Dal
fondo. I miei primi dieci anni – Franca
Canapini – Youcanprint – Pagg. 162 – ISBN 9788831610070 – Euro
12,00
A comprendere il titolo ci aiuta la stessa autrice rivolgendosi ai destinatari, le nipotine che vogliono sapere se davvero lei ‘è nata povera’. Scrive Franca Canapini nell’Introduzione:
…vi
regalo il racconto di una storia fossile, proveniente dal fondo della
mia memoria, ma anche dal fondo dell’umanità e della gerarchia
sociale: e pure dal ‘fundus’ nel significato latino di campo.
Queste
parole consegnano idealmente la chiave di lettura di tutte le
cinquanta storie, ognuna con un proprio titolo, di cui si compone il
libro, che alterna nelle pagine anche poesie dell’Autrice e
illustrazioni di oggetti e ambienti correlati all’arco di tempo
raccontato, gli anni ’50. Sono questi gli anni del dopoguerra e
della ricostruzione, anni che vedono la piccola Franca abitare con i
genitori Gino e Adriana – dei quali è l’unica figlia, dopo la
drammatica perdita dei primi due – in una località vicino a
Chianciano Terme, Le Cavine, in piena campagna. C’era stato per
questa piccola famiglia un primo passaggio storico: la famiglia
patriarcale di cui faceva parte e che aveva resistito fino agli anni
del conflitto a Poggio al Moro, dopo la guerra si è frammentata in
nuclei familiari separati, fenomeno che avverrà più lentamente
anche nelle campagne della Val di Chiana negli anni del boom
economico. Scrive Franca Canapini:
In
quella piccolissima casa, all’inizio, non c’era l’acqua
corrente, la luce elettrica e il bagno era ridotto al solo gabinetto.
Era nuova ma concepita all’antica…. L’unico lusso…la radio a
batteria, dapprima una specie di grosso cassone marrone, poi, anno
dopo anno, sempre più piccolo e meno gracchiante…(pp.10-11)
Intorno
vivevano i vicini mezzadri che abitavano in “vecchi poderi”, con
ancor meno comodità. Ma per la piccola Franca le case coloniche, le
scale di pietra. I pagliai, gli animali da cortile, le stalle sono,
come lei scrive “un presepe”, “un mondo di bellezza e serenità”
che rende magiche le sue giornate e non le fa percepire la fatica e
la povertà degli adulti.
..
io adoravo entrare in quelle loro vecchie case e scoprire tutte le
stanze, i bugigattoli,, i grani, le logge, sedere nelle sere d’estate
sulle tiepide scale di pietra serena, esplorare le aie coi loro
pagliai di paglia e di fieno…, riposarmi, dopo corse sfrenate,
all’ombra dei gelsi, sostare a osservare gli animali da cortile…
e poi le stalle con le bianche vacche chianine tutte in fila che
ruminavano lentamente e i vitellini che si alzavano malamente sulle
loro ossute zampette e barcollavano per andare a succhiare il latte
della mamma. Un presepe. Un mondo di bellezza e di serenità che
rendeva magiche le mie giornate (pp.11-12)
Quando
a sette anni la frequenza della scuola in paese la metterà a
confronto con la vita delle “paesane” più benestanti e che
vivono in case più agiate, l’autrice realizzerà la diversità di
questa “favola selvatica”, ma reagirà con fierezza, tenendo
nascoste le sue radici, senza perderne i valori.
Nelle
pagine di Dal fondo si susseguono le descrizioni e i ricordi vividi
di questi primi anni: la mamma e il suo tenero, rassicurante amore,
la mamma, chiamata la “donna con la brocca” che la conduce con sé
ad attingere l’acqua alla sorgente, a lavare i panni, a falciare il
grano nel silenzio campestre rotti da fruscii di lucertole o canto di
cicale.
Quando
dopo pochi anni, verrà costruito, anche alle Cavine, l’acquedotto
comunale e arriverà l’acqua in casa, sarà per lei e le altre
famiglie il primo segno del miglioramento delle condizioni di vita e
anche di quel complesso cambiamento che trasporterà tutta la società
da tempi quasi immobili all’epoca degli elettrodomestici, delle
automobili, della velocità e dei rumori.
Ma
intanto Franca continua il suo percorso a ritroso nella memoria
attraverso brani come La stufa a legna che segna il passo in avanti
dal focolare, erede del fuoco paleolitico e punto di aggregazione
familiare, ad un primo strumento di cucina più moderno ma tanto
legato ad un modo di cucinare ormai desueto, usando legna, cenere per
cuocere carne e verdure. Ed ancora è descritto il rito del pane,
preparato settimanalmente dalla mamma il pomeriggio del sabato con il
lievito madre custodito nella madia e il profumo delle pagnotte che
uscivano calde dal forno… Per il vicinato La mamma Adriana era
l’infermiera, mentre il babbo Gino la domenica mattina era il
barbiere e anche queste scene, come tutte le altre, sono narrate con
il punto di vista per lo più ‘interno’ di lei bambina che
assiste a questi momenti di collaborazione e chiacchere scherzose o
serie come ad uno spettacolo, un piccolo teatro.
Dall’ambiente
familiare l’occhio del ricordo si amplia a quello sociale
descrivendo i momenti più collettivi, come il corteo del funerale ad
una piccola morta prematuramente, il matrimonio con gli sposi finti,
ovvero di procura, ma con confetti e torte vere, le visite al
cimitero ai due fratellini morti anzitempo, il passaggio del prete a
quaresima, ma soprattutto la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia,
l’uccisione e la spezzatura del maiale, i momenti topici della vita
agricola sia estiva che invernale. E non a caso le pagine che li
raccontano sono intervallate da alcune scene del bellissimo Ciclo dei
mesi che si trova nella lunetta della Pieve di Arezzo.
Non
mancano descrizioni di paesaggi e momenti metereologici: si vedano i
brani La strada, Il temporale, La neve del ’56, Il bosco, La piena,
Il profumo dell’erba o di altri momenti di ritrovo o svago di
quegli anni, che possiamo condividere come La rotella, I fumetti, La
televisione, La lambretta, I giochi di gruppo…L’Autrice ci
accompagna così pagina dopo pagina, storia dopo storia e tesse un
mosaico di tanti aspetti e momenti, consuetudini ed usi della civiltà
contadina che era rimasta immutata quasi per secoli e che vede
modificarsi pian piano non solo i modi di vivere e di lavorare ma
anche i rapporti interpersonali, i costumi, gli stili di vita (così
come anche noi di quella generazione ed oltre stiamo oggi assistendo
alla rivoluzione informatica).
Il
libro si offre quindi non solo come un racconto ben scritto e
coinvolgente dei ricordi di questa ‘favola selvatica’, ma come un
vero e proprio documento storico, sociale, antropologico, ripercorso
sul filo di una disincantata nostalgia, riletto con lucida analisi,
con una matura consapevolezza della trasformazione avvenuta ed anche
accettata del proprio cambiamento di città, di amicizie, di paesaggi
(si veda il brano Il ritorno). Una recherche che tutti noi, come
individui, sentiamo spesso l’esigenza di fare con l’andare degli
anni e che personalmente mi appartiene anche per aver avuto lo stesso
contatto, meno continuo ma diretto, con la realtà del mondo
contadino in Val di Chiana - ed anche urbano per certi aspetti - di
quegli anni stessi 50 e anche ’60, prima di quella profonda
modificazione sociale ed economica che gli studiosi di storia
potrebbero qui descrivere più dettagliatamente con numeri e dati
precisi.
A
noi piace ritrovarla e calarvisi con le cinquanta storie di Franca
Canapini, ringraziandola per averci donato questo mazzo di ricordi
condivisibili e un documento per i più giovani di quel ‘fondo’
da cui essi discendono, semi gettati da quelle generazioni senza
televisione, telefono, cellulare, schermi artificiali. Unica visione
la natura, i campi, gli animali domestici e da lavoro…, un
paesaggio naturale ben antropizzato, in cui hanno vissuto coloni,
mezzadri, ortolani e ricostruirlo e rievocarlo ci è sembrata proprio
una scelta ben fatta.
