25 aprile 1945 – 25 aprile 2006
di Renzo Montagnoli
Domani ricorre il 61° anniversario della liberazione, una festa, specie negli ultimi anni, fonte di contrasti e di diatribe ad opera di chi intende parificare, con identici diritti e dignità, i partigiani e i fascisti.
Con questa riflessione non intendo alimentare il fuoco che da sempre cova sotto le ceneri, ma voglio evidenziare l'importanza, spesso sconosciuta ai più, di questa festività.
Sì, indubbiamente si celebra la fine di una guerra tragica per il nostro paese, soprattutto dopo l'8 settembre del 1943; si può considerare altresì la liberazione dalla tirannia nazi-fascista e anche come con essa prese l'avvio il processo di democratizzazione del nostro paese.
Certo, il 25 aprile è tutto questo, ma per me assume un significato ancora più ampio, a suggello di quanto accaduto a seguito del raffazzonato armistizio voluto da un re per salvare se stesso, sordo, come per il passato, alla dignità dei suoi sudditi.
I Savoia, con le guerre di indipendenza, con la spedizione dei mille e con tutti altri episodi che videro gli allora cittadini dell'Italia più spettatori che protagonisti, riuscirono a unificare sotto di sé uno stato di notevole ampiezza, i cui abitanti erano simili più per un'identità di linguaggio che per dei comuni interessi.
Insomma, la famosa frase “Ora che abbiamo fatto l'Italia, dobbiamo fare gli italiani.” aveva un senso logico del tutto riscontrabile nella realtà.
L'identità nazionale non avvenne negli anni successivi, e nemmeno la prima guerra mondiale la facilitò; a maggior ragione anche il fascismo non riuscì a dare il suo contributo, poiché il senso d'orgoglio di essere italiani non era nelle coscienze, ma veniva imposto dall'alto.
Qualsiasi stato ha qualche evento che ricorda la sua unità nazionale, come gli Stati Uniti con la loro dichiarazione di indipendenza, come la Francia, con la presa della Bastiglia, tutti fatti in cui i partecipanti si ritrovarono ad avere comuni identità di vedute.
Per quanto possa sembrar strano, la guerra civile, scoppiata nel nostro paese dopo l'8 settembre del 1943, soprattutto con la costituzione della vassalla Repubblica di Salò, finisce con il costituire la nostra prova di nascita di un popolo.
Le quattro giornate di Napoli, altre rivolte meno note in Meridione, la guerra partigiana al Nord, con il loro carico di dolore e di lacrime, hanno finito idealmente con l'unire il povero bracciante del Salento con il contadino vignaiolo dell'Astigiano, emarginando chi voleva negare l'identità nazionale, in primis gli invasori tedeschi, e poi i loro alleati repubblichini, miranti solo a conservare privilegi del passato contro l'interesse di tutta la collettività.
E non è un caso che fra i partigiani troviamo persone di diverse ideologie politiche, mentre la stessa cosa non esiste nella Repubblica Sociale Italiana:
laddove c'era un'unione di cittadini, mossi dallo stesso anelito di libertà, nello staterello fascista si ritrovarono invece solo quelli intenti a difendere uno status quo precedente, e dunque per esclusivi interessi individuali.
Sono due concetti diversi di nazione che vengono a scontrarsi: l'uno volto ad affermare una comunanza di obiettivi e di affinità, l'altro teso a privilegiare il singolo sul collettivo.
Ecco perché per me il 25 aprile è anche, soprattutto, la festa dell'unione di un popolo.
Siamo a pochi giorni dalla conclusione delle elezioni che hanno identificato una nazione divisa in due; c'è chi ne sta approfittando, accentuando questa divisione, e in pratica minando le fondamenta della nostra nazione.
Da italiano dico a tutti gli italiani: non prestate orecchio, siamo uno stesso popolo e quella divisione che così tanto viene evidenziata è solo politica.
Abbiamo una stessa cultura, una stessa storia, patrimoni indelebili, costruiti spesso con il sangue; essi non verranno mai meno, non avranno quella temporaneità propria dell'illusione politica. Cerchiamo i punti di contatto, non quelli di divisione, pensiamo a un unico futuro, mostriamo al mondo che non siamo solo un popolo unito quando gioca la nazionale di calcio.
