I morti non
dimenticano
di
Renzo Montagnoli
Soffocati
fucilati
inceneriti
dopo
stenti inenarrabili
i
morti non dimenticano.
C’è
una memoria
che
non finisce in nulla
aleggia
lo spirito
di
chi se n’è andato.
Gli
altri
i
vivi
vanno
avanti
e
ogni istante passato
il
ricordo s’appanna
fino
a che resta
una
vaga notizia
-Chissà
se è vera? -
si
chiede più dì uno
Ma
i morti non dimenticano.
Quei
poveri corpi disfatti
ancora
urlano
il
loro silenzio
affinché
non
diventi anche il nostro.
Da La
pietà
Buchenwald (il
bosco dei faggi)
di
Tiziana Monari
Ci fa male la
vita qui a Buchenwald, umili figure cenciose accarezzate dal buio
vergognosi della fame,
delle miserie dell’anima
il dolore del
cuore che si fonde con quello del corpo straziato
la mente che
si frantuma come pietra sbriciolata
erranti nel groviglio di
un io che non è più
dormiamo ammucchiati
nella neve qui a Buchenwald oltre il recinto di filo spinato
i calci dei
fucili che penetrano la pelle come vomeri d’aratro
e accanto al faggio,il
camino, che vomita vampe rosse verso il cielo
il denso fumo della nera
signora
le scarpe hanno i lacci
di filo di ferro qui a Buchenwald , le suole di legno
la mitraglia sporge
oltre il parapetto
ed i carnefici sono
inclini alla pinguedine, le guance flosce
gli occhi sgranati di
odio dentro le montature nere degli occhiali
e così stanchi,
affamati, senza tregua, l’orecchio teso da animali atterriti
le strisce rosse delle
torture che si allargano, si gonfiamo
si spaccano nel sangue
che scorre
aspettiamo l’appello
della sera,poi la notte, tristi carovane senza stelle
in queste macerie di
mondo sconvolto .
Non cantano gli usignoli
qui a Buchenwald
ed i
sogni non hanno il colore dell’elicriso
la morte è un rullo di
tamburo e la vita ha un lungo profilo nel suo lento passare
qui tra l’orrore e le
ombre di Buchenwald.
I tedeschi nascondono ancora le colpe
di Ferdinando Camon
"L'Arena" 1 maggio 2014
Berlusconi ha detto: “I tedeschi negano l’esistenza dei campi di sterminio”- Sbaglia. Ma dire: “I tedeschi hanno negato a lungo le loro colpe” non è sbagliato. Hanno avuto un problema, con lo Sterminio. Un problema storico (“Come possiamo ammetterlo?”), un problema didattico (“Come possiamo raccontarlo ai nostri figli?”), un problema giuridico (“Come possiamo fare giustizia?”). Quest’ultimo problema riguarda anche i veneti e i veronesi, l’area veronese che sta oltre Legnago, nel peasino di Bevilacqua, che ha uno stupendo castello medievale, quadrato, di color rosso. Lì c’era un comando tedesco. Un altro comando stava a Este, sui Colli Euganei. Cos’hanno fatto i tedeschi di Este e Bevilacqua non si è mai saputo con chiarezza, perché da parte nostra non s’indagava e da parte tedesca si nascondeva. Sul finire della guerra avevo 10 anni, vedevo e non dimenticavo. Più tardi ho messo quelle storie (incendi, impiccagioni, torture) nei miei primi romanzi, e quando questi han cominciato a girare nei paesi stranieri in traduzione, sono stato attento a come li accoglieva la Germania, quali reazioni suscitavano sui giornali, sui lettori, nelle scuole. È per questo che ne parlo qui.
