Il conflitto che nessuno voleva
di Renzo Montagnoli
Il 28 luglio 2014 è la data
in cui l’impero austro-ungarico dichiara guerra al Regno di Serbia a seguito e
con pretesto dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Aburgo-Este avvenuto
a Sarajevo il 29 giugno 2014. A ruota, sulla base delle alleanze stipulate
nella seconda metà del secolo precedente il conflitto si amplia con gli
interventi della Germania, dell’Impero Ottomano, della Bulgaria, tutti e tre
questi stati a fianco dell’Austria, e degli Alleati, avversi a questa
coalizione, rappresentati dalla Francia, dal Regno Unito e dall’Impero Russo.
L’Italia, dopo un penoso tentennamento e non senza aver tradito la sua alleanza
con Austria e Germania, farà il suo ingresso nella guerra il 24 maggio
dell’anno successivo. Come se non bastasse a poco a poco intervennero
altri stati, in un lasso di tempo dilazionato, quali la Grecia, la Romania, il
Portogallo e soprattutto gli Stati Uniti, il cui apporto è stato decisivo. Può sembrare
strano, nessuno voleva questo conflitto, ma tutti non fecero il benché minimo
tentativo per evitarlo. Il problema è che, quando non si risolvono
consensualmente questioni spinose, il fuoco continua a covare sotto la cenere;
alla Francia scottava ancora l’ingloriosa sconfitta patita nel 1870 per opera
dei tedeschi; Il Regno Unito, dopo un periodo di isolamento, voleva tornare a
far sentire il suo peso nello scacchiere europeo; la Germania, ancora fresco
stato, era convinta della sua invincibilità, dopo appunto le vittorie del 1870,
e della necessità di ritagliarsi un ruolo egemone; l’Italia non considerava
ancora ultimato il periodo introdotto dalle guerre di indipendenza e
rivendicava Trento e Trieste, e magari anche qualcosa di più; poi c’erano tre
stati, che erano dei veri e propri colossi, ma dai piedi d’argilla. Enormi
macchine burocratiche che cercavano di fermare il tempo e, contestualmente, di
garantire immutabili i privilegi della classe dominante. L’Impero Russo,
bastonato alcuni anni prima nella guerra con il Giappone, era percorso da
fremiti rivoluzionari che si cercò invano di soffocare con l’occasione di una
guerra, con uno scopo quindi comune, da consentire di rinsaldare la sua
popolazione con quel monarca assoluto che era lo zar; l’impero ottomano, che
continuava a perdere pezzi, e al cui interno c’erano spiriti ribelli che
volevano porre fine alla lenta agonia di uno stato ormai in sfacelo, aderì per
gli stessi motivi della Russia e la stessa cosa si può dire per l’Impero
Austro-Ungarico, retto da troppo tempo da un longevo come Francesco Giuseppe,
incline ad accentrare su di sé ogni potere e non disposto a concedere la benché
minima autonomia alla tante nazionalità che costituivano i suoi sudditi.
Nessuno voleva questa guerra, ma
per un motivo o per l’altro nessuno vi si oppose e così prese il via il più
grande conflitto della storia prima della seconda guerra mondiale e che durò
fino alla fine del 1918 con tante sofferenze e tanti morti (complessivamente
oltre 24 milioni). E il bello fu che, a parte l’Italia, gli altri ottennero ben
poco, anzi i vincitori, con il loro atteggiamento intransigente, profusero a
piene mani le sementi per un nuovo scontro, che germogliarono rapidamente e che
generarono la seconda guerra mondiale.
Fu la guerra delle trincee, degli
insensati attacchi frontali, secondo una visione tattica e strategica che
risaliva ai tempi di Napoleone, ma allora non c’erano le mitragliatrici, i gas
asfissianti, gli aerei e i sommergibili. Fu la guerra dell’angoscia continua,
da quel senso di impotenza che doveva provare il povero fante, divenuto ben
presto consapevole di essere considerato niente di più che carne da macello.
Tanto orrore quotidiano, tanti lutti, tante indicibili sofferenze, come si è
visto, non portarono a una pace duratura. Né bastarono ad aborrire una volta
per tutte quell’immensa tragedia che è la guerra, quello scontro in cui, a ben
guardare, non ci sono vinti e vincitori assoluti.
