C h i u s o
p e r
F e r i e
Si riapre a settembre
Quando le parole, opportunamente accostate, sono armonia.
Dove andare in vacanza?
di Renzo Montagnoli
Con la stagione estiva si apre anche il grande periodo delle ferie, sovente utilizzate per le villeggiature. Si va un po’ ovunque, soprattutto al mare, sia in Italia che all’estero, in pratica ovunque si possa celebrare questo rito della società consumistica, una tradizione ormai che nelle intenzioni dei protagonisti dovrebbe coniugare lo svago con il riposo. La domanda che un vacanziere si pone è dove andare ed è ovvio che le sue decisioni siano non poco influenzate dal periodo disponibile e dalla spesa che è disposto ad affrontare. Al riguardo non è sempre detto che l’Italia risulti la meta più conveniente, ma è anche vero che ci sono destinazioni che nulla hanno da invidiare al altre più note, senza dimenticare che è pressoché impossibile trovare un paese come il nostro in cui, accanto a paesaggi stupendi, ci sono bellezze artistiche a profusione. Per questo motivo di seguito potrete trovare otto località in cui recarsi, di cui due in montagna, due sui laghi, due al mare e due prevalentemente artistiche. Molti luoghi sono stati esclusi, benché meritevoli, ma solo per questioni di spazio.
E adesso procediamo:
Sui laghi
In Italia non mancano certo e sono tutti molto belli, peraltro frequentatissimi dai turisti. Fra i tanti deve necessariamente essere presente quello che per me, e non solo per me, è il massimo e mi riferisco al lago di Garda, con le sue belle litoranee, quella occidentale e quella orientale, che consentono di raggiungere cittadine stupende, come Gargnano, Limone, Riva, Malcesine, Garda, Peschiera, Sirmione e Desenzano. Certo, nel periodo estivo queste strade sono molto trafficate e l’idea, per certi aspetti eccellente, di fare il periplo stradale del lago, percorso che in altre stagioni si effettua con comodo in un giorno, può vacillare se si pensa alle lunghe code in cui è facile incappare, e allora d’estate è meglio usare l’auto per raggiungere una località costiera e lì soggiornarvi. L’acqua del lago è pulita, le spiagge sono poche, raccolte, ma sovente di grande bellezza, inoltre sono possibili passeggiate che consentono scorci a dir poco incantevoli. Benché le strutture ricettive siano numerose, il grande afflusso di turisti, soprattutto tedeschi e olandesi, rende pressoché indispensabile prenotare con un largo anticipo. I prezzi non sono per niente popolari, ma sono il risultato di una richiesta intensa e che va senza soste da giugno a settembre.
Un altro lago che ha un suo particolare fascino non è vicino a quello di Garda, anzi è piuttosto lontano, perché occorre scendere lungo la penisola e raggiungere il Lazio, dove in quello che un tempo era il cratere di un vulcano si trova il lago di Bolsena (al riguardo, la formazione del Garda è ben diversa, essendo stata la sua origine un gigantesco ghiacciaio). Nella sua tipologia è il più grande in Europa, con una forma quasi rotonda, due isole, e un fiume emissario e un bacino idrografico di ben 273 Kmq. A ulteriore testimonianza delle sue origini vulcaniche ha spiagge con sabbia di colore nero riveniente dalla disgregazione delle rocce vulcaniche. Le coste sono in genere basse, interrotte da piccole penisole e con pochi promontori (il Monte Bisenzio, la Punta San Bernardino, la penisola di Capodimonte e la Punta di Sant’Antonio). Proprio per questo motivo gli insediamenti urbani sono stati facilitati e sorgono numerose strutture turistiche e balneari. Senz’altro meno frequentato del Garda ha strutture ricettive in linea con l’afflusso turistico, alberghi di buon livello che spesso si affacciano sullo specchio d’acqua e hanno piccole spiagge. Fra l’altro, fra un bagno e l’altro, è possibile visitare i numerosi centri rivieraschi non trascurando una puntata anche ad alcune città limitrofe, come le splendide Civita di Bagnoregio e Orvieto.
Sui monti
Le possibilità di scelta sono talmente tante da costituire un vero imbarazzo. Comunque i miei suggerimenti vogliono tenere conto anche delle altezze, perché soprattutto i bambini piccoli e gli anziani, per motivi opposti, non si trovano bene a quote elevate, diciamo oltre i 1500 metri. E allora perché non fare una piacevole vacanza sugli altipiani di Folgaria, Lavarone e Luserna? Il paesaggio è ameno, l’aria è leggera, le escursioni sono per lo più facili e poco affaticanti, la gente del posto e simpatica, la cucina è appetitosa, e poi ci sono i ricordi della Grande Guerra, con numerose fortezze austriache, di cui una sola ben conservata e perciò visitabile, il forte Belvedere. Alberghi e appartamenti in affitto sono in numero adeguato, c’è perfino un laghetto balneabile, quello di Lavarone, il tutto per una vacanza informale, in cui il tempo libero è scandito dalle tranquille passeggiate, non di rado all’ombra di boschi secolari.
Un po’ più a Nord, oltre la città di Bolzano, prima di arrivare alla strada che si inoltra nella Val Gardena, c’è un bivio da cui parte una rotabile che risale la montagna e passando per Fiè e Sciliar, raggiunge Castelrotto. Questo paesino, che ho conosciuto quando era agli albori del turismo, è diventato un centro importante, anche perché ai piedi dell’altopiano dello Sciliar, raggiungibile in auto solo per chi soggiorna negli alberghi in quota, e invece in autobus o con la cabinovia che parte da Siusi per gli altri. Siamo in Alto Adige e la popolazione è bilingue, cioè parla il tedesco e l’italiano; pure la cucina è un po’ diversa, ma assicuro che è una diversità positiva, perché è veramente eccellente. Al di là delle bellezze naturali che si ricollegano all’altopiano dello Sciliar, con escursioni stupende, anche se a quote di un certo livello (più o meno da circa 1600 metri a oltre 2000 sul livello del mare), Castelrotto è un borgo veramente grazioso, con la sua chiesa al centro e che ha sul retro il cimitero, e alcune case d’epoca, piacevolmente affrescate sulla parete anteriore. L’ospitalità è il fiore all’occhiello di questo paese, con hotel di classe, spesso dotati di piscina e di spa, e numerosi appartamenti a disposizione degli ospiti; ne va che i prezzi sono in relazione alla qualità offerta, qualità riscontrabile anche in una cucina che ha saputo coniugare e conciliare i migliori piatti della cucina asburgica con i più riusciti piatti di quella italiana. Il posto è frequentatissimo e quindi la prenotazione, anche con largo anticipo, è d’obbligo.
