lunedì 14 novembre 2022

Racconti del Natale 2022

 



I Natali di Ermengarda

di Renzo Montagnoli


Era stata la maestra di tutto il paese, aveva insegnato a diverse generazioni, dai primi anni ‘20, turbinosi, con gli scontri di piazza pressochè quotidiani ,agli anni del boom economico. Minuta, non bella, ma dagli occhi vivaci e penetranti, Ermengarda Alberti era per tutti la “maestra”. Non si era mai sposata e lei si riteneva la madre di tutti quei pargoli che si accostavano, timidi e impacciati, alla sua cattedra, che si sporcavano le mani con l’inchiostro, che finivano dietro la lavagna quando facevano arrabbiare. Li raccoglieva come una chioccia sotto le sue ali dalla prima elementare e li portava fino alla quinta, per poi vederli volar via verso studi superiori o verso il mondo del lavoro. Non si risparmiava, viveva per insegnare e insegnava per vivere, contenta quando i suoi allievi suonavano il campanello della sua casetta per porgerle gli auguri di Natale e ancor più felice e commossa quando gli stessi, ormai adulti, si ricordavano appunto della loro maestra durante le feste natalizie o agli inizi dell’anno nuovo. Riceveva questi ultimi come fossero parenti stretti, insisteva per preparare un caffè o perché accettassero una fetta di quella buona torta di more che solo lei sapeva fare. Durante la guerra, quando suonavano le sirene dell’allarme aereo, faceva scendere i suoi piccoli allievi nello scantinato della scuola, li raccoglieva intorno a sé e cercava di lenire la loro più che giustificata paura. E quando qualcuno s’ammalava, andava a trovarlo a casa e, se per mala sorte, moriva si disperava come fosse stata sua madre. L’ho avuta anch’io come insegnante e la ricordo esigente, ma non severa, sempre pronta a spiegare di nuovo se qualcuno non capiva. Al di fuori della scuola, la sua era una vita di solitudine, senza marito, senza genitori, che aveva perso quand’era ancora giovinetta, l’unico svago era la lettura e credo che nella sua non breve vita sia riuscita a leggere tutti i libri della nostra biblioteca. Andata in pensione, rimase per tutti sempre “la maestra”, ma poco a poco le visite degli ex allievi diradarono. I tempi erano cambiati, la televisione, le gite in auto, i locali di ballo, una frenesia che pareva aver colto tutti fece sì che venisse dimenticata. Anch’io la persi di vista, ma un dicembre, era la vigilia di Natale, me ne ricordai, anche perché correvano voci in paese sul suo stato di salute, e l’andai a trovare.

Mi riconobbe subito, ma fui io che ebbi difficoltà nel ritrovare in quel corpo storpiato dall’artrosi, in quelli occhi che erano diventati opachi, la mia cara maestra. Insistette per il caffè e per una fetta della sua torta di more, ma non erano buoni come una volta: il caffè sembrava acqua sporca e il dolce un pasticcio mal riuscito. D’altra parte gli anni c’erano e si vedevano tutti; novanta non sono pochi e poi la malattia faceva il resto. Parlava a fatica, ma a tutti costi volle dirmi come erano sempre stati i suoi Natali. A parte l’uscita per la messa, restava sempre in casa con la speranza che qualche alunno le venisse a far visita, il che quando insegnava capitava sovente, ma dopo quasi mai. Ore e ore a leggere sperando che suonasse il campanello, in preda alla propria solitudine e poi, arrivata a sera, la cena frugale e infine il letto. - Non ho mai chiesto molto alla vita mi disse - ma per me voi eravate come i miei figli e se i figli non fanno visita alla madre almeno il giorno di Natale, mi sento come se la mia vita fosse inutile, come se quell’affetto che vi ho portato per voi non contasse niente.

Poi tacque, si tamponò gli occhi con un fazzoletto, mi diede la mano augurandomi buon Natale e sulla porta, mentre uscivo, sussurrò, tanto che lo percepii appena - Grazie, bimbo mio.

Morì l’anno successivo, in novembre, e al suo funerale c’era tutto il paese, i suoi vecchi allievi che avevo contattato perché quell’anno andassimo a casa sua a farle gli auguri di Natale. L’accompagnammo, invece, nel suo ultimo viaggio, silenziosi, commossi e anche un po’ pentiti per averla così a lungo dimenticata.