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Foto da web
Il
bel Danubio blu
di Renzo Montagnoli
-
Buona sera, caro colonnello. Gran bella festa, come sanno fare solo a corte.
-
Caro Stephan, quanto tempo che non ci si vede; vediamo…l'ultima volta è
stata l'estate dello scorso anno, al ballo in casa Hofmann? Sì, è stata
in quell'occasione, quando lei era accompagnato da una gran bella
signora, un bocconcino come ebbe a dirmi. Come va?
Il
barone Schuss guardò negli occhi il suo interlocutore, un uomo di
mezza età elegantemente addobbato con l'uniforme da cerimonia
degli Honved.
-
Ha un bel coraggio a chiedermi come vado, dopo avermi soffiato “il bocconcino”
che Lei, e non io, ebbe a definire la signora che quella sera era con me.
Comunque, acqua passata; la signora ora folleggia con un ricco banchiere e già
si è dimenticata di noi, anche se in verità io l'ho ogni tanto in mente, visto
quello che mi è costata in doni ed altro la piccola fuggevole relazione. E'
stata un'esperienza, da cui ho ritratto un insegnamento ben preciso: mai andare
con chi non si intende amare.
-
Oh, barone, non dica così: la vita è anche frivolezza, anzi è solo questo;
l'amore è un peso troppo grande che rende insopportabile l'esistenza; una donna
si può, si deve sposare per ovvi motivi di convenienza, ma amarla…è un po'
troppo. Ai comuni mortali, quali noi siamo, l'amore non è consentito;
quello che ci è permesso, ed è un nostro preciso diritto, è il piacere,
l'avventura senza impegni, una notte di follie, un breve periodo di
incoscienza, ma senza il gravame dell'amore. E a proposito di questo sentimento
corrono voci a corte di una sua relazione, caro barone, con una fanciulla di
Vienna di non nobili origini, figlia di un mercante di granaglie e per di più
ebreo, e, come se non bastasse, descritta non proprio come una Venere, ma di
normale aspetto. Rispondono a verità queste chiacchiere?
-
Sì, è così; l'ho conosciuta tramite i rapporti di affari che mi legano a suo
padre ed è stata un'autentica rivelazione; di normale aspetto? A me sembra
di gran lunga più bella di tutte le dame che affollano questa sera il salone
delle feste; e lo sa perché?
A
dire il vero non saprei spiegarlo, ma …ecco è come se sotto l'esterno ci fosse
molto di più, insomma c'è qualche cosa che le tante nobili e piacenti signore
non hanno: c'è un'anima, un cuore che pulsa, che trasmette sensazioni che vanno
ben oltre l'apparenza…
-
Ah, amico mio, crede di percepire, o è proprio così?
-
Non saprei, so solo che con lei sto bene, mi sento sereno, appagato e,
francamente, sono felice.
-
Bene, bene; un altro pezzo di questo mondo statico che se ne va; l'Impero va
progressivamente sgretolandosi, giorno dopo giorno, e come il vecchio Francesco
Giuseppe che soffre di artrosi questa, che sembrava un'eterna istituzione,
duole ovunque fuori da queste mura. Eppure, anche se ce accorgiamo,
facciamo finta di niente, ignoriamo volutamente la realtà e continuiamo a
vivere in questo sogno da cui non vorremmo mai risvegliarci.
-
E' vero che fra pochi mesi ci sarà la guerra?
-
E' certo, e non sarà solo una guerra, ma sarà la fine di ogni cosa, di queste
belle feste, di una corte pettegola e vociante, di passioni d'amore travolgenti
ben presto sopite.
-
Colonnello, mi meraviglio di questa sua analisi e, soprattutto, non riesco a
comprendere quell'ineluttabilità allo sfacelo che trovo nel senso delle sue
parole.
-
Mi consenta una pausa per un ballo con la splendida
duchessa Maybach e poi ne parleremo più diffusamente.
Si
allontanò per invitare la signora appena nominata e si apprestò con la stessa
ad eseguire il ballo di turno. Sulle note del “Bel Danubio blu” di Strauss volteggiò
a lungo nel salone, ora stringendo a sé la dama, ora allontanandola di
poco, ma sembra tenendola fermamente per mano in
un'imitazione tersicorea dell'amplesso.