Sui mari
Volutamente tralascio le spiagge dell’alto e medio Adriatico, in estate dei veri e propri carnai, con un mare che se è anche pulito, almeno dalle analisi, è però nient’altro che una grande piscina. Per altro si fanno apprezzare per la cucina e per i divertimenti.
Se si vuole qualcosa di diverso, bisogna andare da altre parti, per esempio sul Gargano, che secondo me rappresenta l’antipasto del piatto forte del Salento. Quest’ultimo è stupendo, con spiagge caratterizzate da scogli, da calette sabbiose, da rocce che precipitano sull’acqua e da grotte in cui il mare ha dei colori incredibili. Anche il Gargano è così, ma più in piccolo, oltre a presentare un polmone verde del tutto unico, la Foresta Umbra. Da Rodi Garganico a Vieste la litoranea si snoda lungo un percorso tortuoso che presenta da un lato la fitta vegetazione appunto della Foresta Umbra e dall’altro dei panorami stupendi che si possono ammirare su bastioni rocciosi a precipizio sul mare, mare a cui si può giungere per mezzo di sentieri che portano a piccole baie di sogno.
E’ una villeggiatura che impone la necessità di muoversi, per trovare altri scorci, per ammirare archi di roccia che spuntano dal mare, per inoltrarsi nelle stradine di Peschici, delizioso centro di villeggiatura in cui si respira ancora l’aria di un mondo passato. L’ospitalità è costituita per lo più da un paio di villaggi turistici e da alberghi di buona levatura, non molti in verità, per non dire pochini, perché località come questa meritano un maggior flusso turistico, anche se la distanza dal nord frena i vacanzieri, a meno che non abbiano a disposizione giorni di ferie maggiori di una settimana e possibilità finanziarie in linea.
Se poi si desidera andare ai Caraibi, ma senza uscire dal nostro Stato c’è un’isola meravigliosa, la Sardegna. Ci si può arrivare solo in nave, con i traghetti, o in aereo, ma assicuro che vale la pena, perché là ci sono posti da favola. In particolare ci sono spiagge che nemmeno i Caraibi si sognano, con sabbie dei più svariati colori, in calette, baie più o meno grandi, rocce levigate dall’onda e grotte, tante e magnifiche. Mi viene in mente una costa che si chiama Smeralda ed effettivamente lo è, e poi penso a un’isola, molto più piccola, come La Maddalena e a quella minuscola di Caprera, che ha ospitato a lungo Garibaldi. Non è solo però la costa settentrionale a rappresentare l’eccellenza, è tutto lo sviluppo costiero, estremamente vario, in cui ancora la natura riesce a predominare. Prima ho accennato ai colori della sabbia delle spiagge ed ecco che all’isoletta di Budelli, a Cala di Roto, la tonalità è addirittura rosa. L’ideale sarebbe poter girare tutta l’isola, anche l’interno, così selvaggio, ma anche chi va per stare un po’ in spiaggia può sempre trovare il tempo e l’occasione per allontanarsi anche di poco e vedere altre meraviglie.
Credo che chi è stato in Sardegna vi abbia lasciato il cuore, anche se le troppe bellezze rischiano di disorientare, ma in ogni caso lasciano un senso di appagamento completo. L’ospitalità è ben presente e ai massimi livelli e, per quanto ovvio, i prezzi sono in linea con questa offerta. Anche qui per soggiorni nei mesi estivi è necessario prenotare, non solo per trovare un alloggio, ma anche perché c’è la strettoia rappresentata dalla necessità di arrivarvi o in traghetto, o in aereo.
Città d’arte
In Italia non può esserci che l’imbarazzo della scelta e io sono un po’ di parte perché propongo innanzi tutto Mantova, adagiata sui suoi laghi, sui quali funziona un servizio di navigazione, raccolta tanto che è possibile visitarla in uno, massimo due giorni, ma piacevolmente addormentata, stordita dal profumo dei suoi fior di loto. Consiglio sempre di arrivare da est, perché ,il colpo d’occhio sul castello di San Giorgio è uno di quelli che non si dimenticano. La panoramica è bella, emoziona, e poi quando si entra in piazza Sordello si resta a bocca aperta, circondati dal Duomo, dal palazzo Bonacolsi, dalla Corte Vecchia e dalla Corte Nuova. E’ lì che attende la gente di entrare a Palazzo Ducale, di poter vedere con i propri occhi nel castello di San Giorgio la celebre Camera degli Sposi, opera immortale di Andrea Mantegna. E poi sale, salette, corridoi, porticati, in quella che è la reggia più grande in Italia, un giro di stupore che non può chiudere una giornata se poi non si va a Palazzo Te, gioiello di Giulio Romano, con l’apocalittica sala della Caduta dei giganti. Il giorno dopo c’è tutto il tempo per ammirare la basilica di Sant’Andrea, il Palazzo d’Arco e il museo Diocesano. Mantova è bella anche di sera, nei vicoli dietro il duomo, dove i giochi d’ombra fanno sognare un mondo che è stato, fra furtive Madonne e menestrelli innamorati.
L’ospitalità è adeguata, e oltretutto la cucina mantovana è una delle migliori. Insomma, per farla breve, a Mantova si ristorano il corpo e la mente.