A Bevilacqua, nel castello, hanno torturato con le scosse elettriche e con gli aghi sotto le unghie; sul ponte hanno impiccato un ragazzo di 20 anni, mio parente; c’è un cippo sul ponte, in suo onore, e poiché il guard rail nasconde la scritta e il nome della vittima, ho scritto al sindaco: “Tagli il guard rail per un metro o due, o alzi il cippo”, lui ha alzato il cippo: non so chi sia quel sindaco ma qui lo ringrazio; nei paesi dei Colli Euganei i tedeschi facevano una strage ogni settimana, noi credevamo che il totale dei morti fosse una trentina, poi lo storico Francesco Selmin ha indagato e ha scoperto che sono circa 150. Avevo messo le fucilazioni e le impiccagioni nei miei primi libri, e quando questi libri giravano tradotti in Germania, un gruppo di magistrati tedeschi (onore a loro) si chiese: “Ma cosa racconta questo scrittore italiano? Sono storie vere?”. Scendono a Bevilacqua ed Este per raccogliere testimonianze. A Legnago c’è la fabbrica Riello, m’invita a un incontro con i lavoratori, ci vado, rievoco questi ricordi, si alza una signora e dice: “Sono un’insegnante di tedesco, facevo da interprete a quei magistrati, ma gli abitanti dei paesi veneti non volevano rispondere”. Chi non capisce questo, non capisce i veneti, la Lega, la secessione. Non hanno nessuna fiducia nello Stato, in nessuno Stato. Pensano che non avranno mai giustizia. E infatti… In Germania preparano il processo contro il comandante tedesco di Este, che si chiamava Lembcke. Con mio orgoglio, i miei libri sono prove a carico. L’accusa da parte italiana era sostenuta da un avvocato veronese che era, se non ricordo male, Guariente Guarienti. Questo avvocato mi ha chiesto di specificargli che cosa nei miei libri fosse storico e che cosa fosse fantastico. La notte prima della prima udienza il comandante Lembcke è nel suo salottino, con sul tavolo i documenti a carico tra cui i miei libri, e ha un infarto. Lo portano in ospedale e dopo una settimana muore. Per megalomania, per sete non-cristiana di vendetta, ho spesso immaginato quel mio primo libro come un colpo di fucile sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore (l’infarto) un nemico della mia gente. Passano gli anni e quei libri vengono adottati per un corso di Letteratura Italiana da una docente dell’università di Potsdam, Isabella von Treskow. I suoi studenti restano sbalorditi nel leggere le stragi tedesche nel Veneto padovano-veronese, vogliono saperne di più, cercano negli archivi dell’esercito e della magistratura, ma non trovano niente, perché? Perché, mi spiega Isabella, la Germania ha varato una legge, in base alla quale se un cittadino tedesco viene accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima che il processo sia giunto a sentenza, ha questo diritto: non che le prove siano archiviate, ma che siano distrutte. È la cancellazione della storia. Ecco come i tedeschi si liberano del proprio passato: annullandolo, come mai esistito. Sì, Berlusconi ha sbagliato, la sua frase non regge. Ma non ditemi che i tedeschi hanno una gran voglia di riconoscere le colpe, far giustizia, espiarle. Noi sappiamo che non è vero.
Lui passerà per il camino
di Renzo Montagnoli
Fu un inverno freddo quello del 1944 e con tanta,
troppa neve. Quando la guerra sembrava concludersi da un momento all’altro, il
proclama di Alexander rivolto ai partigiani
affinché sospendessero le ostilità raggelò tutti: gli italiani,
inermi, privi di tutto, sfibrati dai bombardamenti alleati e che sopravvivevano
solo nell’attesa della liberazione, nonché gli stessi coraggiosi che da un anno
combattevano, con enormi sacrifici, sia in montagna che in pianura, contro i
nazifascisti.
Questi ultimi, ormai consapevoli dell’esito della
guerra, intensificarono invece le ostilità, con una brutalità senza precedenti
di cui furono vittime sia gli uomini della resistenza che la popolazione
civile. Fu intensificata, fra l’altro, la caccia agli ebrei, con esiti raccapriccianti
e di uno di questi il paese serba ancor oggi, commosso, il ricordo.
Agli inizi di dicembre la città e tutta la provincia
furono oggetto di una retata capillare, a cui parteciparono sia le
famigerate SS che le non meno odiate Camicie Nere.