Patrizia
Fazzi
Fiore
di roccia -
Ilaria Tuti – Longanesi – Pagg. 320 – ISBN 9788830455344 -
Euro 18,80
Come
le stelle alpine
Il
delicato compito, assolto egregiamente da Ilaria Tuti, di far
conoscere il ruolo assunto dalle donne friulane durante la Grande
Guerra, non era esente dal pericolo più strisciante e latente ovvero
quello di non contribuire affatto a restituirne la memoria ma, al
contrario, paradossalmente, di impoverirla ulteriormente con un
racconto poco degno di nota. E invece, la scrittrice friulana,
conosciuta e apprezzata da molti lettori per i suoi precedenti
romanzi con protagonista, guarda a caso una donna, il commissario
Teresa Battaglia, e la sua terra, il Friuli , riesce a restituire il
vero senso della partecipazione femminile al conflitto e la misura di
tale impegno, lasciando il lettore attonito rispetto al coraggio e
alla generosità di queste donne. E in realtà, dietro la storia
particolare legata agli anni del conflitto, vi è la storia
millenaria della donna: “la nostra capacità di bastare a noi
stesse non ci è riconosciuta, né concessa. L’abbiamo tessuta con
la fatica e il sacrificio, nel silenzio e nel dolore, da madre in
figlia … ”; ora l’occasione di essere audaci e coraggiose potrà
essere palese agli occhi di tutti perché questa volta a chiamare è
la guerra, compito solo maschile. È facile riconoscere l’importanza
della donna, ma peggio la si dà per scontata, quando a lei è
affidato un ruolo cristallizzato, la cura della casa , dei bambini, o
ancora dei vecchi, la fatica del tirare avanti in assenza dell’uomo,
diverso è invece riconoscerle pare dignità in un terreno mai
sperimentato prima: quello delle trincee, dei camminamenti, dei
sentieri esposti ai cecchini austriaci … Questo fanno le donne in
questione, le Trogarinnen, le Portatrici. Munite solo della loro
capiente gerla e degli scarpetz, scarpe fatte di stracci sovrapposti,
aderenti alla dura roccia, camminano dal paese fino al fronte e
trasportano viveri, medicinali, munizioni portando con sé il canto,
la gioia e perfino la speranza. Sono mamme con il seno turgido e
dolorante, lasciano i loro piccoli a casa dopo la poppata, sono
figlie devote con il pensiero del malato che le attende a valle, sono
giovani donne innamorate in attesa che la guerra restituisca loro il
ragazzo, vivo. Fra tutte spicca Agata Primus, la sua voce narrante
permette di focalizzare l’attenzione del lettore su una storia
particolare, la sua, che ha il dono di essere l’emblema di tutte le
restanti. Sullo sfondo le vite delle vere portatrici sulla scorta di
un’ accurata ricostruzione storica che è stato possibile
realizzare a partire proprio dai documenti che la memoria , questa
volta maschile, ha voluto conservare e perpetrare. Libro bello,
delicato e doloroso, necessario per conservare la memoria di una
pagina importante della storia d’Italia, stavolta scritta dalle
donne.
Siti
I
fantasmi dell’Impero -
Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella - Sellerio Editore
Palermo - Pagg. 552 -ISBN 9788838936081 - Euro 15,00
Giochi
di potere
L’anno
è il 1937 e in Etiopia, da poco conquistata, il viceré è il
generale Graziani, che è da poco scampato a un attentato, a cui ha
fatto seguito una repressione che definire feroce potrebbe quasi
essere un eufemismo. Da allora è diventato sospettoso e teme di
essere avviluppato in una ragnatela, ordita da nemici esterni e
interni. Proprio per parare le mosse di questi
ultimi invia un avvocato
militare, il tenente colonnello Vincenzo Bernardi, a indagare sui
presunti abusi compiuti ai danni della popolazione dal
capitano Corvo, un residente nei pressi del lago Tana; infatti ha il
timore che si tratti dell’indizio di un complotto che ha lo scopo
di provocare una rivolta con cui farlo apparire un incapace agli
occhi di Mussolini. L’operazione, una vera e propria missione, vede
l’avvocato militare accompagnato da una piccola, ma idonea scorta,
comandata dal sottotenente Vittorio Vivarelli, e costitituita da
pochi, ma validi ascari.
Durante
il tragitto non mancano attacchi e attentati, ma tutti falliscono, e
allora, visto che sorge il dubbio che gli attaccanti non siano
ribelli etiopici, sorgono subito spontanee due domande: chi vuole
ostacolare la missione e che cosa non vuole che venga
scoperto? Non vado oltre, perché I
fantasmi dell’Impero non
è solo un romanzo storico, ma è anche un giallo ben congegnato, che
al di là del fatto che possa essere visto come un lavoro adatto a
far trascorrere piacevolmente un po’ di tempo presenta
caratteristiche proprie che lo rendono di notevole interesse.
Intanto, come esposto in una nota degli autori, l’occasione per
scriverlo è venuta da un caso fortuito accaduto a Luigi Panella: il
ritrovamento nei fascicoli del disciolto Ministero dell’Africa
delle tracce di un’inchiesta del 1938, rimasta segreta, condotta da
un magistrato militare sull’operato del capitano Gioacchino Corvo,
un ufficiale accusato di crimini di guerra nell’Etiopia occupata. A
prima vista sembrerebbe un Cuore
di tenebra all’italiana,
ma procedendo nell’esame dei carteggi emergono non
poche differenze che portano invece a ipotizzare dei
pericolosi giochi di potere. Fra l’altro i protagonisti sono
esistiti veramente e di alcuni viene riportato il nome e cognome,
mentre per altri, per nulla inventati, si è preferito attribuire
loro una nuova identità, anche se poi viene rivelato a chi
corrispondano.
Questo
romanzo, che ha incontrato un notevole successo, ha senz’altro un
pregio, cioè la demistificazione del colonialismo italiano, non
dissimile da quello di altre nazioni europee, con una conquista che
impose una totale sottomissione della popolazione, a completa
disposizione degli occupanti, che potevano permettersi di fare quello
che volevano, certi di restare impuniti, e allora furono
numerosissime le violenze quotidiane, soprattutto sulle donne,
considerate oggetti di un piacere usa e getta, per non parlare dei
villaggi incendiati, della gente gassata, degli eccidi quasi sempre
non giustificati. La ricostruzione storica è talmente dettagliata
che anche particolari, in altre opere trascurati, come le divise
indossate, sono descritti fedelmente. Se qualcuno poi pensa che si
esageri nel parlare della nostra violenza, basta leggere i telegrammi
dell’epoca, scambiati fra il potere centrale e i comandanti, per
capire che non si è mai trattato della follia di qualche singolo,
quanto basta ancora una volta per sfatare il mito degli italiani
brava gente, un’invenzione nostra per autoassolverci. I
fantasmi dell’Impero è
un romanzo indubbiamente coinvolgente, ma è anche un’opera
coraggiosa che descrive un pezzo della nostra storia prima
volutamente ignorato.
Renzo
Montagnoli
I ragazzi del ciliegio. 1918-1945 - Fiorella Borin – Solfanelli – Pagg. 320 – ISBN 978-88-3305-117-8 – Euro 20,00
Quando
ho concluso la lettura del libro I
ragazzi del ciliegio,
di Fiorella
Borin,
ho sentito in me quasi un senso di smarrimento, qualcosa di così
profondo che ti lacera dentro.
Sembra quasi impossibile pensare che l’uomo, nel periodo storico in cui il romanzo è ambientato, possa aver fatto così tanto male, sia potuto arrivare così giù, nell’abisso più profondo. E invece è stato possibile
Mi veniva difficile, in quel momento di sincera sofferenza, provare a raccontare, in sintesi, la storia che Fiorella Borin ci ha fatto invece conoscere con tanta bravura. Ho tuttavia voluto provarci.
E’ una storia avvincente, tanto bella quanto tragica.
Nella sua prima parte è il racconto appassionato di un’amicizia, quella vera, nata tra alcuni ragazzi veneti che all’inizio incontriamo quando sono ancora poco più che bambini. Un gruppetto di amici che spesso si danno appuntamento sotto un ciliegio. Da questo particolare trae spunto il titolo del libro. E’ bellissima, tra l’altro, la copertina, un dipinto in cui sembra, e non è un caso, che il ciliegio, e i ragazzi con lui, debbano precipitare in un abisso.
La storia incomincia nel 1918, prosegue nel 1919, e poi ancora nel 1920. E nel frattempo i ragazzi crescono. Hanno nomi belli, si chiamano Giorgio, Girolamo, Ettore. Sembra di vederli e di conoscerli nelle loro caratteristiche fisiche, ma anche nei tratti fondamentali dei loro caratteri. Ettore, alto e massiccio, di qualche anno più grande, la scuola non è mai stata il suo forte, con i suoi lunghi silenzi, ma anche con uno straordinario talento per il disegno, Giorgio, col suo temperamento gioviale e accogliente, bravissimo negli studi, Girolamo, dal carattere mite… Ognuno diverso dall’altro, ma uniti da un’amicizia che durerà per tutta la vita, e forse anche oltre. E poi c’è Gilberto, il fratello di Giorgio, e Mario, carissimo amico e compagno di scuola di Giorgio al liceo Tito Livio di Padova, Ernesto, il fratello di Ettore, e Vincenzo, il loro cugino, entrambi catturati dalla bellezza della musica. E tutti sembrano guardare al futuro con fiducia.
Si arriva all’ottobre del 1922, e spesso, sui giornali, si parla di Mussolini. Anche agli amici capita, come se fossero già adulti, di parlarne tra di loro. Giorgio si mostra piuttosto insofferente fin dall’inizio, sa guardare un po’ più lontano… Il tempo passa, i ragazzi crescono, alcuni di loro completano gli studi secondari.
Giorgio e Mario proseguiranno gli studi fino all’università, Girolamo diventerà ragioniere. Ettore andrà a Venezia a frequentare l’Accademia di Belle Arti, inseguendo un sogno. Per lui e per Girolamo, tutto questo sarà possibile grazie alla generosità di due benefattori: i genitori del loro amico Giorgio.