Accaldato,
e solo dopo aver baciato la mano della duchessa, se ne tornò nell'angolo ove
l'attendeva il barone Schuss.
-
Gran bella donna; sposata a quel beccamorto del Ministro degli Esteri si
concede svaghi frequenti con diversi giovani, e in particolare con
uno, insomma un amante fisso. Il marito lo sa, tutti lo sanno, ma non c'è
nulla di strano: alle cerimonie ufficiali è presente con sempre
accanto la moglie, una coppia rispettabile, all'apparenza affiatata, anche se
non è così. Quello che conta non è quello che si è, ma quello che si vuol far
credere che sia. E come loro siamo tutti noi. Da quando è salito al trono
Francesco Giuseppe il nostro mondo si è fermato ed è come se ci fossimo chiusi
in un bozzolo, vivendo una splendida irrealtà. Là fuori so che tutto cambia, ma
da noi resta sempre eguale. La guerra, purtroppo, ci farà uscire da questo
sogno, precipitandoci in un incubo, dove la realtà per noi sarà incomprensibile
al punto tale che non potremo più rientrare nel sogno, e allora sarà la fine.
Il nostro è un mondo senza ideali, solo con concetti vacui, con l'illusione che
il tempo non passi mai, dove, in mancanza di vigore, assume valore solo ciò che
appare. Le parlavo dell'amore: è un sentimento che lei non ha saputo
descrivermi, ma è un qualche cosa di concreto, suppongo, una forza
interiore che sprigiona e sovrasta chi lo prova, e a nulla valgono
atteggiamenti per camuffarlo. C'è, si dimostra per quello che è; vede,
leggo nei suoi occhi l'entusiasmo, la gioia di vivere; guardi gli occhi degli
altri presenti: spenti, stanchi, e se brillano è solo per la voluttà di concedersi
ad un amplesso frettoloso. Noi siamo come un'automobile senza benzina; fin
quando restiamo nella rimessa va tutto bene, ma quando ne usciamo a
forza, a spinta, veniamo travolti da chi ha energia da consumare.
-
Ma se il suo pensiero è frutto di una così accurata disamina, perché allora non
cambiare?
-
Perché chi vive in questo mondo non è in grado di affrontare la realtà. Per noi
la vita è sogno a tal punto che appena ci accorgiamo di quanto sta cambiando
all'intorno e la cosa ci spaventa talmente che preferiamo ignorare, chiudendoci
sempre di più nella fiaba di cui siamo artefici e protagonisti. Forse, se io
riuscissi a provare per un'altra donna lo stesso sentimento che lei prova per
la sua piccola borghese, potrei cambiare, ma dubito a questo punto, dopo anni
di questa vita irreale, di poter perfino ipotizzare una simile cosa. Sì, è
vero, a noi manca l'amore, questa energia inesauribile. Ed adesso mi consenta
un altro ballo con la duchessa Maybach, un altro autentico bocconcino.
-
Si è fatto tardi; dovrei andare.
-
Allora ci salutiamo, sperando di rivederci nuovamente in questo luogo alle
prossime feste, ma ho tutti i motivi per dubitarne; la guerra ci spazzerà via
ed io certamente non mi opporrò. Vada, corra caro amico dalla sua amata e viva
per lei; dovrei invidiarla, ma non è così: semplicemente mi compiaccio di aver
trovato in questo ambiente un uomo felice. Addio.
Il
barone Schuss, mentre usciva dal salone, si voltò a guardare i ballerini;
fra essi scorse il colonnello che volteggiava con la duchessa sulle
note del bel Danubio blu.
Con
una mano gli fece un cenno di saluto e questi gli rispose.
Non
l'avrebbe più rivisto.
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La
marcia di Radetzky
di
Joseph Roth
Traduzione
di Laura Terreni e Luciano Foà
Edizioni
Adelphi
Narrativa
romanzo
Collana
Biblioteca Adelphi
Pagg.
424
ISBN 9788845902697
Prezzo € 20,00
La fine di un impero e di un’epoca
La prima guerra mondiale fu un conflitto che segnò la fine di quattro
imperi: quello tedesco, quello russo, quello ottomano e quello austro-ungarico.