Qualcosa in cui credere
di Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso - Repubblica" 30 aprile
2012
«C'è
troppa indisciplina nelle nostre famiglie, propongo che quando
entrano i genitori, i figli si alzino in piedi»: parole del primo
ministro inglese, David Cameron. Dice che manca il senso del dovere
in Inghilterra. Manca anche in Italia. In tutta la società: c'è
troppa sregolatezza dappertutto, casa, scuola, lavoro, Parlamento.
In casa manca il rispetto per i genitori, a scuola manca il rispetto
della cultura, in azienda e in ufficio manca il senso del lavoro, in
politica manca il senso dello Stato. Non vogliamo essere al servizio
di niente, vogliamo che tutto sia al nostro servizio. I
figli non obbediscono ai genitori, gli studenti irridono i professori
su YouTube, in Parlamento ogni partito cura le proprie casse e i
propri voti. Che i figli si alzino quando entrano i
genitori forse è troppo, ma che si alzino gli studenti quando
entrano i professori è giusto. Una volta era un dovere in tutte le
scuole, adesso c'è un certo lassismo. Alzandosi in piedi quando
entra il professore, gli studenti mostrano rispetto verso ciò che il
professore porta: oggi spiegherà un canto di Dante o la teoria di
Copernico, tornando a casa tu, studente, passi in mezzo a migliaia di
persone che quelle cose non le sanno, il tuo insegnante ti regala
qualcosa di prezioso, che cambia la tua vita. Mostrare rispetto
significa mostrare gratitudine. Anni fa il Centro-Destra
proponeva che prima delle lezioni gli studenti assistessero in
cortile all'alzabandiera, dritti sull'attenti. Non se ne fece nulla.
E come si poteva farne qualcosa, se un partito di quell'alleanza
proponeva di tuffare la bandiera nel cesso? E che, i nostri ragazzi
si mettono sull'attenti davanti al cesso?
L'oltraggio alla
bandiera e al 25
aprile sono
segni di decadenza. Andrebbero puniti. Il parlamentare che dice: “La
bandiera italiana mi fa schifo”, andrebbe espulso dal
Parlamento.
C'è chi propone di abolire il valore legale della
laurea: i laureati si presentano ai concorsi tutti alla pari, a
prescindere dal punteggio con cui si sono laureati. E perché? Perché
ci sono università che regalano i voti, e università che
te li fan sudare. Ah, ma allora qui il problema non è nella laurea,
è nelle università. Fatele funzionare tutte, ma se io ho la laurea
con 110 e lode, pretendo che valga come tale. Il 110 e la lode sono
un merito, questa dev'essere la regola.
Chi ha un ruolo
pubblico, non può sgarrare neanche nelle piccole cose. Va al
ristorante? Se lo paga. Va in vacanza? Se la paga. Ce la paghiamo
noi, che guadagniamo un decimo di lui, perché non se la paga
lui, che guadagna il decuplo? Se uno ti offre qualcosa, acquista il
diritto di chiederti qualcosa, e tu governatore (in questo caso,
della Lombardia) diventi ricattabile.
Chi ha rubato non deve
soltanto smettere di rubare, deve anche restituire tutto quello
che ha rubato. C'era una vecchietta a Venezia, che si fingeva cieca e
tirava la pensione d'invalidità, lo Stato l'ha scoperta e adesso la
costringe a restituire tutti i soldi. Non li ha? Deve pagare,
o s'impicchi: le regole sono regole. Ma scusate, il figlio di
Bossi rubacchiava lo stipendio di consigliere regionale, 12 mila
euro al mese, non se lo meritava, lo ha riconosciuto e s'è
dimesso. Ma dove sono i soldi che ha intascato finora? Se
li tiene? Se lo Stato se li fa ridare, è uno Stato serio, se non se
li fa dare, è uno Stato-burletta.
Burletta
richiama burlesque: noi disperati per la crisi, con i più
disperati che si suicidano, e il nostro ex-capo di governo
rievoca le serate con fanciulle discinte, impegnate in gare
di burlesque? Qualcuna era anche vestita da suora: lui
chiede i voti ai cattolici, e poi profana ciò in cui credono?