Ed eccoli i genitori di Giorgio. La mamma, chiamata dagli amici “la professoressa”, il padre sarà invece per tutti “il dottore”.
Due personaggi che fin dalle prime pagine si impara ad amare.
Lei, pianista e violinista, che per amore ha abbandonato una carriera probabilmente molto soddisfacente, continuerà a suonare per il marito e i figli il violino e il pianoforte, lui, medico, innamorato come pochi della sua compagna di una vita.
Ma si avvicinano gli anni della seconda guerra mondiale, e con loro un enorme carico di dolore: la chiamata alle armi di tantissimi ragazzi, poco più che bambini, la famigerata campagna di Russia, la devastante ritirata…
Sembra impossibile descrivere l’orrore di quegli anni, eppure Fiorella Borin l’ha fatto in modo egregio. E chissà quanta sofferenza nel raccontare questa storia, che senza ombra di dubbio l’ha coinvolta profondamente.
Sembra quasi impossibile pensare che l’uomo, nel periodo storico in cui il romanzo è ambientato, possa aver fatto così tanto male, sia potuto arrivare così giù, nell’abisso più profondo. E invece è stato possibile
Mi veniva difficile, in quel momento di sincera sofferenza, provare a raccontare, in sintesi, la storia che Fiorella Borin ci ha fatto invece conoscere con tanta bravura. Ho tuttavia voluto provarci.
E’ una storia avvincente, tanto bella quanto tragica.
Nella sua prima parte è il racconto appassionato di un’amicizia, quella vera, nata tra alcuni ragazzi veneti che all’inizio incontriamo quando sono ancora poco più che bambini. Un gruppetto di amici che spesso si danno appuntamento sotto un ciliegio. Da questo particolare trae spunto il titolo del libro. E’ bellissima, tra l’altro, la copertina, un dipinto in cui sembra, e non è un caso, che il ciliegio, e i ragazzi con lui, debbano precipitare in un abisso.
La storia incomincia nel 1918, prosegue nel 1919, e poi ancora nel 1920. E nel frattempo i ragazzi crescono. Hanno nomi belli, si chiamano Giorgio, Girolamo, Ettore. Sembra di vederli e di conoscerli nelle loro caratteristiche fisiche, ma anche nei tratti fondamentali dei loro caratteri. Ettore, alto e massiccio, di qualche anno più grande, la scuola non è mai stata il suo forte, con i suoi lunghi silenzi, ma anche con uno straordinario talento per il disegno, Giorgio, col suo temperamento gioviale e accogliente, bravissimo negli studi, Girolamo, dal carattere mite… Ognuno diverso dall’altro, ma uniti da un’amicizia che durerà per tutta la vita, e forse anche oltre. E poi c’è Gilberto, il fratello di Giorgio, e Mario, carissimo amico e compagno di scuola di Giorgio al liceo Tito Livio di Padova, Ernesto, il fratello di Ettore, e Vincenzo, il loro cugino, entrambi catturati dalla bellezza della musica. E tutti sembrano guardare al futuro con fiducia.
Si arriva all’ottobre del 1922, e spesso, sui giornali, si parla di Mussolini. Anche agli amici capita, come se fossero già adulti, di parlarne tra di loro. Giorgio si mostra piuttosto insofferente fin dall’inizio, sa guardare un po’ più lontano… Il tempo passa, i ragazzi crescono, alcuni di loro completano gli studi secondari.
Giorgio e Mario proseguiranno gli studi fino all’università, Girolamo diventerà ragioniere. Ettore andrà a Venezia a frequentare l’Accademia di Belle Arti, inseguendo un sogno. Per lui e per Girolamo, tutto questo sarà possibile grazie alla generosità di due benefattori: i genitori del loro amico Giorgio.
Ed eccoli i genitori di Giorgio. La mamma, chiamata dagli amici “la professoressa”, il padre sarà invece per tutti “il dottore”.
Due personaggi che fin dalle prime pagine si impara ad amare.
Lei, pianista e violinista, che per amore ha abbandonato una carriera probabilmente molto soddisfacente, continuerà a suonare per il marito e i figli il violino e il pianoforte, lui, medico, innamorato come pochi della sua compagna di una vita.
Ma si avvicinano gli anni della seconda guerra mondiale, e con loro un enorme carico di dolore: la chiamata alle armi di tantissimi ragazzi, poco più che bambini, la famigerata campagna di Russia, la devastante ritirata…
Sembra impossibile descrivere l’orrore di quegli anni, eppure Fiorella Borin l’ha fatto in modo egregio. E chissà quanta sofferenza nel raccontare questa storia, che senza ombra di dubbio l’ha coinvolta profondamente.
Il
tempo dei sogni giovanili per “i ragazzi del ciliegio”, si è
ormai concluso. Davanti a loro una guerra difficile da capire. Ettore
partirà come volontario per l’Africa, in seguito ad una grande
delusione, Giorgio per la Russia, e insieme a lui tantissimi ragazzi
ancora più giovani, moltissimi ventenni, strappati ai sogni e alle
famiglie. Incontrerà anche alcuni volti conosciuti, Ernesto e
Vincenzo, e saranno brevi momenti di sollievo e condivisione. Quante
piccole ma importanti storie si intrecceranno in quegli anni! Piccole
storie che andranno a formare un grande mosaico, risucchiate dentro
la grande terribile storia della ritirata dei soldati italiani, che
non avevano chiesto di combattere una guerra mai capita.
Altri personaggi, nel magnifico racconto di Fiorella Borin, alcuni rimarranno impressi a lungo nella nostra memoria di lettori. Sara, Carla, il capitano Morelli, l’attendente Candido Mosca, i vecchi incontrati nelle isbe, le diverse donne ucraine, spesso vecchie, che accoglievano i poveri soldati italiani magari per una notte, offrendo loro quel poco che avevano; e poi le giovanissime ragazze ucraine, portate vie senza nessun riguardo strappandole alla famiglia. E Mariella, Giovanni da Chieti…
E ci sono anche i ricordi… Il diario di Giorgio, i suoi appunti accurati e dolorosi, per non dimenticare, per far conoscere che cosa è stata la Campagna di Russia, Perché nessuno dica che non è successo niente. E sarà sempre Giorgio a chiedere ai suoi soldati di scrivere le proprie memorie.
Ed eccoli i ricordi di Ernesto, di Vincenzo, e di altri. Fanno tenerezza quei loro scritti messi giù come potevano, ragazzi di poca istruzione ma con un cuore grande, così affezionati al “loro” capitano.
In questo libro straordinario ci sono anche le lettere. Quelle di Giorgio, di Girolamo, di Ettore, scritte ma poche volte arrivate a destinazione, e quelle di Emma, sua sorella, fanatica simpatizzante, fin da giovanissima, di Mussolini e di Hitler.
Quanto ancora, spinta da un grande interesse per questo libro, mi verrebbe da raccontare, ma mi accorgo di essere andata fin troppo avanti nelle mie osservazioni. Mi fermo qui, con la speranza tuttavia di aver suscitato, in chi leggerà questa mia Nota, un po’ di curiosità e il desiderio di avvicinarsi a un libro così denso e così bello.
Un libro che merita di essere non solo letto, spero da tante persone, ma diffuso soprattutto nelle scuole, escludendo forse la primaria, per via dell’età dei bambini che la frequentano.
Io personalmente ringrazio Fiorella per averlo scritto, sono state davvero tante le riflessioni scaturite da questa lettura.
Altri personaggi, nel magnifico racconto di Fiorella Borin, alcuni rimarranno impressi a lungo nella nostra memoria di lettori. Sara, Carla, il capitano Morelli, l’attendente Candido Mosca, i vecchi incontrati nelle isbe, le diverse donne ucraine, spesso vecchie, che accoglievano i poveri soldati italiani magari per una notte, offrendo loro quel poco che avevano; e poi le giovanissime ragazze ucraine, portate vie senza nessun riguardo strappandole alla famiglia. E Mariella, Giovanni da Chieti…
E ci sono anche i ricordi… Il diario di Giorgio, i suoi appunti accurati e dolorosi, per non dimenticare, per far conoscere che cosa è stata la Campagna di Russia, Perché nessuno dica che non è successo niente. E sarà sempre Giorgio a chiedere ai suoi soldati di scrivere le proprie memorie.
Ed eccoli i ricordi di Ernesto, di Vincenzo, e di altri. Fanno tenerezza quei loro scritti messi giù come potevano, ragazzi di poca istruzione ma con un cuore grande, così affezionati al “loro” capitano.
In questo libro straordinario ci sono anche le lettere. Quelle di Giorgio, di Girolamo, di Ettore, scritte ma poche volte arrivate a destinazione, e quelle di Emma, sua sorella, fanatica simpatizzante, fin da giovanissima, di Mussolini e di Hitler.
Quanto ancora, spinta da un grande interesse per questo libro, mi verrebbe da raccontare, ma mi accorgo di essere andata fin troppo avanti nelle mie osservazioni. Mi fermo qui, con la speranza tuttavia di aver suscitato, in chi leggerà questa mia Nota, un po’ di curiosità e il desiderio di avvicinarsi a un libro così denso e così bello.