Da Storie di paese








Il Natale di Nino

di Giovanna Giordani


Che fosse un bambino a dir poco speciale si era capito fin dai suoi primi anni. Il suo nome era Giovanni, ma per familiari e amici semplicemente e affettuosamente Nino.

Frequentava la terza elementare e aveva imparato a leggere e a scrivere in poco tempo. I suoi genitori ne erano naturalmente molto orgogliosi. Arrivata la vigilia di Natale gli domandarono se avesse delle richieste particolari per Babbo Natale.

Si, rispose prontamente il bimbo, scriverò una letterina. Va bene, risposero mamma e papà, poi andremo ad imbucarla affinché arrivi in tempo.

Nino aveva visto ai telegiornali delle cose che l’avevano colpito parecchio. Persone disperate che venivano dal mare su imbarcazioni traballanti, famiglie con bambini piccoli accampate al freddo e al gelo davanti a un muro di filo spinato che impediva loro di essere ospitati nel paese vicino.

Guardò il presepe che aveva preparato assieme ai suoi genitori. Gesù Bambino nella culla di paglia era seminudo e sorrideva con le sue piccole braccia alzate come volesse offrirsi alle persone che erano venute a vederlo. La Madonna e San Giuseppe erano inginocchiati accanto a lui e pregavano.

E Babbo Natale? Era un pupazzo bello giocoso che stava seduto tranquillo sotto l’albero in attesa di trasformarsi in quello che durante la notte avrebbe portato i doni.

Nino si recò nella sua cameretta, prese un bel foglio bianco e cominciò a scrivere la seguente letterina:

<Caro Babbo Natale, sei lì, vicino alla capanna dove ti sorride Gesù Bambino e io credo che ormai voi due siete diventati amici. Allora questa letterina voglio inviarla a tutti e due.

Ho visto ai telegiornali delle cose che mi hanno fatto piangere. Certa gente che stava per affogare in mare. Bambini che fuggivano dai loro paesi assieme ai loro genitori perché degli uomini cattivi cercavano di fare loro del male. Qui, in città, dove abito io ci sono tante luci, tanti negozi e tanti bambini come me hanno tante cose e tanti giochi, ma aspettano la festa di Natale per riceverne ancora. Allora caro Babbo Natale e caro Gesù Bambino vi prego questa volta di non portarmi regali ma di far giungere i doni destinati a me ai bambini che piangono e di aiutare le loro famiglie a vivere in una casa come la mia. Vi ringrazio e vi mando un bacio, ciao, Nino>

Ciò fatto, il bambino piegò per bene la letterina e, avuta una busta dalla sua mamma, la inserì con determinazione, scrisse l’indirizzo e gliela riconsegnò affinché la imbucasse nella cassetta delle lettere come aveva promesso.

Il giorno di Natale ci fu la risposta. Sotto l’albero, accanto al presepe spiccava una bella busta rossa indirizzata proprio a Nino che l’aprì tutto trepidante e lesse a voce alta quanto stava scritto:

<caro Nino, ci ha fatto molto piacere la tua letterina poiché quello che hai richiesto è più importante di tutti i giocattoli del mondo e, se i nostri collaboratori ci danno una mano, cercheremo di esaudire il tuo desiderio. Ma nel frattempo accetta questo piccolo segno del nostro affetto per te

firmato: Gesù Bambino e Babbo Natale>.

Allora cercò con lo sguardo sotto l’albero e vide un pacchettino con scritto il suo nome. Lo scartò e si trovò fra le mani un bellissimo libro con una copertina dai vivaci colori dove primeggiava a grandi lettere il titolo:

LE PIÙ BELLE STORIE DI NATALE

Nino non stava in sé dalla gioia e mostrò felice ai suoi genitori il bel regalo che gli avevano fatto Gesù Bambino e Babbo Natale. Naturalmente si sarebbe ricordato di quel giorno di Natale come uno dei più belli della sua vita.





La luce

24 dicembre anno zero

di Danila Oppio

  

 Le stelle quella notte, discutevano animatamente su chi dovesse brillare così tanto, da poter segnalare un grande evento che si stava verificando sulla Terra.

Avevano sentito parlottare gli Angeli. Dicevano che sarebbe nato il Figlio di Dio. Un fatto del tutto eccezionale, tanto che scombussolò non solo gli Angeli, ma anche tutti gli astri del cielo.