Intendo restare nelle piccole realtà e la mia scelta è caduta su Lecce, anche perché è di fatto la capitale del Salento ed è così possibile unire un percorso culturale a un soggiorno marino, peraltro molto piacevole. E’ una città lontana dal nord, ma appunto se si vuole bagnarsi nelle acque salentine c’è la possibilità di dedicare un po’ di tempo, non più di un giorno, alla città di Lecce dove predomina il barocco, un barocco del tutto particolare, tanto da chiamarsi leccese e che prese piede nel seicento, grazie alla fantasia degli artigiani locali, ma anche all’utilizzo di una pietra che si trova in loco e che è un calcare tenero, ma ben compatto, dai colori caldi e che è facile da lavorare con lo scalpellino. E’ edificata così per esempio la Basilica di Santa Croce, che è la chiesa più famosa in una città che di chiese ne ha tante, ognuna con le sue caratteristiche di interesse; non mancano poi gli edifici civili e militari, di cui il più noto è il castello. La ricordo come una città con un centro antico e un’ampia zona nuova che definire periferica è inesatto, vista la sua estensione. Di rilievo in centro è l’Anfiteatro Romano, di cui restano solo l’arena, le gradinate inferiori e parte delle mura. Anche a Lecce l’ospitalità è adeguata e la cucina è senz’altro ottima (del resto, ci si chiede dove in Italia si possa mangiar male).
Ecco otto idee, delle migliaia che ci sono, non troppo approfondite, ma che tratteggiano le caratteristiche principali. Non mi resta che dire: a Voi la scelta.
N.B.: Le foto sono state reperite in diversi Siti Internet.
La penna, la spada e l'aratro
di Renzo Montagnoli
Era da un po' di tempo che cercavo un po' di tranquillità per scrivere di un grande autore, doppiamente sfortunato, in quanto deceduto e anche per il fatto che i suoi libri, quasi tutti di notevole livello, non hanno trovato il successo di pubblico che ampiamente avrebbero meritato.
In particolare avrei voluto stilare una sua biografia, accompagnata da un'analisi critica dei suoi romanzi, onde porlo nella giusta luce per quel posto che, benché snobbato dai critici, si è sicuramente ritagliato nella storia della nostra letteratura.
Il tempo, purtroppo, è tiranno e dopo non pochi ripensamenti sono giunto alla conclusione che in fondo la biografia di un uomo, di un artista è sì importante, ma ciò che più conta sono le sue opere e pertanto è del narratore che intendo scrivere e non anche dell'uomo.
A lui ero legato da una viva amicizia e fra noi vigeva una reciproca stima; solo la distanza fra la mia e la sua residenza ci ha impedito di conoscerci materialmente, ma gli scambi di posta elettronica, le non infrequenti conversazioni telefoniche e, soprattutto, la lettura dei suoi libri ha consentito che mi facessi più di un'idea, permettendomi addirittura di comprenderne l'intima natura, forse in misura maggiore di una frequentazione abituale. Di Valentino Rocchi, perché è di questo autore romagnolo di nascita e pesarese d'adozione che sto parlando, non posso che avere un caro e indelebile ricordo e scrivere di lui come romanziere mi sembra la giusta mercede per quanto di positivo mi hanno dato i suoi libri.
Fino al febbraio del 2008 mi era del tutto sconosciuto e fu proprio in quel mese che ricevetti da Pina Vicario delle Edizioni Agemina un libro che lei mi aveva definito piuttosto interessante. Si trattava di La Magia del Fuoco, titolo di per sé tale da destare una naturale curiosità, ma io, per principio, guardo poco a queste cose, preferisco leggere, analizzare lo stile, verificare la trama, ponderare gli elementi valutativi salienti. Devo ammettere che quelle 175 pagine, divorate in pochi giorni, mi sorpresero non poco, presentando caratteristiche di qualità, sia sotto l'aspetto strutturale, sia sotto quello stilistico. La trama, poi, di questo romanzo di sentimenti, di vita vissuta, di riflessioni si presentava appetibile, era un piacere andare avanti nella lettura, che fra l'altro risultava avvincente. Sarà stata la sobrietà dello stile, l'equilibrio nella narrazione senza mai una parola di troppo, una delicatezza quasi soave nella sempre difficile descrizione di un'iniziazione sessuale, ma resta il fatto che mi entusiasmai al punto che mi venne naturale chiedere all'autore se si trattava dell'opera prima, oppure se ne aveva già scritte altre.
Emerse così che esistevano altri romanzi nel cassetto e altri ancora, pochi, erano stati pubblicati con alcuni piccoli editori e Valentino fu tanto gentile da farmi avere una copia di ciascuno.
Passarono così per le mie mani pagine e pagine di opere che non fecero altro che rafforzare la mia convinzione sul fatto che ci si potesse trovare davanti a un autore rivelazione. Soprattutto questi lavori erano caratterizzati da una costanza di rendimento invidiabile, da uno stile di cui si notava il progressivo affinamento, ma ciò che più m'impressionò fu l'ambientazione, rurale, con descrizioni di personaggi e di luoghi mai greve, ma concisa ed esauriente.
Questo mondo agreste, che si ritrova in L'eredità di Venanzio, Gli uomini di Bluma e La saggezza di Toni, ricostruito in un'epoca in cui ancora la civiltà contadina non era morta, fatto di sentimenti e di superstizioni, di odi lancinanti e di amicizie salde, non era solo il palcoscenico su cui venivano rappresentate le varie trame, ma assumeva una valenza propria, frutto probabilmente di una nostalgia per gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, che avevano visto la giovinezza di Rocchi, non certo agricoltore, ma di estrazione contadina. Anche questi tre romanzi erano belli, coinvolgenti, piacevolissimi da leggere e toccavano le corde dell'animo; ne fui e ne sono tuttora entusiasta, ma il meglio doveva ancora venire e venne con Notte all'Hostaria La Guercia.