Un libro che merita di essere non solo letto, spero da tante persone, ma diffuso soprattutto nelle scuole, escludendo forse la primaria, per via dell’età dei bambini che la frequentano.
Io personalmente ringrazio Fiorella per averlo scritto, sono state davvero tante le riflessioni scaturite da questa lettura.
Il
brano che segue è tratto da una lettera scritta da Giorgio a sua
figlia.
“Rileggendo
i miei appunti, molte volte il pensiero è andato a tutte quelle
donne ucraine, giovani e vecchie, ma tutte infinitamente buone e
pietose, che hanno creduto di vedere nei soldati italiani abbandonati
lungo le dolorose strade di una tragica ritirata invernale, il loro
fratello, il loro fidanzato, il loro sposo, il loro figlio. Tanti dei
nostri soldati, sfiniti di stanchezza o feriti, e amorosamente
portati nelle povere ma tiepide isbe, nutriti con quel poco che era
stato possibile salvare dalle razzie tedesche, potranno testimoniare
un giorno dell’animo infinitamente buono e dell’eroismo delle
donne ucraine che nella loro pietosa opera di bene hanno sfidato le
ire della polizia ucraino-collaboratrice e delle famigerate SS
tedesche. E i racconti di questi soldati, strappati miracolosamente
alla morte da quelle persone che essi erano stati mandati a
combattere, costituiranno un inno a quella bontà che è al di sopra
di ogni risentimento e di ogni partito; a quella bontà fatta di
grande amore e di infinità onestà.”
Piera
Maria Chessa
Identità
alla sbarra –
Ivana Tomasetti – Ass. Terre Sommerse – Pagg. 465 –
ISBN 9788869010736 - Euro 22,90
La
sua vita aveva testimoniato che l’identità si costruisce, col
caso, col desiderio, con la volontà, con l’inganno a cui tutti
alla fine, avevano creduto, perfino lui stesso.
Eppure dentro la popolarità e la curiosità pettegola, che lo avevano circondato, si leggeva una certa ammirazione per il coraggio e l’intelligenza che gli avevano permesso di appagare il desiderio segreto di molte persone: poter scegliere.
Eppure dentro la popolarità e la curiosità pettegola, che lo avevano circondato, si leggeva una certa ammirazione per il coraggio e l’intelligenza che gli avevano permesso di appagare il desiderio segreto di molte persone: poter scegliere.
Identità
alla sbarra è l’opera prima di Ivana Tomasetti frutto di grande
ricerca storica, un libro contro la guerra, ma soprattutto un libro
contro la violenza sulle donne.
Tratto
da una storia vera, quella di Maria Teresinha Gomes: nata
nel 1933 vicino a Madeira, Portogallo. Appena sedicenne scappò da
casa e tutti la diedero per morta. Si ignora come abbia vissuto fino
al 1974 quando, approfittando della gran confusione dovuta non tanto
alla festa del carnevale ma piuttosto alla fine imminente ed
annunciata del regime di Salazar, Maria Teresinha ricomparve
travestita in alta uniforme e con la nuova identità di “generale
Tito Aníbal da Paixão Gomes”. Il “General Tito”, come da quel
momento tutti la conobbero, si accasò pure con tal Joaquina Costa,
un’infermiera, in un matrimonio “ratum sed non consummatum” (la
“moglie” spergiurò che non si era mai accorta di nulla se non
dopo 15 anni di convivenza…), e si guadagnò da vivere chiedendo
soldi in prestito e vantando inesistenti investimenti societari e
terrieri, cioè sostanzialmente truffando, ben protetto dalla sua
condizione altolocata e dai modi educati, colti e raffinati che
ostentava.
La sgamarono solo nel 1993, quasi 20 anni dopo, ed il processo – al quale Maria Teresinha Gomes presenziò sempre vestita da uomo – divenne un evento mediatico. La condannarono ad una breve pena detentiva e lei/lui si ritirò in un paesino isolato, tanto isolato che nel 2007 il General Tito fu ritrovato morto, in avanzato stato di decomposizione. Nessuno si era più ricordato di lei/lui.
La sgamarono solo nel 1993, quasi 20 anni dopo, ed il processo – al quale Maria Teresinha Gomes presenziò sempre vestita da uomo – divenne un evento mediatico. La condannarono ad una breve pena detentiva e lei/lui si ritirò in un paesino isolato, tanto isolato che nel 2007 il General Tito fu ritrovato morto, in avanzato stato di decomposizione. Nessuno si era più ricordato di lei/lui.
Ivana
Tomasetti romanza la storia di Maria Teresinha Gomes ma non si
allontana mai dalla vicenda che fece tanto scalpore.
La narrazione inizia prima della nascita di Teresa, quando una famiglia umile e che vive del lavoro nei campi è segnata dalla perdita del piccolo Tito, fratello di Teresa, la quale saprà di questa tragedia quando già grandina e non dalla sua famiglia. La sua è una famiglia dove la donna non ha parola e deve sottostare alle cattiverie (spesso e volentieri) di un uomo padrone.
L’autrice usa una scrittura leggiadra e lieve come il raccontare una favola, ma come tutte le favole nel racconto si nascondono delle trame di disgrazia.
La narrazione inizia prima della nascita di Teresa, quando una famiglia umile e che vive del lavoro nei campi è segnata dalla perdita del piccolo Tito, fratello di Teresa, la quale saprà di questa tragedia quando già grandina e non dalla sua famiglia. La sua è una famiglia dove la donna non ha parola e deve sottostare alle cattiverie (spesso e volentieri) di un uomo padrone.
L’autrice usa una scrittura leggiadra e lieve come il raccontare una favola, ma come tutte le favole nel racconto si nascondono delle trame di disgrazia.
“I
genitori non riescono a comprendere i nostri piccoli pensieri perché
hanno i loro che sono molto più importanti. Faremo così anche noi,
quando avremo i nostri figli, ti pare?” Teresa rifletteva a voce
alta.
La
leggiadria della giovinezza, la bellezza della scuola, il battito del
cuore del primo amore, si avvicenda all’ infelicità famigliare
nella sua chiusura mentale, ma la piccola Teresa imparerà l’arte
del ricamo, che gli permetterà di rendersi indipendente ed è
proprio quest’arte unita alla sua intraprendenza, gli consentirà
di vivere a Lisbona, dopo la sua fuga di casa, nonostante tutte le
avversità.
Identità alle sbarre ripercorre avvenimenti storici importanti, sviscera tratti psicologici della protagonista e di tutti quei personaggi che si troveranno a vivere momenti di quotidianità con lei, in maniera magistrale.
Il passaggio dall’essere donna al voler essere uomo, perché l’uomo tutto può, è un percorso che permette al lettore di vederne le trasformazioni; una volontà talmente radicata in Teresa che si smette di vederla e/o pensarla come donna.
Le violenze subite, sia fisiche sia psicologiche, sono state sicuramente un passaggio importante nella trasformazione di Teresa. Il desiderio di indipendenza, impossibile per una donna in quel momento storico, è vista concretarsi nel divenire uomo.
Per vivere il generale Tito ruberà e imbroglierà dando favori in cambio, uno scambio che finirà dopo 20 anni di anonimato. Dopo il processo, quando non avendo più la libertà del poter essere se stesso, il generale Tito si lascerà morire.
Un libro quello di Ivana Tomasetti che merita la lettura, è un libro che fa riflettere e fa vibrare tutte le corde dei sentimenti del lettore.
Un grande plauso all’autrice!
Identità alle sbarre ripercorre avvenimenti storici importanti, sviscera tratti psicologici della protagonista e di tutti quei personaggi che si troveranno a vivere momenti di quotidianità con lei, in maniera magistrale.
Il passaggio dall’essere donna al voler essere uomo, perché l’uomo tutto può, è un percorso che permette al lettore di vederne le trasformazioni; una volontà talmente radicata in Teresa che si smette di vederla e/o pensarla come donna.
Le violenze subite, sia fisiche sia psicologiche, sono state sicuramente un passaggio importante nella trasformazione di Teresa. Il desiderio di indipendenza, impossibile per una donna in quel momento storico, è vista concretarsi nel divenire uomo.
Per vivere il generale Tito ruberà e imbroglierà dando favori in cambio, uno scambio che finirà dopo 20 anni di anonimato. Dopo il processo, quando non avendo più la libertà del poter essere se stesso, il generale Tito si lascerà morire.
Un libro quello di Ivana Tomasetti che merita la lettura, è un libro che fa riflettere e fa vibrare tutte le corde dei sentimenti del lettore.
Un grande plauso all’autrice!
Citazioni
tratte dal libro:
Le
idee sono quelle che muovono il mondo, ricordatelo!
-Perché
gli uomini hanno sempre il desiderio di qualcosa che non conoscono?
Perché vanno alla ricerca di qualcosa che non sanno cosa sia? Quali
motivi li spingono a farlo? E’ così forte il potere della nostra
mente?
Era
convinto che i ragazzi imparassero la falsità del mondo degli
adulti, diventando lo specchio dei loro genitori. Assorbivano i
difetti e mostravano i pregi imitandoli dalla realtà che li
circondava.
“Non
pensi a farti una famiglia, ad avere un marito, dei figli…” La
guardò negli occhi, ma lei distolse lo sguardo.