Ben pochi israeliti riuscirono a sfuggire, o perché
avvisati in tempo da qualche doppiogiochista che già allora cercava di
assicurarsi il futuro, oppure per pura casualità, come avvenne per Isaia Forni,
un bimbo di appena sei anni.
Quando la marmaglia sfondò la porta di casa e
catturò i suoi genitori, lui si trovava da una vicina, una signora anziana che
voleva fargli vedere il suo gattino. La donna, nonostante il pericolo, lo tenne
con sé qualche giorno fino a quando, a una parente che le fece visita,
propose di portarlo con lei in campagna, in un posto ritenuto più sicuro.
Fu così, che una settimana prima del Natale, Isaia
Forni arrivò in paese e, poiché le sfortune spesso si sommano, subito nel
pomeriggio perse la sua accompagnatrice, mitragliata da un aereo alleato
mentre in bicicletta percorreva l’argine diretta a una fattoria per vedere
di poter avere un po’ di latte.
Della presenza del piccolo era già stato informato
il parroco, Don Zeffirino. Appresa la tragica notizia della scomparsa della
signora, se lo portò in canonica e decise di tenerlo lì, nonostante fosse un
giudeo, ma come ebbe a dire una volta, finita la guerra, davanti a Dio non ci
sono cristiani o mussulmani, o ebrei, ma solo uomini, e nel caso specifico un
bambino innocente, già duramente provato per la perdita dei suoi genitori.
Se lo coccolava con gli occhi, si divertiva a
guardare il suo stupore quando lo portava in chiesa, provava una
gioia immensa nel sentirsi il suo protettore e già sognava di renderlo
partecipe della messa di mezzanotte, non per farne un cristiano, ma perché
vedeva in lui, con tutte le sue sofferenze, l’immagine di Cristo.
Per quanto questa
ospitalità fosse mantenuta il più possibile segreta, arrivò alle
orecchie di qualcuno e così, l’antivigilia, una squadraccia fascista bussò con
i soliti modi alla porta della canonica.
Don Zeffirino, sempre sul chi vive, li aveva visti
arrivare e aveva nascosto prudentemente il bimbo nel confessionale.
- Sappiamo che c’è un piccolo ebreo e in base alle
leggi sovrane della Repubblica Sociale Italiana dovete consegnarcelo.
Don Zeffirino guardò il capo manipolo con occhi
stupiti e rispose: - Non c’è nessun ebreo, in questa canonica.
- C’è, ne siamo sicuri e se non è in canonica, è
nascosto in chiesa. O ce loconsegnate, o andiamo a prenderlo.
- Vi assicuro che vi sbagliate e se vi azzardate a
fare un altro passo, o a mettere i piedi in chiesa con queste armi spianate,
dovrete passare sul mio corpo.
- Va bene, prendiamo atto delle vostre dichiarazioni
e non vogliamo inimicarci anche il Padreterno. Adesso usciamo, ma chi ritornerà
non avrà così tanti riguardi.
Girarono i tacchi e se andarono.
Don Zeffirino si accorse solo allora di quanto
sudasse, nonostante il freddo. Era riuscito a parare il primo colpo, ma sapeva
bene che il secondo, qualora al posto delle camicie nere fossero arrivati gli
uomini delle SS, sarebbe stato fatale.
Fu così che andò a prendere il bimbo e lo portò,
quasi nascondendolo sotto la tonaca, dalla Tilde, la moglie di
Annibale Chiocchetti che solo più tardi sarebbe stato conosciuto con
il soprannome di Guercio e che all’epoca era da qualche parte,
sugli Appennini, con i partigiani.
- Tilde cara, ti chiedo un gran piacere: puoi tenere
questo bambino per un po’, non tanto, finché si calmano le acque.
- Come è bello, Don Zeffirino: ha gli occhi
neri, vivi, ma velati di tristezza. E’ rimasto orfano?
- Forse sì.
- In che senso?
E allora il prete raccontò tutta la storia.