Il libro mi fu recapitato dallo stesso autore che ci tenne a dirmi che era un'opera a cui teneva molto e ne aveva ben ragione. Infatti, nonostante il titolo non proprio invitante, in queste 305 pagine, nel parlarci di un personaggio realmente esistito, tale Pandolfo Collenuccio, diplomatico del XV secolo, pesarese di nascita, ci offre un affresco stupendo del nostro rinascimento, in un periodo particolarmente travagliato, di grandi lotte di potere, con le mire espansionistiche del pontefice Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, sulle Signorie dell'Italia Centrale e poi anche più su, fino alla Romagna.
Dicevo del titolo non invitante, ma che ha un preciso significato, poiché Rocchi, invece di narrarci la vita di questo personaggio dalle origini fino alla sua morte, preferisce mostrarcelo in questa notte trascorsa vegliando in una vecchia osteria in prossimità di Pesaro, a cui, non senza fondati timori, si accinge a ritornare. In queste ore insonni Pandolfo, in preda a comprensibili paure e incertezze, rievoca il suo trascorso con le considerazioni del presente. È un'idea felicissima, questa, perché in questo modo si mette alla luce una vena malinconica, che ravviva l'opera, avvicinando il protagonista al lettore. Questo grande uomo, che ha servito gli Sforza, i Medici e i Gonzaga, e che dunque nella sua carriera è arrivato a vertici elevati, ora è diventato pauroso, incerto, perché teme che quell'invito a rientrare sia una trappola (e infatti lo sarà). Nondimeno è consapevole che la vita è una parabola e che lui è ormai è nella fase discendente, in cui le glorie trascorse si appannano, in cui sorgono rimpianti; la sua coerenza forse vacilla, ma deve andare, costi quel che costi, perché così è scritto nel libro del destino, perché in fondo ogni giorno è buono per morire, purché non si tradisca se stessi.
Scritto in modo elegante, con non sporadiche felici intuizioni, Notte all'Hostaria La Guercia mi colpì profondamente ed ebbi netta la sensazione di essere in presenza di un capolavoro. L'edizione era vecchia e meritava quindi di essere ripubblicata, e a ciò provvide la casa editrice Agemina che, nell'occasione, fece un saggio e ponderato editing, che impreziosì l'opera ulteriormente. Fu così che nell'autunno del 2008 uscì 1504 – Notte all'Hostaria La Guercia, che ritenni di prefare, tanto ero e sono convinto della validità di questo romanzo.
A distanza di tempo, pur sopite le emozioni provate nella lettura, sottoscrivo in toto il contenuto della mia prefazione e quindi il mio giudizio resta inalterato su quelle che sono le qualità, notevoli, dell'opera, un vero e proprio capolavoro.
Tuttavia, la nuova edizione non ebbe il successo che avrebbe meritato per diverse ragioni, soprattutto per queste: le modeste possibilità pubblicitarie di una piccola casa editrice, un mercato artefatto in cui si tendono a imporre per lo più autori prefabbricati, che scrivono solo il nulla per un popolo di lettori ormai asservito, il silenzio, non certo casuale, di critici che sovente danno l'impressione di avere accordi segreti con questo o quell'editore.
C'è tutta una casistica al riguardo e che vede sconosciuti e incapaci scrittori ottenere riconoscimenti di pubblico e di critica per opere che francamente sono quasi spazzatura e magari quelle che veramente valgono passano inosservate, così come nel mercato finanziario la moneta cattiva prevale su quella buona.
Tuttavia, Valentino non ne soffrì in modo particolare, perché era contento del giudizio anche di pochi, ma che per lui erano considerati molto, e del resto non era nel suo carattere abbattersi, ma proseguire, far conoscere ad altri i suoi romanzi nel cassetto. Fu aiutato, in questo, dalle Edizioni Agemina, da Pina Vicario che aveva per lui la stessa stima che avevo io.
Nel frattempo Valentino mi aveva fatto avere tre suoi libri, pubblicati da diverso tempo da altri editori: Una storia a Castelvecchio, che è la storia di un'emancipazione femminile fra le due guerre, Il pianoforte a coda, storia di un bancario che cerca la libertà dedicandosi al commercio ambulante e La padrona di Santa Maria, una vicenda di ribellione femminile allo stato di sudditanza imposto in un passato non troppo lontano dall'altro sesso, accompagnato dalla grettezza sovente presente nel mondo contadino. Sono tre romanzi piacevoli da leggere, di buona qualità, ma ovviamente incomparabili con 1504 – Notte all'Hostaria la Guercia.
Il 30 gennaio 2010 Valentino Rocchi, da tempo malato, veniva a mancare ed è di pochi giorni prima l'uscita, per i tipi di Agemina, di Giolina, uno fra i suoi romanzi nel cassetto di cui più mi aveva parlato.
E qui ritorna uno dei suoi temi cari, quello dell'inferiorità femminile, più accentuata nel mondo rurale. Da buon conoscitore di questa realtà, Valentino è stato in effetti un cantore della civiltà contadina, in cui miseria diffusa, grettezza, superstizioni, avarizia e ingordigia si mescolavano in un calderone che sembrava sempre pronto a scoppiare, ma che poi sbuffando si quietava. Era l'immutabilità di una condizione che un altro narratore, Ferdinando Camon, ha saputo descrivere così bene; anche Rocchi guarda a quella società, composta per lo più da miseri, con uno straordinario affetto, proprio di chi è giustamente convinto che il tempo delle stagioni, che regola la vita dei campi, sia l'unico per gli uomini, con quelle ore di lavoro che vanno dal sorgere del sole al suo tramonto, una metafora della vita che ogni giorno si rinnova. Giolina è effettivamente un bel romanzo, con una trama avvincente e convincente, e testimonia una volta di più che chi è legato alla terra scrive della stessa.
Sono usciti poi, postumi, e sempre pubblicati da Agemina, due lavori con temi completamente diversi: Menelicche e L'uomo del cardinale.