Non
si salva niente, studio lavoro governo finanza tasse religione
bandiera… Se uno vuol salvarsi, vivere una vita che abbia una
dignità, al servizio di valori che la superino, deve trovarli da sé,
non nel pubblico ma nel privato, in famiglia. Per questo Cameron
pensa che bisogna salvare la famiglia, imporle una
disciplina. È che noi pensavamo la famiglia come regno dell'affetto,
non dell'autorità. Se dovessimo imporre l'autorità in famiglia,
perché fuori non ce n'è nessun'altra, sarebbe il danno più grave
che patiamo dalla nostra decadenza.
La Festa amara della Liberazione
di Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 25
aprile 2013
Grande
giornata oggi: Festa della Liberazione. Grandissima per coloro
che ricordano come la Liberazione è avvenuta. Per tutti costoro
la domanda è: è questa l'Italia Liberata? È così che la
si aspettava? È stato realizzato l'ideale di coloro che
hanno combattuto e sono morti per liberare l'Italia? Guardando
l'Italia di oggi sarebbero contenti?
No, non sarebbero contenti.
Avrebbero (hanno, quelli che sono ancora vivi) sorprese atroci.
Inutile girare alla larga ed evitare la sorpresa più amara: abbiamo
appena eletto il presidente della repubblica, e tra i candidati di un
partito assai votato dagli italiani c'era un volontario dei
repubblichini, i miliziani della Repubblica Sociale Italiana.
Partigiani e repubblichini erano i due fronti opposti. Gli uni
combattevano gli altri. La Repubblica Sociale era nata “dopo” la
nostra sconfitta militare, quand'era chiaro che la guerra era
perduta, i volontari che correvano ad arruolarsi nella RSI non
volevano vincere ma volevano (sono parole loro, il loro
programma) “morire come lupi”. Di fatto, i combattenti della RSI
sono stati cacciatori e fucilatori di partigiani. Forse non tutti. I
buoni ci sono dappertutto, anche tra i tedeschi di Marzabotto e
di Stazzema. Può darsi che questo volontario della RSI sia
personalmente incolpevole, ma se un nemico dei combattenti per la
Liberazione è oggi candidato alla presidenza della repubblica, vuol
dire che l'Italia non è nata sui progetti, le speranze, le attese
dei combattenti per la Liberazione.
Certo, siamo liberi, e la
libertà è il primo e massimo bene sognato nei giorni della
Liberazione. Possiamo votare, studiare, lavorare, essere per il
governo o per l'opposizione, pretendere che i nostri diritti siano
rispettati, citare in processo chi li calpesta, mandare al parlamento
chi vogliamo. Ma tutti questi diritti sono attuati in
parte, e alcuni in minima parte. Non possiamo mandare al parlamento
quelli che vogliamo, ma solo quelli prescelti dai partiti. Dunque non
c'è pieno diritto elettorale. Non possiamo citare in processo chi ci
fa un torto civile o penale. La Giustizia ha costi enormi, e dunque
funziona per classi sociali. Ha tempi lunghissimi, e una giustizia
che si fa aspettare anni e anni è un'ingiustizia. Molti
cittadini, quando patiscono dei torti, si rassegnano senza reagire.
Dall'altra parte, quelli che fanno i torti, li fanno contando
sul fatto che saranno puniti molto tardi o addirittura mai. Il lavoro
oggi non c'è, i figli pesano sui padri anche a 40 anni o
vanno all'estero. Quelli che restano in patria, urtano contro un
ostacolo che chi ha liberato l'Italia non sospettava che avrebbe
avvelenato le nostre vite oggi: tu vuoi lavorare e sai lavorare e
lavori bene, ma il lavoro non si ottiene per merito, questa Italia è
costruita sulla negazione della meritocrazia. Non solo nei
settori privati ma anche nei concorsi statali, anche quelli più
delicati come l'università o la Giustizia. Chi ha combattuto per
liberare l'Italia, e aveva contro di sé nemici criminali che
facevano stragi di civili, contava sul fatto che, dopo la
Liberazione, i criminali sarebbero stati perseguitati e scoperti e
processati e condannati in tutta Europa. Purtroppo non è così.
L'Europa non è nata sull'espiazione delle colpe, ma sull'oblio
delle colpe. Non parlo in assoluto, non voglio fare
un'affermazione contestabile: sto dicendo che non tutte le colpe sono
state indagate, alcune, enormi e mostruose, sono state coscientemente
nascoste. A insabbiare la Giustizia hanno lavorato governi
europei, anche governi italiani. No, non è questa l'Italia che chi
ha fatto la Liberazione sognava. La Liberazione è stata una
Rivoluzione generale, che doveva far partire una catena di riforme.