Alla fine decisero che sarebbe stata Cometa, a tracciare il percorso per i Pastori e i Magi.

-       Vai tu, realmente noi non possiamo muoverci, stiamo fisse come tante capocchie di spilli luminosi, a trapuntare il cielo notturno.

Cometa invece poteva attraversare lo spazio, ed era anche la meglio vestita di tutte, poiché indossava un lungo strascico luminoso e dorato.

Fu così che quella notte buia e fredda, nel cielo apparve Cometa, tanto bella e splendente, che i Pastori rimasero a bocca aperta, ad ammirarla. Ma lei si fermò, quando vide che dalla Terra, in un certo paese della Palestina, chiamato Betlemme, s'innalzava una luce più intensa della sua.

-       Chissà per quale motivo hanno inviato me, se lì c'è tanta luce da illuminare l'intero Pianeta!

-       Ti ho inviato - disse una voce dall'alto – perché gli sguardi possano fissare il Cielo, e vedere quanto succede sulla Terra con altri occhi. Quella che vedi, è la Luce che illuminerà il mondo, più di tutte le stelle del firmamento.

 




Le pecore del Natale

di Angela Fabbri


Le pecore, quiete, scendevano adesso giù dai monti e qualcuna ogni tanto si girava ancora cercando nel buio dei boschi lassù le ombre nere che le avevano cacciate via e rotolate giù per i dirupi.

Il pastore… Dov’era il pastore, loro compagno e guida?

La pecora anziana, la vecchia madre, portava avanti adesso la compagnia delle pecore. Fra gli sterpi e nel buio.

“ Sopravviveremo? Dobbiamo arrivare in valle. Allora il cielo brillerà di nuovo, sul vecchio torrente. Questa è la strada che conosco. L’ho percorsa per anni.

Ma senza un Pastore, noi, poi, cosa faremo? Cosa faremo di noi? “

Rispose la luce delle stelle, la voce del torrente, il profumo dell’erba bagnata.

Così le Pecore del Natale scesero al piano, dove trovarono altre pecore, tante altre pecore, innumerevoli altre pecore, ciascun gruppo con il suo pastore.

Si mescolarono a loro, attratte dal calore, dall’affettività, dalla consuetudine. Ma poi… una a una si ritrovarono di nuovo insieme e una fila di pecore si delineò fra le altre.

<< Ma dove andate? Perché non restate con noi? >>

Cerchiamo un pastore” rispondeva ora all’una ora all’altra la pecora anziana “Non abbiamo un pastore”

<< Sono pecore senza pastore? >>

<< Ma non si è mai sentito! >>

<< Oh poverette! >>

Intanto, le pecore senza pastore, uscivano dalla massa di greggi e s’inerpicavano su una collina, morbida questa, ben lontana dagli sterpi e dai dirupi che avevano attraversato.

E lì si accovacciarono e si addormentarono, ignare che intanto il loro nuovo Pastore era arrivato.




Una stella lontano lontano

di Domenica Luise

   

Alla chiusura del forno le davano i pezzi avanzati invece di buttarli nella spazzatura, la vecchia sorrideva senza denti e ringraziava. Il garzone del bar, tutte le mattine, le preparava il cappuccino caldo d'inverno e la granita di limone in estate per una strana seduzione arguta che emanava da quella cenciosa, per quanto pulita, ma lei non accettò mai la brioche fresca che egli le offriva, ci si inzuppava il pane o la pizza della sera prima e socchiudeva gli occhi beata mormorando: buonissimo! Delizioso. Grazie, Gesù.

Non sapeva che quel ragazzo pagava di tasca propria la consumazione perché il proprietario si girasse dall'altra parte e facesse finta di non vederla.

Adesso era inverno, quasi Natale, e le era venuta un po' di tosse. Ma io sono forte, pensò, mi bevo il caffelatte buono del bar col pane e mi sento subito meglio.

Invece il dolore nel petto aumentava.

Poi vado alla mia panchina, ho sonno.

