Foto da web
La
lunga strada bianca
di Renzo Montagnoli
Mancava poco a mezzogiorno e, risalite le brume del
mattino, la piana era completamente inondata dal sole, che, riflettendosi sulle
armature, faceva alzare improvvisi e repentini bagliori. Lo spettacolo era
impressionante e affascinante al tempo stesso: uno di fronte all’altro stavano
i due eserciti, inquadrati ordinatamente in attesa dello scontro. Le
prime file erano occupate dalla fanteria, più dietro venivano gli arcieri e
subito dopo la possente cavalleria.
“L’attesa è peggio della battaglia, ma spero
veramente che sia l’ultima. Per un povero fante come me, servo in pace e servo
in guerra, non ci potranno mai essere onori, anche se all’alba il Principe
Venceslao ci ha più volte gridato che avremo onore e gloria, ma sarebbe già
tanto se riuscissi a sopravvivere. Poi abbiamo assistito tutti alla messa, con
il prete che ha invocato la benevolenza di Dio per assicurarci la vittoria.
Anche dall’altra parte ci saranno state le stesse parole, le medesime preghiere,
un’uguale invocazione. Quel che è certo è che se Dio è in ascolto si trova in
un bel dilemma: se favorisce l’uno, scontenta l’altro. Però se Tu sei sopra di
noi, ti chiedo solo di salvarmi dal pericolo, mio Dio, e ti prometto
che andrò a messa tutte le domeniche e che tutti gli anni farò parte dei
pellegrini che, valicando le montagne, percorreranno la lunga strada
bianca che porta al Santuario della Madonna dei Caduti.”
Improvvisamente, si alzò uno squillo di tromba e le
truppe iniziarono a muoversi, sempre in ranghi serrati, dapprima più
lentamente, ma poi aumentando gradualmente la velocità, fino a quando i fanti
si misero a correre. In quel preciso istante, da entrambe le parti dell’opposto
schieramento si alzarono sibilanti le frecce, con un percorso arcuato che le
portò a ricadere dall’alto sulla massa avanzante.
Si sollevarono gli scudi, ma non tutti furono così
lesti e i dardi si infilarono nelle le cotte, penetrando nelle carni,
fra le urla di dolore dei colpiti. Non più di tre volte s’involarono fitte a
oscurare il sole, scoccate dai lunghi archi di duro legno di frassino, ma
cominciarono a creare ampi vuoti nelle file che pronte si rinserrarono. Indi,
preceduto da urla disumane, avvenne l’impatto, un cozzo violento, in un
frastuono di scudi che si urtavano e di spade che s’incrociavano.
“Un fendente da sinistra, mi scanso, alzo la spada:
colpo bloccato! Ma ecco un altro che cerca di infilarmi con la lancia; mi giro,
la punta mi sfiora il fianco e lui quasi mi viene addosso, ma io affondo la
lama, gli passo la cotta, gli squarcio il ventre. Ritraggo la spada, quasi non
respiro, boccheggio, ma ne arrivano ancora, a destra uno cala la
scure, ma lo scudo mi protegge e lo stendo con un fendente fra il collo e la
spalla. Ho la testa che mi scoppia, il sudore che goccia sugli occhi, che mi
appanna la vista. Una fitta tremenda al braccio e mi cade la spada. Non l’avevo
scorto, perché mi era proprio a fianco. Mi copro con lo scudo, ma lui insiste,
sto crollando sotto i colpi, ormai mi è talmente vicino che sento il suo
respiro ansimante… ma ecco che ho trovato il pugnale, lo estraggo dal fodero e
con tutta la residua forza del braccio offeso lo infilo nella sua gola. Lui mi
guarda sorpreso, mentre il sangue sgorga a fiotti, alza ancora la spada, sbarra
gli occhi e crolla davanti a me”.
Le fanterie combattevano da almeno un’ora, quando i
comandanti ritennero opportuno di far intervenire la cavalleria. Il principe
Venceslao lasciò andare il falcone appollaiato sul suo pugno sinistro e questo,
involandosi, diede il segnale per l’inizio della carica. I suoi cavalieri si
mossero a tenaglia, dapprima al trotto, e poi, tese le lunghe lance, spronarono
i loro destrieri al galoppo.
L’avversario non fu da meno e, pur disponendo solo
di cavalleria leggera, la dispose in modo da costituire una manovra accerchiante.
Il minor peso ebbe questa volta facile gioco della lentezza del nemico,
investito ai fianchi nel momento in cui non era ancora in grado di dispiegare
la sua grande forza d’urto. Nulla poterono le armature e le analoghe protezioni
dei destrieri contro i giavellotti che i cavalieri avversari scagliavano con
precisione inaudita.