Perché si arrivasse a questa immane tragedia, che costò la vita a milioni di
soldati, non è ancora del tutto chiaro, anche se, assai probabilmente, fu
l’ultimo disperato tentativo per conservare troni fuori dal tempo. E tale era
anche quello dell’impero austro-ungarico, sul quale sedeva da ormai troppi anni
Francesco Giuseppe, una figura che poteva benissimo identificarsi con quel
coacervo di nazionalità che costituiva l’ultimo stato ormai quasi millenario che tanto aveva
giocato un ruolo di riferimento dal tardo medioevo a quei primi anni del XX
secolo.
L’impero austro-ungarico era in pratica Francesco Giuseppe, una sorta di cariatide ingessata
in una visione largamente superata del concetto di stato, incapace di adeguarsi
alle nuove idee e ai nuovi equilibri, scaturiti soprattutto dopo l’ultima
esperienza monarchica francese, caduta nella rotta di Sedan. E Cecco Beppe, come ironicamente lo chiamavano i
nostri irredentisti, non poteva non interessare un acuto osservatore come
Joseph Roth, che finisce con il fornirne una rappresentazione frontale, anche
se la sua presenza in questo romanzo non è di certo frequente, ma tutto è
permeato dalla figura dell’imperatore, da quella battaglia di Solferino in cui
fu salvato da un ignoto Trotta, a cui per gratitudine attribuì il titolo nobiliare,
trasmissibile agli eredi. Della famiglia Trotta vengono seguite le vicende, con
il figlio e il figlio del figlio sempre più irrealistici e assediati da un
senso di incompiutezza, e contestualmente matura la disgregazione di una
monarchia, con Francesco
Giuseppe che invecchia, incartapecorisce, mentre di pari passo il suo stato si
sfalda.
L’ultimo sussulto, il disperato tentativo di fermare un declino ormai
inarrestabile è
proprio la guerra, che nella sua tragica crudezza rivelerà la realtà di un
mondo ormai anacronistico e che finirà, ancor prima di essere sconfitto sul
campo di battaglia, con l’implodere.
Non credo che vi possa essere miglior libro per spiegare cosa accadde e
perché, e soprattutto per comprendere come in fondo il padre padrone di questo
impero fosse da tempo un morituro, un essere spento, gravato dal tragico
destino dei figli, incapace di reagire, nascosto dietro il formalismo di un
mondo fatto di esangui parate militari e da stanchi balli di corte.
Roth, cittadino asburgico, non nasconde la nostalgia per quel mondo, fatto
di trine, merletti e da una staticità ben in contrasto con le realtà nascenti e
volte all’affermazione di nuove identità, ma è talmente intelligente da non
rimpiangerlo, se non come un’epoca che lui credeva felice ed eterna, e invece
non era così.
Di questo spirito nostalgico sono non poche le pagine di autentica poesia,
indubbiamente le migliori di un romanzo che ripropone però una caratteristica
degli autori mitteleuropei da Mann a Musil, e cioè una ricorrente grevità, come se le parole e le frasi fossero macigni caduti
sul foglio, Ma, credetemi, è l’unico appunto che si può fare a un’opera che,
per struttura, capacità di analisi e anche raffinata e precisa ambientazione,
può benissimo far passare in secondo piano una certa verbosità che a noi
lettori di questo XXI secolo, abituati a prose assai più agili, potrà parere
eccessiva.
Considerato però il romanzo nel suo complesso credo proprio che si possa
tuttavia parlare di capolavoro, perché La marcia di Radetzky è uno di quei libri che più si leggono più si
apprezzano.
Biobibliografia
(da biografieonline.it)
Joseph Roth nasce
il 2 settembre del 1894 a Schwabendorf, nei pressi di Brody,
all'estremo confine dell'Impero Austro-Ungarico (nella zona corrispondente alla
Polonia orientale di oggi), figlio di genitori ebrei. La madre, Maria, discende
da una famiglia di commercianti di tessuti; il padre, Nachum, commercia
cereali. Durante un viaggio di lavoro ad Amburgo, Nachum viene
ricoverato in una casa di cura per malati mentali, e nel giro di pochi mesi
diventa totalmente incapace di intendere e di volere. Il suo destino verrà
taciuto al figlio Joseph, cui verrà fatto credere che il padre è morto
impiccato.
