La penna, la spada e l'aratro
di Renzo Montagnoli
Era da un po' di tempo che cercavo un po' di tranquillità per scrivere di un grande autore, doppiamente sfortunato, in quanto deceduto e anche per il fatto che i suoi libri, quasi tutti di notevole livello, non hanno trovato il successo di pubblico che ampiamente avrebbero meritato.
In particolare avrei voluto stilare una sua biografia, accompagnata da un'analisi critica dei suoi romanzi, onde porlo nella giusta luce per quel posto che, benché snobbato dai critici, si è sicuramente ritagliato nella storia della nostra letteratura.
Il tempo, purtroppo, è tiranno e dopo non pochi ripensamenti sono giunto alla conclusione che in fondo la biografia di un uomo, di un artista è sì importante, ma ciò che più conta sono le sue opere e pertanto è del narratore che intendo scrivere e non anche dell'uomo.
A lui ero legato da una viva amicizia e fra noi vigeva una reciproca stima; solo la distanza fra la mia e la sua residenza ci ha impedito di conoscerci materialmente, ma gli scambi di posta elettronica, le non infrequenti conversazioni telefoniche e, soprattutto, la lettura dei suoi libri ha consentito che mi facessi più di un'idea, permettendomi addirittura di comprenderne l'intima natura, forse in misura maggiore di una frequentazione abituale. Di Valentino Rocchi, perché è di questo autore romagnolo di nascita e pesarese d'adozione che sto parlando, non posso che avere un caro e indelebile ricordo e scrivere di lui come romanziere mi sembra la giusta mercede per quanto di positivo mi hanno dato i suoi libri.
Fino al febbraio del 2008 mi era del tutto sconosciuto e fu proprio in quel mese che ricevetti da Pina Vicario delle Edizioni Agemina un libro che lei mi aveva definito piuttosto interessante. Si trattava di La Magia del Fuoco, titolo di per sé tale da destare una naturale curiosità, ma io, per principio, guardo poco a queste cose, preferisco leggere, analizzare lo stile, verificare la trama, ponderare gli elementi valutativi salienti. Devo ammettere che quelle 175 pagine, divorate in pochi giorni, mi sorpresero non poco, presentando caratteristiche di qualità, sia sotto l'aspetto strutturale, sia sotto quello stilistico. La trama, poi, di questo romanzo di sentimenti, di vita vissuta, di riflessioni si presentava appetibile, era un piacere andare avanti nella lettura, che fra l'altro risultava avvincente. Sarà stata la sobrietà dello stile, l'equilibrio nella narrazione senza mai una parola di troppo, una delicatezza quasi soave nella sempre difficile descrizione di un'iniziazione sessuale, ma resta il fatto che mi entusiasmai al punto che mi venne naturale chiedere all'autore se si trattava dell'opera prima, oppure se ne aveva già scritte altre.
Emerse così che esistevano altri romanzi nel cassetto e altri ancora, pochi, erano stati pubblicati con alcuni piccoli editori e Valentino fu tanto gentile da farmi avere una copia di ciascuno.
Passarono così per le mie mani pagine e pagine di opere che non fecero altro che rafforzare la mia convinzione sul fatto che ci si potesse trovare davanti a un autore rivelazione. Soprattutto questi lavori erano caratterizzati da una costanza di rendimento invidiabile, da uno stile di cui si notava il progressivo affinamento, ma ciò che più m'impressionò fu l'ambientazione, rurale, con descrizioni di personaggi e di luoghi mai greve, ma concisa ed esauriente.
Questo mondo agreste, che si ritrova in L'eredità di Venanzio, Gli uomini di Bluma e La saggezza di Toni, ricostruito in un'epoca in cui ancora la civiltà contadina non era morta, fatto di sentimenti e di superstizioni, di odi lancinanti e di amicizie salde, non era solo il palcoscenico su cui venivano rappresentate le varie trame, ma assumeva una valenza propria, frutto probabilmente di una nostalgia per gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, che avevano visto la giovinezza di Rocchi, non certo agricoltore, ma di estrazione contadina. Anche questi tre romanzi erano belli, coinvolgenti, piacevolissimi da leggere e toccavano le corde dell'animo; ne fui e ne sono tuttora entusiasta, ma il meglio doveva ancora venire e venne con Notte all'Hostaria La Guercia.