“Lo pensavo quando sono arrivata, quando amavo João, ma lui mi ha tradita, non ho più fiducia negli uomini. L’ho visto con un’altra poco tempo dopo che ci eravamo messi insieme, non c’è da credere a quello che dicono. Una donna ama e basta, un uomo si diverte.”
“Lo pensavo quando sono arrivata, quando amavo João, ma lui mi ha tradita, non ho più fiducia negli uomini. L’ho visto con un’altra poco tempo dopo che ci eravamo messi insieme, non c’è da credere a quello che dicono. Una donna ama e basta, un uomo si diverte.”
L’amore
era anche questo. Seguire una strada lontana dall’interesse del
momento, vincere il sentimento per raggiungerne un altro, più alto e
sottile, dentro un amore più completo, grande e necessario per far
vivere gli altri. Un sacrificio.
“La
vita o la morte per una cosa da niente.”
“E’ questa la libertà: una cosa da niente finché ce l’hai, dopo diventa la differenza tra la vita e la morte.”
“E’ questa la libertà: una cosa da niente finché ce l’hai, dopo diventa la differenza tra la vita e la morte.”
Era
difficile restare in equilibrio sul baratro e non precipitare.
Katia
Ciarrocchi
Rossella
tra sogno e realtà -
Graziella
Cappelli - A&A Marzia Carocci - Pagg. 76 - ISBN 9788894387865
- Euro 12,00
Non
è raro non riuscire ad accettarsi per quel che si é, una
insoddisfazione che può rendere anche grigia la vita, ma se si vanno
a cercare i motivi di questo rifiuto (in genere tramite sedute
psicoanalitiche), assai probabilmente si può dare una svolta alla
propria esistenza, prendendo atto dell’interezza e della
complessità della propria personalità. E’ possibile, anche se più
difficile, pervenire allo stesso risultato con una forma di
autoanalisi ed è quello che in effetti fa Graziella
Cappelli con
questo suo racconto lungo intitolato Rossella
tra sogno e realtà.
L’opera, a prima vista, potrebbe sembrare una favola, con la
narratrice che, assunto il nome di Rossella, penetra in uno specchio,
una specie di porta del tempo, per ritrovarsi negli anni
dell’immediato dopoguerra, spettatrice invisibile a tutti tranne a
lei bambina. L’escamotage riesce perfettamente e così possiamo
vedere, in un raffronto ideale, la bimba dell’epoca e la stessa,
più che maggiorenne, dei giorni nostri, con inevitabili positivi
effetti sull’intera narrazione. L’autore ci parla per bocca di
Rossella adulta di un mondo da troppo tempo dimenticato, di un paese
uscito distrutto dalla guerra, della fame che attanaglia la maggior
parte dei suoi abitanti. Ho vissuto quell’epoca e so che Graziella
Cappelli non
inventa niente, perché purtroppo la povertà era diffusa e anche la
miseria, compagna fedele e non certo desiderata di Rossella e
famiglia, non era una condizione sociale rara. Al riguardo, in certe
pagine del libro mi vengono in mente altre di due grandi narratori,
Dickens e Verga, che così bene sono riusciti a parlare della grande
indigenza delle popolazioni della loro epoca. Una madre sfiduciata,
anche un po’ spigolosa, un padre che si danna per trovare occasioni
di lavoro rare e che spesso gli sfuggono, un fratello in collegio e
l’altro più grande in sanatorio a curarsi inutilmente della tisi
che l’ha colpito sono il ritratto di una famiglia che cerca di
sopravvivere con onestà e con dignità, sono il palcoscenico di
quella giovinezza in cui tanto si è patito da lasciare i segni anche
in anni più maturi, quando si ricercano i perché di un passato che
sembra una condanna del presente. Eppure, di fronte a tanto dolore,
non mancano pagine di resurrezione, come quando con l’acclarata
capacità poetica dell’autore ci sono intense descrizioni del
paesaggio toscano, dove si riesce a cogliere il meglio della natura.
Mi
è piaciuto questo racconto lungo, mi sono emozionato leggendo, ho
rivissuto un lontano passato, e di ciò non posso che
ringraziare Graziella
Cappelli per
averlo riesumato con mano leggera, ma anche con intensa
partecipazione. La logica conclusione della storia narrata è il
ritorno ai giorni nostri di una Rossella, che metabolizzando il
trascorso, è ora più consapevole di se stessa, ha compreso che quel
conflitto che tutta la vita si era immaginato era solo una distorta
proiezione della mente, frutto dell’incapacità di accettare quel
lontano passato. Questo ritorno, a mio avviso, però è un po’
troppo affrettato, perché l’autore avrebbe dovuto e potuto
narrarci ancora a lungo, molto di più di queste poche, se pur belle,
76 pagine. Quanto ancora avrei voluto leggere, quanto ancora avrei
voluto così rivedere quegli anni in cui ci mancava tutto, fuorchè
la speranza di un miglioramento! Era un altro modo di vivere, con una
civiltà contadina ancora presente, ma che si sarebbe dissolta
nell’arco di una quindicina di anni; non si aveva quasi niente, ma
c’era una mutualità fra poveri che ora si ignora e che invece
all’epoca era costituita da reciproci, per quanto modesti aiuti,
era quel periodo di cui anni dopo si sarebbe di tanto in tanto
ricordato con la famosa frase “si stava meglio quando si stava
peggio”.
E’
un peccato quindi questo stop a pagina 76 e secondo me Graziella
Cappelli avrebbe dovuto insistere, perché di sicuro c’era molto da
raccontare, tanto da riuscire a mettere nero su bianco un romanzo
piuttosto lungo, e non certo un racconto. Tuttavia la bellezza di
quelle poche pagine è già più che sufficiente per soddisfare il
mio appetito di appassionato di letteratura, tanto più che non mi è
sfuggito un passo in cui si dà una descrizione del tempo veramente
azzeccata, al punto che mi sento di riportarla di seguito: “Il
tempo è un Angelo, con tre facce, una al presente, una al futuro e
una al passato. Sta sempre con noi e ci accompagna sulla via della
vita.”.
Da
leggere? Senza il minimo dubbio, per scoprire un piccolo autentico
gioiello.
Renzo
Montagnoli
Settimane
bianche e crociere a costo zero –
Tommaso Mondelli – L’ArgoLibro – Pagg. 144 –
ISBN 9788898558070 – Euro 10,00
L’importanza
della memoria
Se
è inevitabile che nella grande Storia si perdano le piccole storie
degli uomini, è però possibile che queste ultime spesso riescano a
emergere in virtù di quell’innato desiderio umano di raccontare di
sé, degli altri e per gli altri.
È così che si sono salvate dalle nebbie della dimenticanza anonime storie che altrimenti non avremmo mai conosciuto, per il semplice ma pur straordinario fatto che qualcuno abbia deciso di raccontare le proprie o le altrui vicende. La scrittura, in quanto scrigno di una oralità forte ma pur sempre fragile, resta uno strumento fondamentale per preservare e tramandare storie e memorie. Del resto, nemmeno di Ulisse avremmo avuto notizia, se i poemi omerici non fossero stati fissati per iscritto; così come quello della giovanissima Anna Frank sarebbe stato solo uno fra i tanti milioni di nomi finiti purtroppo nelle liste dello sterminio nazista, se lei stessa non avesse scritto il suo celebre diario. E che dire di Emilio Lussu o di Primo Levi, solo per citare a caso due personaggi che ci hanno trasmesso testimonianze fondamentali che leggiamo ancora oggi?
Anche quella di Tommaso Mondelli è una piccola storia, una delle innumerevoli di cui brulica la Storia italiana del Novecento.
È così che si sono salvate dalle nebbie della dimenticanza anonime storie che altrimenti non avremmo mai conosciuto, per il semplice ma pur straordinario fatto che qualcuno abbia deciso di raccontare le proprie o le altrui vicende. La scrittura, in quanto scrigno di una oralità forte ma pur sempre fragile, resta uno strumento fondamentale per preservare e tramandare storie e memorie. Del resto, nemmeno di Ulisse avremmo avuto notizia, se i poemi omerici non fossero stati fissati per iscritto; così come quello della giovanissima Anna Frank sarebbe stato solo uno fra i tanti milioni di nomi finiti purtroppo nelle liste dello sterminio nazista, se lei stessa non avesse scritto il suo celebre diario. E che dire di Emilio Lussu o di Primo Levi, solo per citare a caso due personaggi che ci hanno trasmesso testimonianze fondamentali che leggiamo ancora oggi?
Anche quella di Tommaso Mondelli è una piccola storia, una delle innumerevoli di cui brulica la Storia italiana del Novecento.
Una
storia semplice, di ordinaria quotidianità e, a tratti, di
altrettanta drammaticità nel bel mezzo di quell’immane delirio che
fu il secondo conflitto mondiale. Le pagine di questo libro sono
dense di una narrazione particolareggiata che espone la vicenda
personale del protagonista senza scinderla dai contesti
storico-politici che le fanno da sfondo.