Era diventata  piccina lei, che era stata la cicciona della famiglia, le spalle accartocciate, le dita dei piedi e delle mani storte e il fuoco nelle articolazioni. Ricordava l'elegante bastone del nonno, col pomello d'avorio, e papà e mamma, ancora insieme, quando cavalcavano ed erano belli, sani, ricchi e felici. Poi la mamma fuggì chissà dove e chissà con chi e perché e forse era colpa sua: era lampante che nessuno le voleva più bene, non il nonno, che non le rivolgeva mai la parola né le sorrideva, non il papà, che non tornava mai e nemmeno telefonava, non le sue compagne di studi, che non poteva più invitare in quella casa dove si divertivano perché era grande come un castello e si mangiava sempre e se ti portavi via un soprammobile d'argento nessuno ci faceva caso.

Ormai non sono più grassa pensò infilandosi sotto la panchina, fra stracci e giornali vecchi. Incominciò a nevicare.

Lei era dietro i vetri a guardare i fiocchi che volteggiavano, il caminetto era acceso, il nonno zitto ed era il giorno di Natale. Da quando la nuora era fuggita non aveva più fatto il presepio. Fuori qualcuno cantava i cori di sempre, che arrivavano a onde ovattate.

Una volta era la prima della classe e scriveva poesie, tutti la lodavano. Natale era un trionfo. Venivano papà e mamma a prenderla fino al collegio di lusso, in Svizzera, dove studiava.

Adesso stava sotto una panchina e aveva tutta quella stanchezza.

Qualcuno passò e buttò rapidamente una borsa di plastica bella grande proprio lì accanto, sentì che diceva: -Finalmente me ne sono liberato-, guardò con la coda dell'occhio, era una buona borsa resistente, che le sarebbe tornata utile e poi si sa, anche da vecchia la curiosità è femmina, chissà cosa c'era dentro?

Uscì dal suo posto invisibile e vide che avevano buttato un presepio completo nuovissimo e bello.

Accarezzò la Madonna, san Giuseppe e il bambino, gli angeli, i pastori con le pecore, la lavandaia, lo zampognaro e per ultima la stella, che perdeva i lustrini bianchi come quella di quando era piccola e le piaceva sempre toccarla coi ditini curiosi. Poi incominciò a fare il presepio sulla panchina e vide che aveva le mani blu, ma non le importava, suonò forte la campana della chiesa, sentì una delizia strana in corpo e anima.

 Aprì gli occhi e vide che si trovava in un letto vero, pulitissimo e caldo, al braccio le avevano attaccato una flebo e portava un pigiama a fiori. Qualcuno mi ha trovata, pensò. Devo ringraziarli, mi hanno salvato la vita. Forse sono svenuta.

Sentì che dicevano: appena in tempo.

Girò la testa, ma non le uscì la voce per chiamare.

Entrò una ragazza vestita da pagliaccio, con un gran naso rosso e la parrucca gialla: -Ma non vedete che si è svegliata? Come si sente, signora? Ci ha fatto prendere una bella paura, per sollevarla ho dovuto chiamare le forze dell'ordine, sono la sua salvatrice, l'ho vista io lì per terra, ah, ah, ah, sono vestita così perché faccio la volontaria qui per divertire i bambini malati.

-Dall'odore di disinfettante mi accorgo che sono in ospedale e non in paradiso- rispose lei annusando intorno, tutti risero.

-Stava facendo il presepio sulla panchina sotto la neve con statuine rarissime del settecento perfettamente conservate, dove le ha prese?- le chiese uno che sembrava un carabiniere, così la vecchina gli raccontò che le avevano appena buttate, le era piaciuta la borsa e si era messa a fare il presepio come quand'era piccola e il nonno aveva il bastone col pomello d'avorio e mamma e papà cavalcavano felici e a Natale c'era un presepio grande, con la stella piena di lustrini che lei toccava sempre.

I medici, il carabiniere, le infermiere e la ragazza vestita da pagliaccio si guardarono perplessi: poverina, vaneggiava.

Il carabiniere disse: -Lo sa che quelle statuine valgono un patrimonio? Adesso lei è ricca.

-Allora posso donare il presepio alla nostra chiesetta perché tutti lo vedano?- chiese la vecchia signora pensando di tornare alla panchina e ai suoi stracci per quel poco che le restava, ma:

-E noi l'ospiteremo- le rispose il prete subito accorso, -la cureremo e vivrà nella nostra famiglia. Qual è il suo nome?

 



MondoBlog del 14 novembre 2022

 

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