Il libro mi fu recapitato dallo stesso autore che ci tenne a dirmi che era un'opera a cui teneva molto e ne aveva ben ragione. Infatti, nonostante il titolo non proprio invitante, in queste 305 pagine, nel parlarci di un personaggio realmente esistito, tale Pandolfo Collenuccio, diplomatico del XV secolo, pesarese di nascita, ci offre un affresco stupendo del nostro rinascimento, in un periodo particolarmente travagliato, di grandi lotte di potere, con le mire espansionistiche del pontefice Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, sulle Signorie dell'Italia Centrale e poi anche più su, fino alla Romagna.
Dicevo del titolo non invitante, ma che ha un preciso significato, poiché Rocchi, invece di narrarci la vita di questo personaggio dalle origini fino alla sua morte, preferisce mostrarcelo in questa notte trascorsa vegliando in una vecchia osteria in prossimità di Pesaro, a cui, non senza fondati timori, si accinge a ritornare. In queste ore insonni Pandolfo, in preda a comprensibili paure e incertezze, rievoca il suo trascorso con le considerazioni del presente. È un'idea felicissima, questa, perché in questo modo si mette alla luce una vena malinconica, che ravviva l'opera, avvicinando il protagonista al lettore. Questo grande uomo, che ha servito gli Sforza, i Medici e i Gonzaga, e che dunque nella sua carriera è arrivato a vertici elevati, ora è diventato pauroso, incerto, perché teme che quell'invito a rientrare sia una trappola (e infatti lo sarà). Nondimeno è consapevole che la vita è una parabola e che lui è ormai è nella fase discendente, in cui le glorie trascorse si appannano, in cui sorgono rimpianti; la sua coerenza forse vacilla, ma deve andare, costi quel che costi, perché così è scritto nel libro del destino, perché in fondo ogni giorno è buono per morire, purché non si tradisca se stessi.
Scritto in modo elegante, con non sporadiche felici intuizioni, Notte all'Hostaria La Guercia mi colpì profondamente ed ebbi netta la sensazione di essere in presenza di un capolavoro. L'edizione era vecchia e meritava quindi di essere ripubblicata, e a ciò provvide la casa editrice Agemina che, nell'occasione, fece un saggio e ponderato editing, che impreziosì l'opera ulteriormente. Fu così che nell'autunno del 2008 uscì 1504 – Notte all'Hostaria La Guercia, che ritenni di prefare, tanto ero e sono convinto della validità di questo romanzo.
A distanza di tempo, pur sopite le emozioni provate nella lettura, sottoscrivo in toto il contenuto della mia prefazione e quindi il mio giudizio resta inalterato su quelle che sono le qualità, notevoli, dell'opera, un vero e proprio capolavoro.
Tuttavia, la nuova edizione non ebbe il successo che avrebbe meritato per diverse ragioni, soprattutto per queste: le modeste possibilità pubblicitarie di una piccola casa editrice, un mercato artefatto in cui si tendono a imporre per lo più autori prefabbricati, che scrivono solo il nulla per un popolo di lettori ormai asservito, il silenzio, non certo casuale, di critici che sovente danno l'impressione di avere accordi segreti con questo o quell'editore.
C'è tutta una casistica al riguardo e che vede sconosciuti e incapaci scrittori ottenere riconoscimenti di pubblico e di critica per opere che francamente sono quasi spazzatura e magari quelle che veramente valgono passano inosservate, così come nel mercato finanziario la moneta cattiva prevale su quella buona.
Tuttavia, Valentino non ne soffrì in modo particolare, perché era contento del giudizio anche di pochi, ma che per lui erano considerati molto, e del resto non era nel suo carattere abbattersi, ma proseguire, far conoscere ad altri i suoi romanzi nel cassetto. Fu aiutato, in questo, dalle Edizioni Agemina, da Pina Vicario che aveva per lui la stessa stima che avevo io.
Nel frattempo Valentino mi aveva fatto avere tre suoi libri, pubblicati da diverso tempo da altri editori: Una storia a Castelvecchio, che è la storia di un'emancipazione femminile fra le due guerre, Il pianoforte a coda, storia di un bancario che cerca la libertà dedicandosi al commercio ambulante e La padrona di Santa Maria, una vicenda di ribellione femminile allo stato di sudditanza imposto in un passato non troppo lontano dall'altro sesso, accompagnato dalla grettezza sovente presente nel mondo contadino. Sono tre romanzi piacevoli da leggere, di buona qualità, ma ovviamente incomparabili con 1504 – Notte all'Hostaria la Guercia.