Il primo trae origine da una filastrocca e tratta delle insormontabili barriere sociali, con l'amore fra una giovane ricca, ma menomata, e un povero operaio di un cantiere navale. E' quasi una favola, non a lieto fine, scritta in punta di penna, con leggerezza e rispetto per gli sfortunati protagonisti, uno di quei romanzi in cui i sentimenti sono espressi con pudore, circostanza sempre più rara oggi, e in cui l'eterna lotta di classe trova nel popolino, ignorante e invidioso, il maggiore inconscio alleato del certo forte. All'inizio sembra una storia da poco, ma poi, mano a mano si procede nella lettura, non si possono non apprezzare descrizioni di paesaggi marini sfumate come in un acquerello, caratterizzazioni precise e convincenti, una malinconia diffusa che s'accompagna a una scorrevolezza frutto di uno stile meditato e studiato.
Con L'uomo del cardinale Rocchi ritorna al romanzo storico, anzi in questo caso di ambientazione storica, perché fra tanti personaggi che vi figurano e che sono realmente esistiti il protagonista principale è di pura fantasia. E come per 1504 – Notte all'Hostaria La Guercia emergono le migliori qualità dell'autore, tanto che il libro è veramente stupendo, sia per la trama che per l'ambientazione, oltre che per la morale dello stesso.
Mi risulta che nei cassetti ci siano altre opere inedite, ma dubito che possano vedere la luce del sole, ed è un peccato perché Valentino Rocchi ha scritto tanto e in proporzione ha pubblicato poco, ma quel poco non è paccottiglia, non sono inutili pagine da leggere per ingannare il tempo mentre si fa un viaggio in treno. In quelle righe, in quelle parole c'è tutto un mondo che si agita e che si affaccia alla ribalta: la terra, fonte di vita, ma anche di fatiche e di dolori, e chi la coltiva, figure di un mondo che mai più ritornerà, ma che Valentino ci ha fatto conoscere e anche amare; uomini d'arme e di penna, ombre ormai disperse nell'Ade e che grazie ai suoi romanzi sono rinate, a insegnarci che, se tutto passa e va, restano comunque valori imprescindibili, tali da sacrificare per essi anche la vita. Fra l'ostinata coerenza di Pandolfo Collenuccio e la ricerca del senso della vita di Antonio Bagno, l’uomo del cardinale, non c'è nessuna differenza, sono entrambi personaggi che vogliono conoscere se stessi, che scavano nel loro intimo affinché l'esistenza non sia un semplice e inconsapevole passaggio dall'alba al tramonto. Ma in mezzo a loro c'è anche qualche cosa d'altro, che li avvicina e ce li addita come esempi: una penna, la penna di Valentino Rocchi, mai dimentica di un aratro che traccia il solco nella feconda terra e che lascia un segno, indelebile, in chi ha letto i suoi libri.
25 aprile 1945 – 25 aprile 2006
di Renzo Montagnoli
Domani ricorre il 61° anniversario della liberazione, una festa, specie negli ultimi anni, fonte di contrasti e di diatribe ad opera di chi intende parificare, con identici diritti e dignità, i partigiani e i fascisti.
Con questa riflessione non intendo alimentare il fuoco che da sempre cova sotto le ceneri, ma voglio evidenziare l'importanza, spesso sconosciuta ai più, di questa festività.
Sì, indubbiamente si celebra la fine di una guerra tragica per il nostro paese, soprattutto dopo l'8 settembre del 1943; si può considerare altresì la liberazione dalla tirannia nazi-fascista e anche come con essa prese l'avvio il processo di democratizzazione del nostro paese.
Certo, il 25 aprile è tutto questo, ma per me assume un significato ancora più ampio, a suggello di quanto accaduto a seguito del raffazzonato armistizio voluto da un re per salvare se stesso, sordo, come per il passato, alla dignità dei suoi sudditi.
I Savoia, con le guerre di indipendenza, con la spedizione dei mille e con tutti altri episodi che videro gli allora cittadini dell'Italia più spettatori che protagonisti, riuscirono a unificare sotto di sé uno stato di notevole ampiezza, i cui abitanti erano simili più per un'identità di linguaggio che per dei comuni interessi.
Insomma, la famosa frase “Ora che abbiamo fatto l'Italia, dobbiamo fare gli italiani.” aveva un senso logico del tutto riscontrabile nella realtà.
L'identità nazionale non avvenne negli anni successivi, e nemmeno la prima guerra mondiale la facilitò; a maggior ragione anche il fascismo non riuscì a dare il suo contributo, poiché il senso d'orgoglio di essere italiani non era nelle coscienze, ma veniva imposto dall'alto.
Qualsiasi stato ha qualche evento che ricorda la sua unità nazionale, come gli Stati Uniti con la loro dichiarazione di indipendenza, come la Francia, con la presa della Bastiglia, tutti fatti in cui i partecipanti si ritrovarono ad avere comuni identità di vedute.
Per quanto possa sembrar strano, la guerra civile, scoppiata nel nostro paese dopo l'8 settembre del 1943, soprattutto con la costituzione della vassalla Repubblica di Salò, finisce con il costituire la nostra prova di nascita di un popolo.
Le quattro giornate di Napoli, altre rivolte meno note in Meridione, la guerra partigiana al Nord, con il loro carico di dolore e di lacrime, hanno finito idealmente con l'unire il povero bracciante del Salento con il contadino vignaiolo dell'Astigiano, emarginando chi voleva negare l'identità nazionale, in primis gli invasori tedeschi, e poi i loro alleati repubblichini, miranti solo a conservare privilegi del passato contro l'interesse di tutta la collettività.
E non è un caso che fra i partigiani troviamo persone di diverse ideologie politiche, mentre la stessa cosa non esiste nella Repubblica Sociale Italiana:
laddove c'era un'unione di cittadini, mossi dallo stesso anelito di libertà, nello staterello fascista si ritrovarono invece solo quelli intenti a difendere uno status quo precedente, e dunque per esclusivi interessi individuali.
Sono due concetti diversi di nazione che vengono a scontrarsi: l'uno volto ad affermare una comunanza di obiettivi e di affinità, l'altro teso a privilegiare il singolo sul collettivo.