- Può restare quanto vuole, come se fosse un altro
mio figlio, e anzi può giocare con Giacomo, tanto dovrebbero avere più o meno
la stessa età. - E dicendo così, nell’accarezzare i capelli di Isaia, rivolse
uno sguardo dolce a quel figlio, avuto immediatamente prima della guerra e che
così poco aveva conosciuto il suo papà.
- Mi raccomando solo una cosa: nessuno deve sapere
che c’è.
- Naturalmente.
Come preavvisato dai fascisti, il giorno dopo
arrivarono, su una macchina nera due loschi figuri, lugubri e laidi
nell’aspetto, che si qualificarono come membri della Gestapo e che
senza chiedere tanti permessi cercarono in ogni dove, nella canonica e in
chiesa, e che se andarono sbattendo la porta.
I due bimbi fecero subito amicizia e poiché Giacomo
aveva acquisito dalla madre una fervente religiosità, il giorno della Vigilia
si mise a fare il presepe.
Isaia lo guardava e presto cominciò a incuriosirsi e
chiese di partecipare a quello che credeva un gioco.
Giacomo, con la naturalezza tipica dei bimbi, gli
spiegò che era quasi un rito religioso e Isaia si mostrò ulteriormente
interessato.
- Chi è quel bambino che metti nella mangiatoia?
- Gesù.
- E chi è Gesù.
- Era un bambino come noi, ma poi diventò grande,
tanto grande, al punto che quando parlava tutta la gente l’ascoltava e lo
seguiva nel suo girovagare.
- Che diceva?
- Diceva di essere il figlio di Dio e che era venuto
sulla terra per redimere gli uomini, per farli diventare tutti buoni e bravi, e
inoltre diceva che siamo tutti fratelli.
- Era grande sì, quasi come il mio papà.
- Anche quasi come il mio, ma di più, perché lui è
il papà di tutti.
- E’ vissuto tanto tempo fa?
- Quasi duemila anni fa.
- Tanto, e lo si ricorda sempre così, come
un bambino?
- No, anche come un uomo adulto inchiodato a una
croce.
- Ah, sì, quando l’uomo con il vestito lungo nero mi
ha nascosto in una specie di casetta c’era un uomo grande, mezzo nudo, appeso a
due assi incrociate e con una corona di spine in testa.
- Quello è Gesù.
- Ma perché ricordarlo così?
- Perché lui si è fatto giustiziare per salvarci
tutti.
- Che buono che doveva essere! E chi è stato così
cattivo con lui?
Giacomo rimase assorto, non sapendo che rispondere,
nel timore di offendere il suo piccolo amico e poi sbottò:
- Quelli che non erano cristiani come lui.
- Dovevano essere proprio cattivi per fare una cosa
simile.
- Sì, ma l’hanno fatto per ignoranza.
- Povero Gesù, trattato male come noi ebrei.
Il Natale trascorse abbastanza tranquillo e perfino
Pippo, l’aereo da bombardamento che assillava le notti della gente, se ne
stette un po’ alla larga.
Poi venne Santo Stefano e la Tilde e Don
Zeffirino cominciarono a pensare che Isaia era finalmente al sicuro,
ma l’ultimo giorno dell’anno la Gestapo ritornò e andò a colpo
sicuro.
Quando bussarono pesantemente alla porta, la
Tilde sentì una fitta al cuore e capì che era finita.
Aprì tremando e i due corvacci in nero
entrarono senza presentarsi.
- C’è un bambino ebreo e noi lo vogliamo.
- Non ci sono bambini ebrei.
- Noi vediamo due bambini e siamo sicuri che uno è
ebreo e che si chiama Isaia Forni.
- No, c’è solo mio figlio Giacomo e suo cugino
Ettore, che ha perso i genitori e la casa in un bombardamento.
- Siamo stati anche troppo pazienti, ma tutto ha un
limite. Ripeto: vogliamo, e subito, l’ebreo!
- Quale ebreo?
Per tutta risposta, la Tilde si prese un
ceffone che la fece cadere a terra mentre i due piccoli cominciavano
a piangere.