Sono anni non facili quelli nei quali si muove quel giovane uomo, figlio di una Italia contadina e operosa che ascolta alla radio i discorsi di Palazzo Venezia e osserva incuriosita i fasti di un rinnovato impero, sognando di correre anch’essa veloce a bordo di quei treni dalla tanto decantata puntualità. Anni di autarchia, di leggi razziali e del “Taci! Il nemico ti ascolta”, a cui non tarderanno ad aggiungersi le corse ai rifugi antiaerei e il razionamento alimentare, se non la fame più nera. E il conto di una guerra imposta a tutti dalle scellerate decisioni di pochi non si sarebbe di certo esaurito così.
Partito dapprima per l’assolvimento del servizio di leva, Tommaso vedeva nella carriera militare un futuro lavorativo in condizioni di relativa stabilità quale era quella che si respirava nella seconda metà degli anni Trenta; gli eventi però precipitarono nel giro di breve tempo ed egli si ritrovò coinvolto all’improvviso in un gioco più grande di quello inizialmente ipotizzato. Eppure, lui sosteneva di non aver vissuto una vera e propria esperienza bellica, considerati i fronti “tranquilli” ai quali era stato inviato insieme al suo reparto; sembrerebbe così di essere davanti a niente di più di un semplice resoconto di fatti e spostamenti privi d’interesse. Certo, a eccezione del triste spettacolo del giugno 1940 al confine francese, il lettore non troverà descritti in queste pagine cruenti combattimenti fra soldati o massacri di popolazioni inermi; è pur vero, inoltre, che l’autore non ebbe la sventura di marciare sulle gelate steppe in terra di Russia né quella di combattere al sole di El-Alamein dove, si sa, “mancò la fortuna, non il valore”, così come non si trovò a Cefalonia all’indomani di quel fatidico 8 settembre del ’43 che a troppi costò la vita.
Tuttavia, ciò non significa che la storia di Tommaso debba essere considerata poco importante o meno degna di essere raccontata rispetto alle precedenti o a quelle di coloro che furono insigniti di medaglie al valor militare. Si tratta semplicemente di vicende diverse, il cui confronto risulterebbe tanto inutile quanto insensato, accomunate però dal fatto di essere tasselli inseparabili di un unico grande mosaico. C’è tanta drammaticità nella sua vicenda; trovarla non è difficile: basta soffermarsi agli angoli dei toni leggeri e spesso ironici della narrazione che fanno capolino fin dal titolo, riflettendo sulla condizione di soldati mandati allo sbaraglio contro un nemico senza dubbio meglio armato; osservare con occhi attenti le lunghe estenuanti marce consumate tra le strade polverose di stagioni dissestate; ascoltare nel “Va’, pensiero” intonato da un coro di voci in cammino verso ignota destinazione tutta l’incertezza del destino e scorgere la libertà perduta attraverso le sbarre seppur invisibili della prigionia.
Leggendo questo libro, ricco di notizie, aneddoti, citazioni storiche e riflessioni personali sul corso degli eventi, si ha l’impressione di sfogliare un vecchio album fotografico oppure di guardare un lungo filmato d’epoca, proprio come quelli che giravano i cineoperatori militari. Al tempo stesso, neppure i colori sono assenti, dal bianco accecante della neve sui Monti della Luna all’azzurro inebriante del mare di Sicilia, che si accompagnano ai tanti suoni che pervadono il testo, come gli squilli di tromba che scandiscono i ritmi delle giornate in caserma, il verso ribelle dei muli insofferenti al basto o, ancora, il rimbalzare monotono delle palle da tennis sui campi in terra battuta in cima a una collina di Algeri. Anche i giorni del dopoguerra avrebbero avuto i loro suoni e colori, a dispetto del sapore amarissimo del periodo iniziale.
Questa di Tommaso è un’autentica testimonianza di un’epoca, in verità neanche troppo lontana, che contribuisce a sottolineare l’importanza della memoria e il continuo bisogno che di essa abbiamo, soprattutto in una società come la nostra, troppo spesso distratta e sorda agli insegnamenti del tempo. Ricordare non è soltanto importante: è addirittura vitale, poiché senza passato non possiamo guardare al futuro che si costruisce degnamente, giorno per giorno, traendo i giusti insegnamenti alla luce della memoria. Ecco perché, forse, non è sbagliato parlare di un dovere della memoria che ricada specularmente su vecchie e nuove generazioni: le prime devono ricordare, le seconde non dimenticare. È l’unico modo affinché non venga meno la speranza anzitutto in noi stessi, in quanto esseri umani, e nella possibilità di un mondo migliore, dove ciò che d’inumano è stato non accada più.
Classe 1919, Tommaso Mondelli, originario di un piccolo centro del Cilento, in provincia di Salerno, ma residente per decenni in Piemonte, si è spento lo scorso mese di aprile al compimento di ben 101 anni. Uomo di straordinaria cultura e laureatosi tre volte presso l’Ateneo di Torino, ha pubblicato diversi libri a partire dal 2012, in particolare raccolte poetiche. La presente pubblicazione è stata curata dalla sottoscritta che ha avuto il grande piacere e l'onore di conoscere l'autore.
Sono anni non facili quelli nei quali si muove quel giovane uomo, figlio di una Italia contadina e operosa che ascolta alla radio i discorsi di Palazzo Venezia e osserva incuriosita i fasti di un rinnovato impero, sognando di correre anch’essa veloce a bordo di quei treni dalla tanto decantata puntualità. Anni di autarchia, di leggi razziali e del “Taci! Il nemico ti ascolta”, a cui non tarderanno ad aggiungersi le corse ai rifugi antiaerei e il razionamento alimentare, se non la fame più nera. E il conto di una guerra imposta a tutti dalle scellerate decisioni di pochi non si sarebbe di certo esaurito così.
Partito dapprima per l’assolvimento del servizio di leva, Tommaso vedeva nella carriera militare un futuro lavorativo in condizioni di relativa stabilità quale era quella che si respirava nella seconda metà degli anni Trenta; gli eventi però precipitarono nel giro di breve tempo ed egli si ritrovò coinvolto all’improvviso in un gioco più grande di quello inizialmente ipotizzato. Eppure, lui sosteneva di non aver vissuto una vera e propria esperienza bellica, considerati i fronti “tranquilli” ai quali era stato inviato insieme al suo reparto; sembrerebbe così di essere davanti a niente di più di un semplice resoconto di fatti e spostamenti privi d’interesse. Certo, a eccezione del triste spettacolo del giugno 1940 al confine francese, il lettore non troverà descritti in queste pagine cruenti combattimenti fra soldati o massacri di popolazioni inermi; è pur vero, inoltre, che l’autore non ebbe la sventura di marciare sulle gelate steppe in terra di Russia né quella di combattere al sole di El-Alamein dove, si sa, “mancò la fortuna, non il valore”, così come non si trovò a Cefalonia all’indomani di quel fatidico 8 settembre del ’43 che a troppi costò la vita.
Tuttavia, ciò non significa che la storia di Tommaso debba essere considerata poco importante o meno degna di essere raccontata rispetto alle precedenti o a quelle di coloro che furono insigniti di medaglie al valor militare. Si tratta semplicemente di vicende diverse, il cui confronto risulterebbe tanto inutile quanto insensato, accomunate però dal fatto di essere tasselli inseparabili di un unico grande mosaico. C’è tanta drammaticità nella sua vicenda; trovarla non è difficile: basta soffermarsi agli angoli dei toni leggeri e spesso ironici della narrazione che fanno capolino fin dal titolo, riflettendo sulla condizione di soldati mandati allo sbaraglio contro un nemico senza dubbio meglio armato; osservare con occhi attenti le lunghe estenuanti marce consumate tra le strade polverose di stagioni dissestate; ascoltare nel “Va’, pensiero” intonato da un coro di voci in cammino verso ignota destinazione tutta l’incertezza del destino e scorgere la libertà perduta attraverso le sbarre seppur invisibili della prigionia.
Leggendo questo libro, ricco di notizie, aneddoti, citazioni storiche e riflessioni personali sul corso degli eventi, si ha l’impressione di sfogliare un vecchio album fotografico oppure di guardare un lungo filmato d’epoca, proprio come quelli che giravano i cineoperatori militari. Al tempo stesso, neppure i colori sono assenti, dal bianco accecante della neve sui Monti della Luna all’azzurro inebriante del mare di Sicilia, che si accompagnano ai tanti suoni che pervadono il testo, come gli squilli di tromba che scandiscono i ritmi delle giornate in caserma, il verso ribelle dei muli insofferenti al basto o, ancora, il rimbalzare monotono delle palle da tennis sui campi in terra battuta in cima a una collina di Algeri. Anche i giorni del dopoguerra avrebbero avuto i loro suoni e colori, a dispetto del sapore amarissimo del periodo iniziale.
Questa di Tommaso è un’autentica testimonianza di un’epoca, in verità neanche troppo lontana, che contribuisce a sottolineare l’importanza della memoria e il continuo bisogno che di essa abbiamo, soprattutto in una società come la nostra, troppo spesso distratta e sorda agli insegnamenti del tempo. Ricordare non è soltanto importante: è addirittura vitale, poiché senza passato non possiamo guardare al futuro che si costruisce degnamente, giorno per giorno, traendo i giusti insegnamenti alla luce della memoria. Ecco perché, forse, non è sbagliato parlare di un dovere della memoria che ricada specularmente su vecchie e nuove generazioni: le prime devono ricordare, le seconde non dimenticare. È l’unico modo affinché non venga meno la speranza anzitutto in noi stessi, in quanto esseri umani, e nella possibilità di un mondo migliore, dove ciò che d’inumano è stato non accada più.