Ecco perché per me il 25 aprile è anche, soprattutto, la festa dell'unione di un popolo.
Siamo a pochi giorni dalla conclusione delle elezioni che hanno identificato una nazione divisa in due; c'è chi ne sta approfittando, accentuando questa divisione, e in pratica minando le fondamenta della nostra nazione.
Da italiano dico a tutti gli italiani: non prestate orecchio, siamo uno stesso popolo e quella divisione che così tanto viene evidenziata è solo politica.
Abbiamo una stessa cultura, una stessa storia, patrimoni indelebili, costruiti spesso con il sangue; essi non verranno mai meno, non avranno quella temporaneità propria dell'illusione politica. Cerchiamo i punti di contatto, non quelli di divisione, pensiamo a un unico futuro, mostriamo al mondo che non siamo solo un popolo unito quando gioca la nazionale di calcio.
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso - Repubblica" 30 aprile
2012
«C'è
troppa indisciplina nelle nostre famiglie, propongo che quando
entrano i genitori, i figli si alzino in piedi»: parole del primo
ministro inglese, David Cameron. Dice che manca il senso del dovere
in Inghilterra. Manca anche in Italia. In tutta la società: c'è
troppa sregolatezza dappertutto, casa, scuola, lavoro, Parlamento.
In casa manca il rispetto per i genitori, a scuola manca il rispetto
della cultura, in azienda e in ufficio manca il senso del lavoro, in
politica manca il senso dello Stato. Non vogliamo essere al servizio
di niente, vogliamo che tutto sia al nostro servizio. I
figli non obbediscono ai genitori, gli studenti irridono i professori
su YouTube, in Parlamento ogni partito cura le proprie casse e i
propri voti. Che i figli si alzino quando entrano i
genitori forse è troppo, ma che si alzino gli studenti quando
entrano i professori è giusto. Una volta era un dovere in tutte le
scuole, adesso c'è un certo lassismo. Alzandosi in piedi quando
entra il professore, gli studenti mostrano rispetto verso ciò che il
professore porta: oggi spiegherà un canto di Dante o la teoria di
Copernico, tornando a casa tu, studente, passi in mezzo a migliaia di
persone che quelle cose non le sanno, il tuo insegnante ti regala
qualcosa di prezioso, che cambia la tua vita. Mostrare rispetto
significa mostrare gratitudine. Anni fa il Centro-Destra
proponeva che prima delle lezioni gli studenti assistessero in
cortile all'alzabandiera, dritti sull'attenti. Non se ne fece nulla.
E come si poteva farne qualcosa, se un partito di quell'alleanza
proponeva di tuffare la bandiera nel cesso? E che, i nostri ragazzi
si mettono sull'attenti davanti al cesso?
L'oltraggio alla
bandiera e al 25
aprile sono
segni di decadenza. Andrebbero puniti. Il parlamentare che dice: “La
bandiera italiana mi fa schifo”, andrebbe espulso dal
Parlamento.
C'è chi propone di abolire il valore legale della
laurea: i laureati si presentano ai concorsi tutti alla pari, a
prescindere dal punteggio con cui si sono laureati. E perché? Perché
ci sono università che regalano i voti, e università che
te li fan sudare. Ah, ma allora qui il problema non è nella laurea,
è nelle università. Fatele funzionare tutte, ma se io ho la laurea
con 110 e lode, pretendo che valga come tale. Il 110 e la lode sono
un merito, questa dev'essere la regola.
Chi ha un ruolo
pubblico, non può sgarrare neanche nelle piccole cose. Va al
ristorante? Se lo paga. Va in vacanza? Se la paga. Ce la paghiamo
noi, che guadagniamo un decimo di lui, perché non se la paga
lui, che guadagna il decuplo? Se uno ti offre qualcosa, acquista il
diritto di chiederti qualcosa, e tu governatore (in questo caso,
della Lombardia) diventi ricattabile.
Chi ha rubato non deve
soltanto smettere di rubare, deve anche restituire tutto quello
che ha rubato. C'era una vecchietta a Venezia, che si fingeva cieca e
tirava la pensione d'invalidità, lo Stato l'ha scoperta e adesso la
costringe a restituire tutti i soldi. Non li ha? Deve pagare,
o s'impicchi: le regole sono regole. Ma scusate, il figlio di
Bossi rubacchiava lo stipendio di consigliere regionale, 12 mila
euro al mese, non se lo meritava, lo ha riconosciuto e s'è
dimesso. Ma dove sono i soldi che ha intascato finora? Se
li tiene? Se lo Stato se li fa ridare, è uno Stato serio, se non se
li fa dare, è uno Stato-burletta.
Burletta
richiama burlesque: noi disperati per la crisi, con i più
disperati che si suicidano, e il nostro ex-capo di governo
rievoca le serate con fanciulle discinte, impegnate in gare
di burlesque? Qualcuna era anche vestita da suora: lui
chiede i voti ai cattolici, e poi profana ciò in cui credono?
Non
si salva niente, studio lavoro governo finanza tasse religione
bandiera… Se uno vuol salvarsi, vivere una vita che abbia una
dignità, al servizio di valori che la superino, deve trovarli da sé,
non nel pubblico ma nel privato, in famiglia. Per questo Cameron
pensa che bisogna salvare la famiglia, imporle una
disciplina. È che noi pensavamo la famiglia come regno dell'affetto,
non dell'autorità. Se dovessimo imporre l'autorità in famiglia,
perché fuori non ce n'è nessun'altra, sarebbe il danno più grave
che patiamo dalla nostra decadenza.
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 25
aprile 2013
Grande
giornata oggi: Festa della Liberazione. Grandissima per coloro
che ricordano come la Liberazione è avvenuta. Per tutti costoro
la domanda è: è questa l'Italia Liberata? È così che la
si aspettava? È stato realizzato l'ideale di coloro che
hanno combattuto e sono morti per liberare l'Italia? Guardando
l'Italia di oggi sarebbero contenti?
No, non sarebbero contenti.
Avrebbero (hanno, quelli che sono ancora vivi) sorprese atroci.