- Non lo ripeto più: quale è l’ebreo?
Non ci furono risposte.
- Va bene! Facciamo così: li porto via tutti e due.
- No, vi prego no, se avete un cuore, se anche voi
avete dei figli, non fate una cosa del genere.
- L’ebreo, o li porto via entrambi.
Fu allora che, con il capo chino, Isaia si fece
avanti e disse, con voce tremante: - Sono io, Isaia Forni.
Lo presero e alla domanda della Tilde su dove
l’avrebbero portato, risposero sogghignando:
- Lui passerà per il camino.
Ancora non si sapeva che volesse dire, ma la
Tilde pensò al peggio e guardò per l’ultima volta, con animo
angosciato, quell’esserino che veniva portato via come
fosse un delinquente.
Non fu difficile scoprire chi fosse
stato l’ignobile delatore, anche perchè AldoMarchetti,
soprannominato Gerarchetto, lo stesso che aveva indotto con il suo
comportamento Annibale Chiocchetti a darsi alla macchia, se ne vantò
la sera stessa all’osteria.
La guerra terminò e di Isaia Forni non si ebbero più
notizie, se non dopo un paio d’anni, quando la comunità israelitica lo
rintracciò fra i deceduti del lager di Buchenwald. Don Zeffirino non lo
dimenticò mai e fu sempre presente nelle sue messe dei morti.
Quanto a Gerarchetto, scomparso dalla scena
negli ultimi giorni del conflitto, ricomparve dopo la costituente fra le file
democristiane e fu uno dei primi deputati del neoparlamento, e tutto questo
come se nulla fosse accaduto, come tanti altri, del resto.
Da Storie di Paese
I sommersi e i salvati
di Primo Levi
Prefazione di Tzvetan Todorov
Posftazione di Walter Barberis
In copertina: elaborazione
grafica particolare del ciclo di affreschi di LucaSignorelli,
Cattedrale di Orvieto, Cappella della Madonna di
San Brizio© SandroVannini / Corbis
Edizioni Einaudi
Saggistica storica e antropologica
Collana Super ET
Pagg. XII – 202
ISBN 9788806186524
Prezzo € 11,00
Affinché non si ripeta
«Se comprendere è
impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare,
le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Primo Levi
Quarant’anni dopo
di Se questo è un uomo, Primo Levi torna a scrivere dei Lager, non
con un romanzo, oppure con una puntualizzazione di quella che fu la sua tragica
esperienza di recluso, bensì per effettuare un’attenta e approfondita
analisi del sistema dei campi di concentramento come mezzo per affermare il
potere assoluto, nonché, altro aspetto di rilevante interesse, per evidenziare
i comportamenti degli esseri umani, sia a livello individuale che collettivo,
così come determinato dalla vita non vita del Lager. Il suo
approccio non è per niente enfatico, anzi Levi dimostra una straordinaria
lucidità, come se il tempo trascorso dall’evento di cui è stato vittima avesse
smussato quella carica interiore di rabbia e di dolore; anzi, ritiene opportuno
premettere come la memoria sia sempre fallace e come l’aspetto temporale, cioè
gli anni trascorsi, possano nuocere alla trattazione per involontarie
omissioni, oppure trasgressioni dei fatti accaduti. L’autore è un uomo di
scienza e come tale persegue quotidianamente la ricerca della verità, nel suo
caso tanto più importante non per comprendere, ma per
poter determinare come un orrore simile sia potuto accadere. Non si tratta
solo di un’analisi storica, ma anche di un’indagine antropologica le
cui risultanze non sono fini a se stesse, ma travalicano il fatto, di
per sé un unicum fino ad ora, al fine di conoscere, affinché
non si debba ripetere. In questo modo Levi trova delle risposte che sono
basilari per una corretta interpretazione della storia del secolo scorso e per
una definizione stratigrafica delle caratteristiche individuali e sociali
dell’uomo contemporaneo. Fra l’altro, ho rilevato la straordinaria visione
d’insieme che porta l’autore a proiettare la tragedia dell’olocausto ad
analoghi avvenimenti successivi che hanno interessato popoli che noi europei
ben poco conosciamo, come per esempio la follia omicida del regime
di Pol Pot in Cambogia.