Classe 1919, Tommaso Mondelli, originario di un piccolo centro del Cilento, in provincia di Salerno, ma residente per decenni in Piemonte, si è spento lo scorso mese di aprile al compimento di ben 101 anni. Uomo di straordinaria cultura e laureatosi tre volte presso l’Ateneo di Torino, ha pubblicato diversi libri a partire dal 2012, in particolare raccolte poetiche. La presente pubblicazione è stata curata dalla sottoscritta che ha avuto il grande piacere e l'onore di conoscere l'autore.
Laura
Vargiu
Thérèse
Raquin –
Emile Zola – Mondadori – Pagg. 271 – ISBN 9788804700531 –
Euro 9,50
Il
lato oscuro del cuore umano
Quando
“Thérèse Raquin” fece la sua comparsa nelle librerie francesi
sul finire del 1867, negli ambienti letterari si gridò subito allo
scandalo. Tra i critici, ci fu persino chi, oltre a bollarlo
senz’appello come scabroso e indecente, non risparmiò a questo
romanzo poco cortesi paragoni con la fogna e la pornografia. Fu lo
stesso Émile Zola (1840-1902) a sottolineare una simile accoglienza
nella sua prefazione alla seconda edizione del libro, uscita nella
primavera dell’anno successivo, puntando il dito contro l’ipocrisia
benpensante del tempo e precisando quale fosse stato il suo intento:
studiare la natura umana, sotto l’aspetto sia psicologico che
fisiologico, senza preoccuparsi di curare eventuali sconcezze. La
scelta di personaggi dominati dai nervi e trascinati da una carnalità
fatale – come dichiarò l’autore – lo colloca nell’ambito di
un naturalismo ribadito con forza dalla stesura di tante altre opere
successive a questa. Il suo realismo, con cui sottopone ad accurata
osservazione persone e ambienti sociali, risulta tanto schietto
quanto impietoso e allarga ferite spesso già purulente.
Quella di “Thérèse Raquin” è la storia di un tradimento; la trama è in apparenza semplice (lei, lui, l’altro), ma dagli sviluppi però complessi e devastanti che danno vita a pagine intense in cui si riconosce la genuina maestria e il fascino della penna dei grandi narratori dell’Ottocento.
Come la più famosa Emma Bovary una decina d’anni prima, anche la Raquin attraverso l’adulterio tenta di sottrarsi a qualcosa, nello specifico a un ambiente familiare simile a una sorta di prigione per lei che ha sempre obbedito senza mai opporsi alle decisioni della zia, la merciaia madame Raquin. A differenza del personaggio di Flaubert, però, quello di Zola non sembra essere mosso dalla brama di lussi né da deliri o capricci romantici in netto stridore con la monotonia della vita di provincia. Cresciuta accanto al sempre malaticcio cugino Camille, a causa dell’educazione che le è stata impartita, Thérèse ha represso un’indole nervosa e una vitalità che ardono sotto la cenere di un silenzio apatico e pesante, troppo pesante per una ragazza dall’agilità felina e in preda a una voglia selvaggia di correre e urlare.
“Sa tante lui avait répété si souvent: «Ne fais pas de bruit, reste tranquille», qu’elle tenait soigneusement cachées, au fond d’elle, toutes les fogues de sa nature. Elle possédait un sang-froid suprême, une apparente tranquillité qui cachait des emportements terribles.” *
Il matrimonio con Camille è stato voluto dalla zia, mossa dalla premura di lasciare un giorno il gracile figliolo alle cure di una fidata moglie-infermiera; pertanto, il tradimento di Thérèse viene commesso sia nei confronti di quel marito insulso e sessualmente poco appetibile, che puzzava di malattia e abbracciava in modo pressoché identico la madre e la cugina, sia verso l’anziana madame Raquin, che da “ses enfants” conta addirittura di avere nipoti. L’adulterio al centro della narrazione ha così per la giovane donna il sapore di una sorta di riscatto dalla vita grama fin lì condotta, mentre la pura casualità le offre come amante il vigoroso Laurent, impiegatuccio e artista fallito, nonché conoscenza di lunga data di Camille. Con le sue aspirazioni da parassita, l’uomo mira a divenire, al tempo stesso, amante della moglie, amico del marito tradito e, cosa non trascurabile per uno scapolo costretto ad accontentarsi d’insufficienti pasti da quattro soldi, quasi un secondo figlio oggetto di amorevoli cure da parte della vecchia madre. Casa Raquin, dunque, come rifugio ideale per evitare la noia di serate altrimenti solitarie e appagare appetiti sessuali senza dover ricorrere ad amanti costose; seppure non bella, come viene percepita all’inizio, Thérese appare inoffensiva e dotata di carattere remissivo. Tuttavia, gli ingenui progetti del seduttore non hanno fatto i conti con l’impeto erotico di una donna che avrebbe finito per renderlo ebbro e dipendente da una carnalità che di colpo sulla scena irrompe inaspettata, potente, destabilizzante. E a quel punto la vedovanza di lei sarebbe stata considerata, da entrambi, di gran lunga preferibile a qualsiasi ripiego clandestino. La sorte di Camille, in verità, risulta segnata fin dal primo brutale contatto tra i due.
“[…] A partir de ce jour, Thérese entra dans sa vie. Il ne l’acceptait pas encore, mais il la subissait. Il avait des heures d’effroi, des moments de prudence, et, en somme, cette liaison le secouait désagréablement; mais ses peurs, ses malaises tombaient devant ses désirs. Les rendez-vous se suivirent, se multiplièrent.
Thérese n’avait pas de ces doutes. Elle se livrait sans ménagements, allant droit où la poussait sa passion. Cette femme, que les circonstances avaient pliée et qui se redressait enfin, mettait à nu son être entier, expliquant sa vie. […]”
Non stupiscono le dettagliate descrizioni per quanto riguarda le reazioni fisiche e mentali dei due amanti, soprattutto quando il tumultuoso orgasmo della loro passione s’è ormai concluso dopo aver raggiunto il culmine con l’assassinio di Camille durante una gita domenicale lungo la Senna. L’annegato, infatti, non li abbandonerà più e, paradossalmente, resterà in mezzo a loro più da morto che da vivo. Da allora, le notti insonni, le crisi di terrore, le allucinazioni, le reciproche recriminazioni, i litigi furibondi con tanto di percosse ai danni di Thérèse rendono il nuovo ménage, un tempo così agognato, soltanto uno squallido inferno dal quale non esiste possibilità di fuga, sotto lo sguardo muto e implacabile della vecchia madame Raquin, divenuta nel frattempo paralitica, e sullo sfondo di una Parigi fin dal principio lugubre e tetra che, ben lontana dai celebrati fasti di Ville Lumière, sembra farsi essa stessa una enorme e ineludibile Morgue che inghiotte tutti.
Quella di Zola si rivela una prosa sapiente e geniale, godibilissima anche in lingua originale, che riesce a catturare il lettore d’ogni tempo. Fin dal primo capitolo, non a caso, essa trasmette un senso di vaga inquietudine che emerge non soltanto dalla minuziosa descrizione di quello che farà da sfondo alla terribile vicenda narrata, il passaggio del Pont-Neuf con le sue “boutiques obscures”, ma anche dall’immagine stessa della protagonista, ferma alla finestra e assorta a fissare in silenzio il grande muro nero sopra la galleria, prima di mettersi a letto nella più sdegnosa e sinistra indifferenza.
Leggendo “Thérèse Raquin”, ci si accorgerà che non si tratta di un romanzo osceno, come qualcuno insinuò all’uscita del romanzo; al di là dell’adulterio e dell’omicidio, la complessità delle sue pagine lo rende anzitutto un viaggio nel male, in quel lato oscuro del cuore umano, al quale il finale inatteso e repentino può concedere forse pietà, ma non redenzione.
* Le citazioni sono tratte da Émile Zola, “Thérese Raquin”, préface de Robert Abirached, Gallimard, 1999.
Quella di “Thérèse Raquin” è la storia di un tradimento; la trama è in apparenza semplice (lei, lui, l’altro), ma dagli sviluppi però complessi e devastanti che danno vita a pagine intense in cui si riconosce la genuina maestria e il fascino della penna dei grandi narratori dell’Ottocento.
Come la più famosa Emma Bovary una decina d’anni prima, anche la Raquin attraverso l’adulterio tenta di sottrarsi a qualcosa, nello specifico a un ambiente familiare simile a una sorta di prigione per lei che ha sempre obbedito senza mai opporsi alle decisioni della zia, la merciaia madame Raquin. A differenza del personaggio di Flaubert, però, quello di Zola non sembra essere mosso dalla brama di lussi né da deliri o capricci romantici in netto stridore con la monotonia della vita di provincia. Cresciuta accanto al sempre malaticcio cugino Camille, a causa dell’educazione che le è stata impartita, Thérèse ha represso un’indole nervosa e una vitalità che ardono sotto la cenere di un silenzio apatico e pesante, troppo pesante per una ragazza dall’agilità felina e in preda a una voglia selvaggia di correre e urlare.