Inutile girare alla larga ed evitare la sorpresa più amara: abbiamo
appena eletto il presidente della repubblica, e tra i candidati di un
partito assai votato dagli italiani c'era un volontario dei
repubblichini, i miliziani della Repubblica Sociale Italiana.
Partigiani e repubblichini erano i due fronti opposti. Gli uni
combattevano gli altri. La Repubblica Sociale era nata “dopo” la
nostra sconfitta militare, quand'era chiaro che la guerra era
perduta, i volontari che correvano ad arruolarsi nella RSI non
volevano vincere ma volevano (sono parole loro, il loro
programma) “morire come lupi”. Di fatto, i combattenti della RSI
sono stati cacciatori e fucilatori di partigiani. Forse non tutti. I
buoni ci sono dappertutto, anche tra i tedeschi di Marzabotto e
di Stazzema. Può darsi che questo volontario della RSI sia
personalmente incolpevole, ma se un nemico dei combattenti per la
Liberazione è oggi candidato alla presidenza della repubblica, vuol
dire che l'Italia non è nata sui progetti, le speranze, le attese
dei combattenti per la Liberazione.
Certo, siamo liberi, e la
libertà è il primo e massimo bene sognato nei giorni della
Liberazione. Possiamo votare, studiare, lavorare, essere per il
governo o per l'opposizione, pretendere che i nostri diritti siano
rispettati, citare in processo chi li calpesta, mandare al parlamento
chi vogliamo. Ma tutti questi diritti sono attuati in
parte, e alcuni in minima parte. Non possiamo mandare al parlamento
quelli che vogliamo, ma solo quelli prescelti dai partiti. Dunque non
c'è pieno diritto elettorale. Non possiamo citare in processo chi ci
fa un torto civile o penale. La Giustizia ha costi enormi, e dunque
funziona per classi sociali. Ha tempi lunghissimi, e una giustizia
che si fa aspettare anni e anni è un'ingiustizia. Molti
cittadini, quando patiscono dei torti, si rassegnano senza reagire.
Dall'altra parte, quelli che fanno i torti, li fanno contando
sul fatto che saranno puniti molto tardi o addirittura mai. Il lavoro
oggi non c'è, i figli pesano sui padri anche a 40 anni o
vanno all'estero. Quelli che restano in patria, urtano contro un
ostacolo che chi ha liberato l'Italia non sospettava che avrebbe
avvelenato le nostre vite oggi: tu vuoi lavorare e sai lavorare e
lavori bene, ma il lavoro non si ottiene per merito, questa Italia è
costruita sulla negazione della meritocrazia. Non solo nei
settori privati ma anche nei concorsi statali, anche quelli più
delicati come l'università o la Giustizia. Chi ha combattuto per
liberare l'Italia, e aveva contro di sé nemici criminali che
facevano stragi di civili, contava sul fatto che, dopo la
Liberazione, i criminali sarebbero stati perseguitati e scoperti e
processati e condannati in tutta Europa. Purtroppo non è così.
L'Europa non è nata sull'espiazione delle colpe, ma sull'oblio
delle colpe. Non parlo in assoluto, non voglio fare
un'affermazione contestabile: sto dicendo che non tutte le colpe sono
state indagate, alcune, enormi e mostruose, sono state coscientemente
nascoste. A insabbiare la Giustizia hanno lavorato governi
europei, anche governi italiani. No, non è questa l'Italia che chi
ha fatto la Liberazione sognava. La Liberazione è stata una
Rivoluzione generale, che doveva far partire una catena di riforme.
La catena s'è bloccata. Ricordiamocelo, oggi.
Ai quindici di Piazzale Loreto
di Salvatore Quasimodo
Ai
quindici di Piazzale Loreto.
Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi,
chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini,
Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio,
Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d'un albero
di
sangue, Galimberti, Ragni,
voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro
sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la
terra
nell'ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe
di piombo ci umiliano:
troppo tempo passò. Ricade morte
da
bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle
porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte,
credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non
è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è
vita.
Storia dell'Italia partigiana Settembre 1943 – Maggio 1945 – Giorgio Bocca - Mondadori - Pagg. 600 - ISBN 9788804430568 - Euro 11,40
Ne La repubblica di Mussolini Giorgio Bocca ha esaminato con grande spirito critico la realtà del rinnovato partito fascista dopo l'8 settembre, non tralasciando connessioni, accadimenti ed eventi della parte italiana antitetica all'occupante tedesco e alla vassalla repubblica sociale.
In questo voluminoso ed esauriente testo, invece, l'autore rivolge la sua attenzione al grande movimento partigiano non trascurando raffronti con i suoi oppositori.
E' un'opera di grande valore, perché condotta con rigore storico e in grado di offrire a chi non era presente un quadro di ampio respiro e aderente in modo plausibile alla realtà.
Si potrà obiettare che Bocca è stato un partigiano, ma non si potrà negare che l'affetto per questo grande moto popolare, pur emergendo fra le righe, non esime l'autore dall'effettuare osservazioni, dall'evidenziare aspetti ed elementi negativi, dando così la prova di una valida imparzialità che è sempre caratteristica dominante nelle sue opere.
Bocca, infatti, riesce a fondere in modo ammirevole la passione di ha partecipato in prima persona agli eventi con la lucidità dello storico.
E' così che l'armistizio dell'8 settembre, la liberazione di Roma, gli scioperi di Milano, Torino e Genova, il proclama di Alexander, l'epilogo dell'aprile 1945 con l'esecuzione di Mussolini rivivono nell'ampia ricostruzione di una guerra di popolo che si manifestò ai più svariati livelli e nei diversi censi.
Quel cercare poi di comprendere le ragioni degli altri finisce con il meglio delineare anche i motivi che indussero non pochi italiani a preferire la dura realtà della macchia opponendosi prima all'invasore tedesco e poi anche al suo alleato-subordinato fascista.