Durante un'infanzia non
eccessivamente misera, comunque, Joseph impara a suonare il violino e frequenta
il ginnasio, dopo aver studiato nella scuola commerciale fondata dal barone
Maurice de Hirsch, magnate ebreo. Il rapporto con la madre non è
particolarmente felice, anche a causa della vita ritirata che ella decide di
condurre, incentrata quasi esclusivamente sull'educazione del figlio. Dopo il
ginnasio, Joseph Roth si trasferisce, e durante gli anni
dell'Università, frequentata a Vienna, scrive le sue prime poesie. Trasferitosi
presso uno zio materno a Leopoli, diventa amico delle cugine Paula
e Resia. Dopo aver studiato con passione la letteratura tedesca, deve fare
i conti, a poco più di vent'anni, con la guerra: dapprima pacifista, si arruola
dopo aver cambiato idea, volontario nel 21° battaglione di fanteria, e fa parte
del cordone di militari impiegati lungo il tragitto del corteo funebre dell'imperatore
Francesco Giuseppe.
Abbandonato
definitivamente lo studio universitario alla fine della Prima Guerra Mondiale,
torna a Brody ma, a causa degli scontri tra soldati ucraini,
cecoslovacchi e polacchi, decide di trasferirsi nuovamente a Vienna. Nel 1919
diventa redattore di "DerNeue Tag", giornale cui collabora anche
Alfred Polgar. Le pubblicazioni, tuttavia, vengono interrotte l'anno
successivo, e così Joseph Roth si sposta a Berlino, dove deve
fare i conti con problemi relativi al permesso di soggiorno. Riesce a scrivere,
comunque, per il "Neuen Berliner Zeitung" e per il
"Berliner Boersen-Courier". A partire dal 1923 lavora per il
"Frankfurter Zeitung", e per giornali di Praga e Vienna.
"La tela di
ragno", il suo primo romanzo, viene pubblicato
sull'"Arbeiter-Zeitung" a puntate, anche se resta incompiuto. Nel
maggio del 1925 lo scrittore si trasferisce a Parigi. Ha modo, in seguito, di
visitare l'Unione Sovietica, la Jugoslavia e la Polonia. Dà alle stampe il
romanzo breve "Hotel Savoy" e i romanzi "La
ribellione" (nel 1924), "Fuga senza fine" (nel 1927),
"Zipper e suo padre" (nel 1928), "Destra e sinistra" e
"Il profeta muto" (nel 1929). Intorno al 1925 cambia orientamento
politico, passando da una visione socialista all'appoggio ai monarchici
(laddove, nei primi suoi scritti, aveva rivelato una forte avversione verso la
corona): idealizza la monarchia asburgica, pur non ignorandone gli errori. In
questo periodo, però, deve affrontare i primi sintomi della malattia mentale
che ha colpito la moglie Frieferike Reichler, sposata nel 1922 a
Vienna. La donna, oltre a mostrare segni di gelosia patologica,
si comporta in maniera tale da rendere obbligatorio il ricovero in una casa di
cura. Roth entra in crisi per la vicenda, arrivando a incolparsi della situazione
e non riuscendo ad accettare la malattia: inizia, quindi, a bere alcolici in
quantità spropositate, con conseguenze negative per il suo stato di salute e
per la sua situazione economica.
Nella prima metà degli
anni Trenta, vedono la luce i romanzi "Giobbe. Romanzo di un uomo
semplice", "La marcia di Radetzky
", "Tarabas, un ospite sulla terra",
"L'Anticristo" e "Il busto dell'imperatore". Con l'avanzata
sempre più insistente del Nazionalsocialismo, intanto, Joseph Roth individua nella chiesa cattolica e nella monarchia le uniche forze in
grado di opporsi alla prepotenza nazista. Appoggia, quindi, l'attività politica
dei monarchici, cercando anche contatti con circoli legittimisti favorevoli al
pretendente al trono Otto d'Asburgo. Le condizioni di Friederike, nel frattempo, non migliorano, e nel 1935 Roth
chiede il divorzio (in seguito la donna sarà vittima del programma di eutanasia
applicato dai nazisti, nel 1940). Joseph ha quindi l'opportunità di frequentare
altre donne, tra cui Andrea Manga Bell, redattrice di origini cubane. L'estrema gelosia dello scrittore porta alla rottura della relazione, ma
egli si consola con Irmgard Keun,
scrittrice incontrata in Olanda, con la quale va a vivere a Parigi alla fine
degli anni Trenta.