“Sa tante lui avait répété si souvent: «Ne fais pas de bruit, reste tranquille», qu’elle tenait soigneusement cachées, au fond d’elle, toutes les fogues de sa nature. Elle possédait un sang-froid suprême, une apparente tranquillité qui cachait des emportements terribles.” *
Il matrimonio con Camille è stato voluto dalla zia, mossa dalla premura di lasciare un giorno il gracile figliolo alle cure di una fidata moglie-infermiera; pertanto, il tradimento di Thérèse viene commesso sia nei confronti di quel marito insulso e sessualmente poco appetibile, che puzzava di malattia e abbracciava in modo pressoché identico la madre e la cugina, sia verso l’anziana madame Raquin, che da “ses enfants” conta addirittura di avere nipoti. L’adulterio al centro della narrazione ha così per la giovane donna il sapore di una sorta di riscatto dalla vita grama fin lì condotta, mentre la pura casualità le offre come amante il vigoroso Laurent, impiegatuccio e artista fallito, nonché conoscenza di lunga data di Camille. Con le sue aspirazioni da parassita, l’uomo mira a divenire, al tempo stesso, amante della moglie, amico del marito tradito e, cosa non trascurabile per uno scapolo costretto ad accontentarsi d’insufficienti pasti da quattro soldi, quasi un secondo figlio oggetto di amorevoli cure da parte della vecchia madre. Casa Raquin, dunque, come rifugio ideale per evitare la noia di serate altrimenti solitarie e appagare appetiti sessuali senza dover ricorrere ad amanti costose; seppure non bella, come viene percepita all’inizio, Thérese appare inoffensiva e dotata di carattere remissivo. Tuttavia, gli ingenui progetti del seduttore non hanno fatto i conti con l’impeto erotico di una donna che avrebbe finito per renderlo ebbro e dipendente da una carnalità che di colpo sulla scena irrompe inaspettata, potente, destabilizzante. E a quel punto la vedovanza di lei sarebbe stata considerata, da entrambi, di gran lunga preferibile a qualsiasi ripiego clandestino. La sorte di Camille, in verità, risulta segnata fin dal primo brutale contatto tra i due.
“[…] A partir de ce jour, Thérese entra dans sa vie. Il ne l’acceptait pas encore, mais il la subissait. Il avait des heures d’effroi, des moments de prudence, et, en somme, cette liaison le secouait désagréablement; mais ses peurs, ses malaises tombaient devant ses désirs. Les rendez-vous se suivirent, se multiplièrent.
Thérese n’avait pas de ces doutes. Elle se livrait sans ménagements, allant droit où la poussait sa passion. Cette femme, que les circonstances avaient pliée et qui se redressait enfin, mettait à nu son être entier, expliquant sa vie. […]”
Non stupiscono le dettagliate descrizioni per quanto riguarda le reazioni fisiche e mentali dei due amanti, soprattutto quando il tumultuoso orgasmo della loro passione s’è ormai concluso dopo aver raggiunto il culmine con l’assassinio di Camille durante una gita domenicale lungo la Senna. L’annegato, infatti, non li abbandonerà più e, paradossalmente, resterà in mezzo a loro più da morto che da vivo. Da allora, le notti insonni, le crisi di terrore, le allucinazioni, le reciproche recriminazioni, i litigi furibondi con tanto di percosse ai danni di Thérèse rendono il nuovo ménage, un tempo così agognato, soltanto uno squallido inferno dal quale non esiste possibilità di fuga, sotto lo sguardo muto e implacabile della vecchia madame Raquin, divenuta nel frattempo paralitica, e sullo sfondo di una Parigi fin dal principio lugubre e tetra che, ben lontana dai celebrati fasti di Ville Lumière, sembra farsi essa stessa una enorme e ineludibile Morgue che inghiotte tutti.
Quella di Zola si rivela una prosa sapiente e geniale, godibilissima anche in lingua originale, che riesce a catturare il lettore d’ogni tempo. Fin dal primo capitolo, non a caso, essa trasmette un senso di vaga inquietudine che emerge non soltanto dalla minuziosa descrizione di quello che farà da sfondo alla terribile vicenda narrata, il passaggio del Pont-Neuf con le sue “boutiques obscures”, ma anche dall’immagine stessa della protagonista, ferma alla finestra e assorta a fissare in silenzio il grande muro nero sopra la galleria, prima di mettersi a letto nella più sdegnosa e sinistra indifferenza.
Leggendo “Thérèse Raquin”, ci si accorgerà che non si tratta di un romanzo osceno, come qualcuno insinuò all’uscita del romanzo; al di là dell’adulterio e dell’omicidio, la complessità delle sue pagine lo rende anzitutto un viaggio nel male, in quel lato oscuro del cuore umano, al quale il finale inatteso e repentino può concedere forse pietà, ma non redenzione.
* Le citazioni sono tratte da Émile Zola, “Thérese Raquin”, préface de Robert Abirached, Gallimard, 1999.
Laura
Vargiu
Una
saga veneziana -
Marco Salvador - Biblioteca dell’immagine -
Pagg.
327 - ISBN 9788863912913 - Euro 15,00
Le
radici
Non
so se ho letto tutti i romanzi che ha scritto Marco Salvador, quel
che è certo è che quelli che sono passati per le mie mani sono
tanti e il fatto che il loro numero sia di tutto rilievo è sintomo
del fatto che mi sono piaciuti. E’ vero, tranne in un caso o due,
che si tratta di romanzi storici, genere letterario a me
particolarmente gradito, ma resta il fatto che mi sono sempre trovato
di fronte a opere confezionate con rigore storico e abilità
letteraria, alla base di trame che a definire avvincenti può
apparire riduttivo. Dal ciclo dei Longobardi, che mi ha fatto
conoscere questa popolazione germanica molto di più delle
striminzite notizie dell’insegnamento scolastico, passando per i
romanzi sui da Romano, capaci di mostrare una realtà storica che va
ben oltre la fama del capostipite Ezzelino, e infine per giungere
alla vicenda della transgender Rolandina, che non è scritta per
richiamare istinti morbosi, ma per descrivere con pietà la triste
vicenda di un diverso, il percorso letterario di Marco Salvador è
una progressione di trame, sempre basate su fatti veri e
rigorosamente documentati.
Posso
solo ipotizzare che Una
saga veneziana sia
frutto di ricerche approfondite effettuate a Venezia per conoscere un
po’ l’origine della famiglia dell’autore; infatti, nel libro si
parla di un Salvatore, mercante fiorentino, che si rifugia a Venezia
nel primi decenni del XIV secolo, e darà vita a una famiglia (una
vera e propria dinastia) di commercianti e di armatori. In tempi
piuttosto rapidi ci sarà l’arricchimento di questa famiglia, il
cui cognome, per adattamento al dialetto veneziano, che era la lingua
della Serenissima, diventerà Salvador. Questo ceppo conoscerà le
alterne fortune della vita, ma diventerà un riferimento nella
Repubblica, imparentandosi con le maggiori famiglie patrizie. Gli
anni, anzi i secoli passano, con un numero di personaggi che si
affacciano sulla scena e che poi scompaiono, uomini e donne non
scevri da difetti, ma con pregi che li caratterizzano e che
soprattutto si traducono nella difesa del buon nome della famiglia.
Troviamo, mercanti, ma anche armatori, uno addirittura ammiraglio
dell’Arsenale, perfino un console a Palermo, tutti discendenti da
quel Salvatore che trovò a Venezia una seconda patria, dopo la sua
fuga da Firenze per motivi oscuri che diventeranno chiari alla sua
morte.
La
mano dell’autore, come al solito, è felice, nel senso che non
trascende mai, mantenendo un tono moderatamente distaccato, tanto più
apprezzabile in questa circostanza, visto che parla dei suoi avi.
Certo Salvatore, Marco, Daniele, tanto per citare solo alcuni degli
antenati, non hanno la fama di altri personaggi dei romanzi di
Salvador, come Guido da Romano, o Rotari il longobardo, ma hanno una
loro forza, un loro vigore, che è quello di una borghesia che
reclama il suo posto dell’assetto sociale; a loro modo sono anche
degli eroi, che non conquistano territori, ma ruoli sempre più di
rilievo in una società come quella della Repubblica in cui avevano
voce quasi esclusivamente i nobili.
Ho
accennato prima al rigore con cui l’autore ha condotto le ricerche
storiche, rigore che è testimoniato dai Regesti
di una famiglia cittadinesca veneziana tra il XIV e il XVI
secolo riportati
al termine dell’opera e che hanno costituito la base della stessa.
Il
romanzo è indubbiamente interessante e pertanto meritevole di
lettura, spiace solo che ci si fermi al XVI secolo, tanto che viene
da chiedersi: e dopo?
Chissà
che Salvador abbia pensato anche a questo dopo e
questo è il mio augurio, ma anche la richiesta che rivolgo
all’autore.
Renzo
Montagnoli