La catena s'è bloccata. Ricordiamocelo, oggi.
Ai quindici di Piazzale Loreto
di Salvatore Quasimodo
Ai
quindici di Piazzale Loreto.
Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi,
chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini,
Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio,
Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d'un albero
di
sangue, Galimberti, Ragni,
voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro
sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la
terra
nell'ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe
di piombo ci umiliano:
troppo tempo passò. Ricade morte
da
bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle
porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte,
credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non
è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è
vita.
Storia dell'Italia partigiana Settembre 1943 – Maggio 1945 – Giorgio Bocca - Mondadori - Pagg. 600 - ISBN 9788804430568 - Euro 11,40
Ne La repubblica di Mussolini Giorgio Bocca ha esaminato con grande spirito critico la realtà del rinnovato partito fascista dopo l'8 settembre, non tralasciando connessioni, accadimenti ed eventi della parte italiana antitetica all'occupante tedesco e alla vassalla repubblica sociale.
In questo voluminoso ed esauriente testo, invece, l'autore rivolge la sua attenzione al grande movimento partigiano non trascurando raffronti con i suoi oppositori.
E' un'opera di grande valore, perché condotta con rigore storico e in grado di offrire a chi non era presente un quadro di ampio respiro e aderente in modo plausibile alla realtà.
Si potrà obiettare che Bocca è stato un partigiano, ma non si potrà negare che l'affetto per questo grande moto popolare, pur emergendo fra le righe, non esime l'autore dall'effettuare osservazioni, dall'evidenziare aspetti ed elementi negativi, dando così la prova di una valida imparzialità che è sempre caratteristica dominante nelle sue opere.
Bocca, infatti, riesce a fondere in modo ammirevole la passione di ha partecipato in prima persona agli eventi con la lucidità dello storico.
E' così che l'armistizio dell'8 settembre, la liberazione di Roma, gli scioperi di Milano, Torino e Genova, il proclama di Alexander, l'epilogo dell'aprile 1945 con l'esecuzione di Mussolini rivivono nell'ampia ricostruzione di una guerra di popolo che si manifestò ai più svariati livelli e nei diversi censi.
Quel cercare poi di comprendere le ragioni degli altri finisce con il meglio delineare anche i motivi che indussero non pochi italiani a preferire la dura realtà della macchia opponendosi prima all'invasore tedesco e poi anche al suo alleato-subordinato fascista.
Come ne La Repubblica di Mussolini la storia assume nella trasposizione letteraria una trasformazione in narrazione di eventi, precisi, puntuali, ma senza mai giungere a stancare il lettore, con il risultato che si apprendono elementi caratterizzanti di uno dei più importanti periodi della nostra storia senza nessuna fatica, anzi con il piacere di scoprire pagina dopo pagina un nostro passato ancor recente.
E' inutile che dica che quest'opera è assolutamente imperdibile.
Renzo Montagnoli
La madre del partigiano
di Gianni Rodari
Sulla
neve bianca bianca
c'è una macchia color vermiglio;
è il
sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà.
Quando
il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu
che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà.
Quando
scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti
azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
La messa dell'uomo disarmato - Luisito Bianchi – Sironi - Pagg. 860 – ISBN88-518-0024-3 – Euro 19,00
Confesso che quando l'amico Remo Bassini mi ha parlato di questo libro e anche del suo autore è sorta immediata una naturale curiosità, cioè quella di conoscere che ne pensa un sacerdote, e Luisito Bianchi lo è, di un fenomeno di assoluta rilevanza quale è stata la Resistenza. A onor del vero, questo trepido desiderio è rimasto un po' frenato quando, in possesso del libro, mi sono accorto della sua mole. Al momento l'ho accantonato, perché 860 pagine mi spaventavano, e così è rimasto per una ventina di giorni sul comodino, quasi a vegliare la mia notte. Ogni volta che mi coricavo buttavo un'occhiata e quel bel campo di grano in copertina accresceva di più il senso di incertezza; poi, una sera, non ho resistito e l'ho preso fra le mani, ripromettendomi di iniziare con un paio di pagine. Se non avessi guardato l'orologio avrei fatto l'alba, perché quei piccoli fogli di carta fluivano fra le mia dita come le fresche acque di un ruscello e la lettura, oltre che gratificante, risultava lieve. C'è voluto il suo tempo, ma poi sono arrivato alla fine, non con un'aria di trionfo, ma con il dispiacere che non vi fossero altre pagine.