Come ne La Repubblica di Mussolini la storia assume nella trasposizione letteraria una trasformazione in narrazione di eventi, precisi, puntuali, ma senza mai giungere a stancare il lettore, con il risultato che si apprendono elementi caratterizzanti di uno dei più importanti periodi della nostra storia senza nessuna fatica, anzi con il piacere di scoprire pagina dopo pagina un nostro passato ancor recente.
E' inutile che dica che quest'opera è assolutamente imperdibile.
Renzo Montagnoli
La madre del partigiano
di Gianni Rodari
Sulla
neve bianca bianca
c'è una macchia color vermiglio;
è il
sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà.
Quando
il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu
che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà.
Quando
scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti
azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
La messa dell'uomo disarmato - Luisito Bianchi – Sironi - Pagg. 860 – ISBN88-518-0024-3 – Euro 19,00
Confesso che quando l'amico Remo Bassini mi ha parlato di questo libro e anche del suo autore è sorta immediata una naturale curiosità, cioè quella di conoscere che ne pensa un sacerdote, e Luisito Bianchi lo è, di un fenomeno di assoluta rilevanza quale è stata la Resistenza. A onor del vero, questo trepido desiderio è rimasto un po' frenato quando, in possesso del libro, mi sono accorto della sua mole. Al momento l'ho accantonato, perché 860 pagine mi spaventavano, e così è rimasto per una ventina di giorni sul comodino, quasi a vegliare la mia notte. Ogni volta che mi coricavo buttavo un'occhiata e quel bel campo di grano in copertina accresceva di più il senso di incertezza; poi, una sera, non ho resistito e l'ho preso fra le mani, ripromettendomi di iniziare con un paio di pagine. Se non avessi guardato l'orologio avrei fatto l'alba, perché quei piccoli fogli di carta fluivano fra le mia dita come le fresche acque di un ruscello e la lettura, oltre che gratificante, risultava lieve. C'è voluto il suo tempo, ma poi sono arrivato alla fine, non con un'aria di trionfo, ma con il dispiacere che non vi fossero altre pagine.
Questo preambolo mi sembra doveroso, proprio per evidenziare il fatto che, quando un'opera è di valore, non dobbiamo lasciarci influenzare dalla sua dimensione ed è quindi un invito a leggere questo romanzo, senza preconcetti, perché, al di là del suo elevato pregio. riesce a infondere nell'animo un senso di serenità, una quiete interiore sempre più difficile a trovarsi.
E' stato anche definito un romanzo sulla Resistenza e in questo senso è vero, perché ha saputo cogliere l'autentico significato di questo periodo storico che prima ancora che un fatto bellico è stato un evento umano, con quel ritrovamento di una dignità da tempo sepolta.
La messa dell'uomo disarmato non è però solo questo, ma molto di più. E' un romanzo sulla vita cristiana, sul rapporto fra uomo e natura, fra uomo ed Ente Superiore, sulle relazioni fra gli uomini. La visione di Luisito Bianchi non è cattolica, ma cristiana, nel senso che si è spogliato degli abiti talari quando si è accinto a metter mano alla penna e così del suo ufficio è rimasta solo la sostanza, quel continuo dialogo fra il razionale e il trascendentale che può benissimo essere sintetizzato nella frase di Franco, il narratore del romanzo: “Credi in Dio? Non so, come una volta, ma credo alla Parola annichilita e risorta per dare un unico senso alla morte e alla vita”.
L'origine contadina dell'autore si riflette poi nell'amore viscerale per la terra che permea tutto il libro, quella terra da coltivare con mani amorevoli, quasi fosse un essere vivente, con i ritmi di vita propri delle attività connesse e disancorati da quelli fissati dall'uomo.
La terra è una grande madre a cui i figli attendono con i lavori agricoli come pargoli che succhiano il latte dal seno e a cui, alla fine di una vita, ritornano, per formare con essa un'unica entità, in un ciclo costante che dura da millenni, in una simbiosi che da un senso a tutta l'esistenza.
La messa dell'uomo disarmato è anche il romanzo della pietà, non una pietà di comodo, ma quel gesto amorevole che deriva da una radicata umanità.
E così anche le tragiche pagine centrali del volume, quelle che parlano degli anni della resistenza, con tutti gli episodi di scontri bellici, di eccidi, di bestialità, finiscono con il diventare un messaggio di pace di rara bellezza ed efficacia.
Questo romanzo ha tanti personaggi, talmente vivi che sembra di vederli, e questo nonostante manchino le classiche descrizioni, perché per delineare le figure Bianchi si avvale delle loro azioni. L'autore non dimostra una spiccata preferenzialità per l'uno o per l'altro, però un po' più di attenzione c'è per i poveri e puri di cuore. Personaggi come Balilla, Giuliano e, soprattutto, Rondine sono di struggente bellezza, entrano nel lettore in punta di piedi e non escono più dal suo cuore.
Aggiungo, poi, che ci sono pagine in cui la capacità poetica di Bianchi si esprime ai massimi livelli: “Come al solito, quel lunedì 26 luglio 1943 l'avemaria suonò alle cinque e mezzo, saltellò sui tetti delle case, s'incontrò con la mano di porporina dorata che il sole s'era affrettato a pennellare sulle cime degli alberi,…”.
E di periodi come questo, di una dolcezza senza pari, ce ne sono altri, ma non sono un esercizio di stile, in quanto funzionali al massimo alla vicenda.
Bianchi ha scritto tante pagine, ma non ha usato una parola più del necessario, e anche se la prima parte può sembrare troppo lunga e l'ultima troppo breve, quasi affrettata, restando il corposo nucleo centrale l'essenza vitale del romanzo, sono dell'opinione che l'autore abbia agito per il meglio, componendo la sua opera come un grande concerto di musica sinfonica, dove il preludio è l'indispensabile base per comprendere il tutto e la fine è la naturale risposta a tanti perché.
La messa dell'uomo disarmato, secondo il mio giudizio, è un romanzo di una bellezza sublime, un autentico e raro capolavoro come pochi se ne trovano nella letteratura mondiale.
Renzo Montagnoli