Il 30 gennaio 2010 Valentino Rocchi, da tempo malato, veniva a mancare ed è di pochi giorni prima l'uscita, per i tipi di Agemina, di Giolina, uno fra i suoi romanzi nel cassetto di cui più mi aveva parlato.
E qui ritorna uno dei suoi temi cari, quello dell'inferiorità femminile, più accentuata nel mondo rurale. Da buon conoscitore di questa realtà, Valentino è stato in effetti un cantore della civiltà contadina, in cui miseria diffusa, grettezza, superstizioni, avarizia e ingordigia si mescolavano in un calderone che sembrava sempre pronto a scoppiare, ma che poi sbuffando si quietava. Era l'immutabilità di una condizione che un altro narratore, Ferdinando Camon, ha saputo descrivere così bene; anche Rocchi guarda a quella società, composta per lo più da miseri, con uno straordinario affetto, proprio di chi è giustamente convinto che il tempo delle stagioni, che regola la vita dei campi, sia l'unico per gli uomini, con quelle ore di lavoro che vanno dal sorgere del sole al suo tramonto, una metafora della vita che ogni giorno si rinnova. Giolina è effettivamente un bel romanzo, con una trama avvincente e convincente, e testimonia una volta di più che chi è legato alla terra scrive della stessa.
Sono usciti poi, postumi, e sempre pubblicati da Agemina, due lavori con temi completamente diversi: Menelicche e L'uomo del cardinale.
Il primo trae origine da una filastrocca e tratta delle insormontabili barriere sociali, con l'amore fra una giovane ricca, ma menomata, e un povero operaio di un cantiere navale. E' quasi una favola, non a lieto fine, scritta in punta di penna, con leggerezza e rispetto per gli sfortunati protagonisti, uno di quei romanzi in cui i sentimenti sono espressi con pudore, circostanza sempre più rara oggi, e in cui l'eterna lotta di classe trova nel popolino, ignorante e invidioso, il maggiore inconscio alleato del certo forte. All'inizio sembra una storia da poco, ma poi, mano a mano si procede nella lettura, non si possono non apprezzare descrizioni di paesaggi marini sfumate come in un acquerello, caratterizzazioni precise e convincenti, una malinconia diffusa che s'accompagna a una scorrevolezza frutto di uno stile meditato e studiato.
Con L'uomo del cardinale Rocchi ritorna al romanzo storico, anzi in questo caso di ambientazione storica, perché fra tanti personaggi che vi figurano e che sono realmente esistiti il protagonista principale è di pura fantasia. E come per 1504 – Notte all'Hostaria La Guercia emergono le migliori qualità dell'autore, tanto che il libro è veramente stupendo, sia per la trama che per l'ambientazione, oltre che per la morale dello stesso.
Mi risulta che nei cassetti ci siano altre opere inedite, ma dubito che possano vedere la luce del sole, ed è un peccato perché Valentino Rocchi ha scritto tanto e in proporzione ha pubblicato poco, ma quel poco non è paccottiglia, non sono inutili pagine da leggere per ingannare il tempo mentre si fa un viaggio in treno. In quelle righe, in quelle parole c'è tutto un mondo che si agita e che si affaccia alla ribalta: la terra, fonte di vita, ma anche di fatiche e di dolori, e chi la coltiva, figure di un mondo che mai più ritornerà, ma che Valentino ci ha fatto conoscere e anche amare; uomini d'arme e di penna, ombre ormai disperse nell'Ade e che grazie ai suoi romanzi sono rinate, a insegnarci che, se tutto passa e va, restano comunque valori imprescindibili, tali da sacrificare per essi anche la vita. Fra l'ostinata coerenza di Pandolfo Collenuccio e la ricerca del senso della vita di Antonio Bagno, l’uomo del cardinale, non c'è nessuna differenza, sono entrambi personaggi che vogliono conoscere se stessi, che scavano nel loro intimo affinché l'esistenza non sia un semplice e inconsapevole passaggio dall'alba al tramonto. Ma in mezzo a loro c'è anche qualche cosa d'altro, che li avvicina e ce li addita come esempi: una penna, la penna di Valentino Rocchi, mai dimentica di un aratro che traccia il solco nella feconda terra e che lascia un segno, indelebile, in chi ha letto i suoi libri.