Questo preambolo mi sembra doveroso, proprio per evidenziare il fatto che, quando un'opera è di valore, non dobbiamo lasciarci influenzare dalla sua dimensione ed è quindi un invito a leggere questo romanzo, senza preconcetti, perché, al di là del suo elevato pregio. riesce a infondere nell'animo un senso di serenità, una quiete interiore sempre più difficile a trovarsi.
E' stato anche definito un romanzo sulla Resistenza e in questo senso è vero, perché ha saputo cogliere l'autentico significato di questo periodo storico che prima ancora che un fatto bellico è stato un evento umano, con quel ritrovamento di una dignità da tempo sepolta.
La messa dell'uomo disarmato non è però solo questo, ma molto di più. E' un romanzo sulla vita cristiana, sul rapporto fra uomo e natura, fra uomo ed Ente Superiore, sulle relazioni fra gli uomini. La visione di Luisito Bianchi non è cattolica, ma cristiana, nel senso che si è spogliato degli abiti talari quando si è accinto a metter mano alla penna e così del suo ufficio è rimasta solo la sostanza, quel continuo dialogo fra il razionale e il trascendentale che può benissimo essere sintetizzato nella frase di Franco, il narratore del romanzo: “Credi in Dio? Non so, come una volta, ma credo alla Parola annichilita e risorta per dare un unico senso alla morte e alla vita”.
L'origine contadina dell'autore si riflette poi nell'amore viscerale per la terra che permea tutto il libro, quella terra da coltivare con mani amorevoli, quasi fosse un essere vivente, con i ritmi di vita propri delle attività connesse e disancorati da quelli fissati dall'uomo.
La terra è una grande madre a cui i figli attendono con i lavori agricoli come pargoli che succhiano il latte dal seno e a cui, alla fine di una vita, ritornano, per formare con essa un'unica entità, in un ciclo costante che dura da millenni, in una simbiosi che da un senso a tutta l'esistenza.
La messa dell'uomo disarmato è anche il romanzo della pietà, non una pietà di comodo, ma quel gesto amorevole che deriva da una radicata umanità.
E così anche le tragiche pagine centrali del volume, quelle che parlano degli anni della resistenza, con tutti gli episodi di scontri bellici, di eccidi, di bestialità, finiscono con il diventare un messaggio di pace di rara bellezza ed efficacia.
Questo romanzo ha tanti personaggi, talmente vivi che sembra di vederli, e questo nonostante manchino le classiche descrizioni, perché per delineare le figure Bianchi si avvale delle loro azioni. L'autore non dimostra una spiccata preferenzialità per l'uno o per l'altro, però un po' più di attenzione c'è per i poveri e puri di cuore. Personaggi come Balilla, Giuliano e, soprattutto, Rondine sono di struggente bellezza, entrano nel lettore in punta di piedi e non escono più dal suo cuore.
Aggiungo, poi, che ci sono pagine in cui la capacità poetica di Bianchi si esprime ai massimi livelli: “Come al solito, quel lunedì 26 luglio 1943 l'avemaria suonò alle cinque e mezzo, saltellò sui tetti delle case, s'incontrò con la mano di porporina dorata che il sole s'era affrettato a pennellare sulle cime degli alberi,…”.
E di periodi come questo, di una dolcezza senza pari, ce ne sono altri, ma non sono un esercizio di stile, in quanto funzionali al massimo alla vicenda.
Bianchi ha scritto tante pagine, ma non ha usato una parola più del necessario, e anche se la prima parte può sembrare troppo lunga e l'ultima troppo breve, quasi affrettata, restando il corposo nucleo centrale l'essenza vitale del romanzo, sono dell'opinione che l'autore abbia agito per il meglio, componendo la sua opera come un grande concerto di musica sinfonica, dove il preludio è l'indispensabile base per comprendere il tutto e la fine è la naturale risposta a tanti perché.
La messa dell'uomo disarmato, secondo il mio giudizio, è un romanzo di una bellezza sublime, un autentico e raro capolavoro come pochi se ne trovano nella letteratura mondiale.
Renzo Montagnoli