In questi anni pubblica
"Confessioni di un assassino, raccontata in una notte", "Il peso
falso", "La cripta dei cappuccini",
"La milleduesima notte" e "La leggenda del santo
bevitore". La situazione economica di Roth, tuttavia, è pessima, al
punto che il 23 maggio del 1939 viene trasferito in un ospizio per i poveri,
dove muore pochi giorni dopo, il 27 maggio, a causa di una polmonite bilaterale
che provoca una crisi di delirium tremens. Il suo cadavere viene sepolto a sud
di Parigi, nel Cimitero di Thiais. Muore, così, il cantore della "finis Austriae",
vale a dire colui che descrisse la scomparsa dell'impero austro-ungarico,
impero che aveva cercato di unire lingue, tradizioni, culture e religioni tra
loro diversissime.
Renzo
Montagnoli
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Presagio
di
Andrea Molesini
Sellerio
Editore Palermo
Narrativa
romanzo
Collana
La memoria
Pagg.
168
ISBN 9788838931956
Prezzo
€ 12,00
I
giorni prima dell’uragano
Questo
romanzo storico esce proprio nell’anno in cui si celebra il primo centenario
dello scoppio della Grande Guerra, un conflitto che, al di là di quello che
costò in milioni di vite umane, segnò una svolta epocale, con la fine
dell’Europa quale entità capace di dominare la scena planetaria, con la caduta
di tante monarchie, con l’avvento di un regime comunista e negli anni
immediatamente successivi alla sua fine con il sorgere in Italia del fascismo e
in Germania del nazismo che portarono al secondo grande scontro mondiale.
Andrea Molesini ha colto questa
occasione per imbastire un’opera strutturata come una tragedia greca (un
prologo, tre atti e un epilogo), ambientando la trama nella sua Venezia,
all’epoca meta di soggiorno della più facoltosa nobiltà e borghesia europea.
Quella descritta non è una città da cartolina, anzi è limitata al Lido e
all’isola di San Servolo,
l’isola dei matti, sede appunto del manicomio. L’autore, tuttavia, non si
limita solo a proporre una vicenda su quelli che furono gli ultimi giorni di pace, ma va
ben oltre, scende nei meandri dell’animo umano per evidenziare quanto
ineluttabili appaiano le grandi e piccole scelte nel destino di ognuno e tanto
qui a maggior ragione si comprende come siamo solo dei predestinati. Non è un caso
quindi se l’opera è introdotta da una frase di Rainer Maria Rilke (Il futuro entra in
noi, e si trasforma in noi, molto prima di accadere); questa epigrafe,
scritta dal grande poeta di lingua tedesca proprio in quel periodo, significa
in buona sostanza che ogni essere umano sa, sia pure inconsciamente, quel che è
prima che lo diventi. E’ una premessa drammatica e ben calza allo svolgimento
di questo bellissimo romanzo.
Se
fino a ora ho esposto l’opera nelle sue linee generali, ritengo opportuno
adesso dare qualche notizia in più, affinché il lettore si faccia un’idea più
precisa.
È
il luglio del 1914, il 28 giugno Gavrilo Princip a
colpi di pistola aveva spento a Sarajevo le vite dell’Arciduca Francesco
Ferdinando, erede al trono diAustria-Ungheria, e
di sua moglie Sofia, lo stato febbrile volto a una guerra, già in atto da
tempo, ha colto nell’attentato ai reali l’occasione propizia per
concretizzarsi. Schermaglie diplomatiche, più che altro dimostrative, animano
quel mese di luglio, ma ciò che già da tempo era stato deciso trova finalmente
il suo sbocco in una guerra che è il disperato tentativo per monarchie ormai
obsolete di contrastare la loro naturale fine, ed é così che queste (impero
russo, impero austro-ungarico, impero turco-ottomano e l’ancor giovane, ma
troppo tardi instaurato impero germanico) buttano sul tavolo da gioco della
storia le loro consunte carte, così che il 28 di luglio scoppia la prima guerra
mondiale. A Venezia, all’Hotel Excelsior,
il gran mondo riempie di frivoli cicalecci i saloni, esponenti di un’epoca,
chiamata Belle Epoque, in cui tutto sembra eternamente spensierato, in cui,
dietro un paravento di eleganza e nobiltà, si cela un profondo malessere, una
povertà di valori destinata, prima o poi, a esplodere.