Quella che per il Principe Venceslao doveva essere
la mossa conclusiva si rivelò un doloroso e tragico fallimento.
Ovunque si vedevano armati sbalzati da sella,
cavalli che precipitavano rovinosamente al suolo, spesso schiacciando chi li
montava, in un polverone che come una nebbia aveva invaso tutta la piana. Lo
scenario era di una indescrivibile ecatombe: qua un cavaliere che moriva
soffocato dal suo sangue, là un altro con conficcato nel petto un giavellotto,
ancora in sella, ma già morto. E su tutto sempre le urla, i clamori, le
imprecazioni che coprivano i lamenti. Quando esaurito il
loro compito i cavalieri avversari si volsero ad attaccare la
fanteria, il Principe si allontanò velocemente dal campo, seguito dalla sua
scorta, lasciando i suoi uomini alla mercé del nemico.
”La cavalleria! La cavalleria! Ci viene addosso: la
partita è persa e forse anche la vita. Se riesco a uscire da questa bolgia
scappo, fuggo con la poca forza che mi è ancora rimasta!
Ho recuperato la spada, ma fatico a tenerla in
pugno. Una spallata a questo, una spinta a quest’altro, sto uscendo, forse ce
la faccio. Ecco, sono fuori, mi butto a rompicollo a sinistra. Ahimè che
dolore! Non respiro più: è stato un giavellotto, dritto nella schiena. Non
riesco più a muovermi, cado, mi sento mancare.”
Lo scontro era durato in tutto un paio d’ore, un
tempo interminabile per chi era rimasto là fino alla fine, e mentre i vincitori
alzavano al cielo i loro urrah, il Principe Venceslao già mercanteggiava
con il suo avversario la libertà e il mantenimento del suo rango.
Le trattative, come si conveniva fra potenti, si
svolgevano come se si stesse discutendo del normale regolamento di un affare:
nessuna parola, nessun pensiero per le migliaia di morti che con il loro sangue
inzuppavano il terreno della piana. Esseri inferiori erano da vivi, e ancor
meno erano ora da morti, senza più nessuna utilità.
Intanto i cerusici s’aggiravano nel carnaio, insieme
ai monatti, questi ultimi intenti a recuperare i morti e ad accatastarli, non
senza averli prima spogliati di ogni avere, compresi i calzari.
“Mi sto riprendendo, devo essere svenuto; chi c’è lì
a un palmo dal mio naso? E’ il viso di un nemico, ferito come me; anche lui non
riesce a muoversi e mi fissa. Cerca di dire qualche cosa, mi pare che voglia
dell’acqua, ma non ne ho nemmeno per me e la sete sta diventando
insopportabile, più ancora del dolore che mi provoca la ferita. Che hai da
guardare? Sono un tuo nemico, ma non sono in grado, e non ho nemmeno più voglia
di farti male.
Soffri anche tu, vedo. Non guardarmi con quegli
occhi imploranti! Non posso aiutarti, nessuno ci può aiutare. Se le ferite non
sono fatali, e se passa il cerusico, forse abbiamo una speranza. Non so l’ora,
ma il sole mi sembra che vada calando e se non arrivano a soccorrerci prima
che faccia buio saremo in ogni caso morti; con le tenebre usciranno i
lupi dei boschi, gli spiriti maligni delle piante e ci finiranno loro.”
Nella luce del tramonto si stagliavano le immagini
delle cataste su cui venivano distesi i corpi praticamente nudi, tutti con
i segni della loro morte: petti squarciati, braccia e gambe divelte, teste
mozzate, e su tutto si levava il lamento dei feriti e dei moribondi.
“La ferita mi fa meno male, anche se mi sembra che
il sangue esca ancora, ma mi sta venendo freddo, forse per la sera
che si avvicina. Il mio nemico è sempre lì che mi guarda, con la bocca
semiaperta che lascia uscire della saliva insanguinata. Ogni tanto sbatte le
palpebre, come se cercasse di dirmi qualche cosa.
Adesso ha aperto la bocca, si sforza di emettere un
suono, ma esce solo un gorgoglio e i suoi occhi si sono spalancati, guardano
fisso, ma non verso di me; ha un’espressione di stupore, ed ecco che gli esce
un rantolo, reclina il capo e chiude le palpebre. E’ morto, ma chissà che
vedeva.
Il freddo aumenta, si fa sempre più buio, non vedo
quasi più niente, nemmeno il suo volto; mi manca l’aria, è tutto nero, no,
scorgo una lunga strada bianca che non sembra aver fine.”
I loro corpi furono fra gli ultimi a essere
raccolti, finirono sulla stessa catasta e poi accesero i fuochi.