io non sapevo chi fossero queste persone, e i
condomini non li avevo mai visti. Lasciai mamma e nonna a fare
l’elenco dei parenti e a chiedersi se davvero non c’era nessuno
vivo e portai la mia mente confusa sulle foto impietose. Un castello
di carte abbattuto da un soffio, ecco cosa restava. Rammento
benissimo un balcone, con i parapetti in vetro, perfettamente intatto
sopra il cumulo di macerie. Pensai che per salvarsi da un terremoto,
la cosa più sicura doveva essere uscire sul balcone.
Altre
telefonate, giornali, TV, notizie a spiccioli e bocconi, finché
finalmente arrivò la conferma che i nostri parenti diretti, il
fratello della nonna, con tutta la famiglia, erano vivi e in buona
salute, ma in lutto. Nei condomini erano morti quattro cugini
anziani, e un ragazzino. Il padre era passato per invitare i genitori
a cena, e disse al figlioletto:
- Vai su, ti aspetto in macchina, chiama i nonni. –
In
quel momento scoppiò l’inferno.
I
Friulani non sono gente che si piange addosso.
Iniziarono
subito a scavare, raccogliere, ricostruire, riparare.
I
bambini però non possono lavorare, e non potevano andare a scuola,
perché la scuola non c’era più. I miei genitori pensarono quindi
di ospitare la cugina di mia mamma, Nine, con i due figlioli.
Restarono da noi un paio di mesi, poi la loro casa fu dichiarata
agibile, e decisero di tornare al paese, dove il papà continuava a
scavare.
I
giorni scorsero tranquilli: noi andammo persino a fare un viaggio,
completamente rilassati. A settembre poi la nonna portò noi tre
bambini al mare, vicino al Tagliamento, non lontano dal suo paese.
L’atmosfera
era festosa. Il fratellino piccolo andava sempre sulle giostre con il
padrone di casa, io cantavo le musiche che ci facevano compagnia a
volume moderato, e non spaccatimpani. Apettavamo mamma e papà che ci
avrebbero portati un po’ in giro.
Era
tutto molto quieto: si andava in riva al mare per godere dell’ultimo
sole; i negozi già chiudevano per trasferirsi in città, avrebbero
aperto solo alla fine della primavera successiva. Ogni giorno qualche
casa mostrava le tapparelle serrate, e dalla spiaggia semideserta si
toglievano pian piano le lunghe file di ombrelloni.
In
questo clima crepuscolare, tra una canzonetta e una valigia aperta,
mentre sognavo chissà che,
SENTII
IL RUGGITO DELLA TERRA.
Ci
precipitammo giù dalle scale esterne, dimentichi di ogni consiglio,
di ogni invito alla prudenza: sentivo le voci di mia nonna e della
padrona di casa urlare qualcosa come “Fuori, fuori tutti!”, e
fuori ci ritrovammo, nel giardino ormai senza giostre, ad osservare
la casa che tremava e il terreno che sussultava.
Non
c’era molto altro da fare: i miei genitori partirono da Torino in
fretta e furia per venirci a prendere, le case al mare chiusero d’un
colpo; i miei parenti furono trasferiti negli alberghi vicino alla
costa, insieme a tutto Majano e a tutti gli altri paesi colpiti dal
sisma. Ciò che la prima scossa aveva lasciato in piedi, la seconda
aveva definitivamente distrutto. Poi passarono le ruspe a spianare il
tutto, e così finì la vecchia Majano.
Circa
un anno dopo andammo a far visita ai miei parenti, che vivevano nelle
“baracche”.
Ricordo
Majano come una lunga fila di case bianche, più o meno malandate,
con una piazzetta rotonda (tutto ciò che restava di un pozzo molto
antico) e al fondo un negozio-albergo, la chiesa e il campanile.
No,
non restava più nulla. Persino mia mamma non trovava punti di
riferimento, e mia nonna diceva: “Questo non è il mio paese. Non è
il mio paese!”
Trovammo
le “baracche”: dei bungalow abbastanza graziosi e comodi, solo
molto vicini gli uni agli altri. Intanto stavano già sorgendo dei
piccoli condomini, e delle villette nei dintorni. All’orizzonte, su
una specie di bassa collina, c’era un parallelepipedo grigio
scandito da porte verdi e finestre rosse.
- Cos’è quello? – chiesi a mia nonna
- Sono le Case Fanfani. Case popolari, costruite dopo la guerra. -
Rimasi
allibita. Quelle cose orrende, costruite con larga abbondanza di
cemento armato, erano rimaste tranquille a guardare lo scompiglio
intorno a loro. Case popolari, dove non si pagava nemmeno l’affitto.
Pensavo
che non avremmo più rivisto Majano, invece dopo qualche mese eravamo
di nuovo lì. Un funerale. Lo zio Iba, il fratello di nonna, non
aveva resistito. Tutti i giorni tornava a vedere l’asfalto su cui
un tempo sorgeva la sua casa, la casa di sua mamma e di tutti i suoi
ricordi, belli e brutti. Anche molto brutti, ma era la “sua”
casa. Il cuore cominciò a sentire troppo peso, finché in pochi
giorni si fermò. Non fu un infarto, semplicemente smise di battere.
Io
non so se furono queste vicende, semi-sepolte nella memoria di una
ragazzina, a spingermi a studiare geofisica. So solo che quando presi
in mano la mappa sismica dell’Italia sentii un brivido lungo la
schiena: nessun luogo era sicuro. L’intera nostra penisola, eccetto
la Sardegna, è a forte rischio sismico, in alcuni luoghi fortissimo.
Perciò, ogni volta che la tragedia si ripete, io non piango, io non
prego, io non chiacchiero: io penso alle “Case Fanfani” e quante
vite e si sarebbero potute salvare se dal ’76 ad oggi si fossero
adottati i rigidi criteri antisismici che il nostro territorio
richiede per le nuove costruzioni. TV e giornali riportano solo i
dati di quanti muoiono sotto le macerie, ma non si sa chi entra in
ospedale e non ne esce più, oppure resta su una sedia a rotelle, o
perde la vista o perde la ragione, restando con la mente sconvolta. E
per quanto riguarda gli edifici storici, intere città… a Gemona,
sopra Majano, gli abitanti andarono a cercare le pietre antiche, una
per una, perché non venissero razziate da turisti col senso del
macabro.
Non
sono mai più ritornata a Majano. Quello è un capitolo chiuso della
mia infanzia.
Mia
mamma mi ha detto che hanno ricostruito il campanile. Sono andata a
vedere su Internet: un orrore a forma di scala, in ferro e cemento.
Hanno aspettato 40 anni, potevano aspettarne altri 40.
Non
capisco: l’Italia non si ama, e non si amerà mai.
Quanta tristezza nel leggere questo bel racconto, e quanto male fa! Sono stata a Gemona, tanti anni fa, e anche a San Daniele del Friuli, e nonostante il coraggio e la determinazione dei friulani, che hanno fatto veramente tanto, rimboccandosi le maniche, vedendo i danni e quanto ancora c'era da fare, ho provato tanta ammirazione per loro, ma anche altrettanta amarezza.
RispondiEliminaPiera
Bella testimonianza, Rosella, molto significativa...
RispondiEliminaGio