Molesini avrebbe potuto parlarci
di questi sconosciuti per spiegarci quei giorni, ma anziché scrivere un romanzo
corale, come i suoi due precedenti, preferisce imperniare la sua trama su due
soli protagonisti, il commendator Spada, proprietario dell’Hotel e una sua avvenente
cliente, la marchesa Margarete von
Hayek. L’uomo non è insensibile al fascino della nobile dama, ma è un
pragmatico e comprende che per lui ella può rappresentare solo un esaltazione
dei sensi e non un vero e proprio amore, e di ciò ne trae profitto, accompagnandosi
con lei senza patemi, ma con impeti carnali. Lei è una femmina fatale,
pericolosa quindi, e depositaria di un segreto che, una volta svelato, ce la
mostra in un’altra luce. In questo contesto intimo la mostruosa macchina volta
all’inizio di una guerra acquista sempre più velocità, fino a quando il 28
luglio l’Austria dichiara guerra alla Serbia, che ha rifiutato un ultimatum
impossibile da accettare secondo il buon senso.
Il
discorso con cui il commendator Spada comunica ai suoi ospiti, seduti a tavola
per la cena, l’inizio delle ostilità è per me la parte più bella del libro e
già da sola giustifica la lettura dell’opera. Non c’è retorica nelle parole
dell’albergatore veneziano, ma tanto giudizio e soprattutto umanità. Sono
pagine che si leggono con vivo piacere, provando un’indicibile emozione. Quella
dichiarazione di guerra risuona nel silenzio generale del salone come una
condanna per gli appartenenti a un mondo che da lì a pochissimo sparirà e della
Belle Epoque, in cui tutto sembrava possibile purché lo si volesse, non resterà
che un vago ricordo e i dipinti del can can di Toulouse-Lautrec.
Nel
romanzo di Molesini questo
passaggio, questa fine di un’era è ben descritta, benché sembri toccare solo le
anonime comparse del suo libro. Per i due protagonisti e soprattutto per la
marchesa la convinzione che sia stato spazzato via un modo di vivere la vita in nuce già esiste in loro, nella loro storia
d’amore senza speranza, nella estrema sensualità di lei, secondo un copione già
noto, ma con una sua peculiarità: lei tende ad autodistruggersi, magari
coinvolgendo altri, come un presagio, lo stesso che sotto forma di incubo
accompagna le notti del commendatore, con quella bestia che è in noi ed è
pronta ad azzannarci. Guai a contrastarla, perché in fondo la guerra è
l’emblema di quella bestialità che ci è propria e solo con la consapevolezza
che è tipica dell’artista che si limita a osservarla e a descriverla è
possibile non essere dalla stessa sopraffatti.
Romanzo
che mette allo scoperto la più recondita natura dell’uomo, Presagio è
scritto con signorilità, senza mai trascendere e anzi misurando le parole una
per una (stupendi al riguardo i duelli verbali fra i due protagonisti), è volto
a un messaggio universale, a una ricerca della verità, a quel Wahrheitcon cui inizia il libro,
che si chiude con un finale enigmatico, ma segnato da una profonda pietà.
Se
l’impianto è teatrale, in un contesto di crescente tensione in cui par già di
udire i tuoni delle cannonate, Molesini ha
il pregio indiscutibile di accompagnare a una tragedia una vena poetica di cui
sia i due protagonisti che l’intero libro beneficiano ampiamente, e questo ha
effetto anche sul lettore che giunto all’ultima pagina ricava netta la
sensazione di aver letto qualche cosa di molto diverso dal solito, di avere per
le mani un’opera di grande valore letterario, una di quelle che, benché
riferita a un’epoca, è senza tempo, stupenda oggi come lo sarà domani.
Andrea Molesini ha pubblicato con
Sellerio Non tutti i bastardi sono di Vienna, che nel 2011 ha
vinto, tra gli altri, il Premio Campiello e il Premio Comisso, tradotto in inglese,
francese, tedesco, spagnolo e molte altre lingue, La
primavera del lupo (2013) e Presagio (2014).
ALTRI TITOLI IN
CATALOGO
Renzo
Montagnoli