E’ questo il risultato
delle risposte alle domande che consistono essenzialmente in una metodologica
ricerca della verità. Levi si chiede, infatti, quali siano le strutture
gerarchiche su cui basa un regime autoritario, quali sono i metodi per
annichilire un individuo, per distruggere insomma la sua personalità, quali rapporti
intercorrono fra i carnefici e le vittime, come può sussistere una forma di
collaborazione, la cosiddetta zona grigia. Tutto questo costituisce questo
splendido saggio, diviso schematicamente in capitoli che trattano di volta in
volta un argomento, con le inevitabili domande accompagnate da risposte del
tutto logiche, che costituiscono per l’autore non la verità assoluta, ma
un’interpretazione, e in questo credo di poter dire che tuttavia si avvicina di
molto alla realtà oggettiva. Devo pure riconoscere a Levi che già il
titolo del libro ci offre uno spaccato esatto della divisione degli internati
fra quelli inevitabilmente destinati alla morte (lo erano tutti, ma la maggior
parte, annichilita, si lasciava andare, non reagiva), cioè cosiddetti sommersi,
e i salvati, quelli che si arrangiavano, magari con un lavoro particolarmente
richiesto (sarto, ciabattino, muratore, ecc.) e che nonostante tutto cercavano
di porre ostacoli al loro crudele destino di morituri, vale a dire insomma chi
lottava ancora per sopravvivere. A differenza del suo romanzo più famoso (Se
questo è un uomo), anche qui da testimone l’autore va oltre la ristretta
visione del suo essere per giungere a una visione, che potrei dire universale,
dei comportamenti, sia degli internati, che degli aguzzini, in cui cerca di
trovare le attenuanti (l’educazione ricevuta, l’indottrinamento). Ma c’è anche
una terza categoria, fuori dai reticolati, cioè il popolo tedesco,
che è poi la più importante, perché l’aver creduto prima ciecamente a un populista
come Hitler, subendone il fascino, e l’averlo poi assecondato sono
pregiudiziali senza le quali non ci sarebbero state né la guerra, né la Shoah;
e quel che è peggio è il silenzio indifferente dei tanti che pur non
essendo aguzzini, sapevano e tacevano, a loro modo in preda a una sottomissione
della propria personalità a quella artefatta costruita dal nazismo. Per
loro in effetti di scuse non ce ne sono ed è proprio per questo
comportamento, per questa ardente o indifferente assuefazione a un regime,
che la tragedia potrebbe ripetersi, in altre zone, in altre forme,
con vittime diverse.
Levi sembra volerci
ammonire affinché mai e poi mai una collettività, un popolo, affidinoil
loro destino a un potere assoluto, con un mandato irrevocabile con cui viene
segnata la sorte non solo dei mandatari, ma soprattutto dei soggetti più
deboli, di coloro che un regime, anche per nascondere le sue incapacità e
scelleratezze, va ad indicare di volta come i responsabili di fallimenti, capri
espiatori dati in pasto alle belve dell’odio e dell’indifferenza.
La lettura non è solo
consigliata, ma è caldamente raccomandata.
Primo Levi (Torino
1919-1987) ha pubblicato presso Einaudi Se questo è un uomo; La
tregua; Storie naturali; Vizio di forma; Il
sistema periodico; La chiave a stella; La ricerca delle
radici. Antologia personale; Lilìt e altri racconti; Se
non ora, quando?; L'altrui mestiere; I sommersi e i
salvati. Sempre da Einaudi sono usciti postumi i due volumi delle Opere; Conversazioni
e interviste (1963-1987);L'ultimo Natale di guerra;L'asimmetria
e la vita. Articoli e saggi 1955-1987;Tutti i racconti,
sempre a cura di MarcoBelpoliti.
Recensione di Renzo Montagnoli