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lunedì 11 marzo 2024

Gradara e la sua rocca

 




Gradara e la sua rocca

di Renzo Montagnoli

 

 

La costa adriatica non è costituita solo da stabilimenti balneari o da centri di villeggiatura assai conosciuti, ma presenta anche un entroterra di notevole valore paesaggistico, storico e artistico. Al riguardo, ho voluto sperimentare di persona nel corso di un breve soggiorno a Riccione e così ho deciso di visitare Gradara, che non si trova in Emilia, bensì nelle Marche, per quanto quasi a cavallo con il confine romagnolo.



Gradara dista da Riccione una ventina di chilometri di una strada statale abbastanza ampia, ma assai trafficata, l'Adriatica, che si percorre fin quasi dopo Gabicce, quando sulla destra c'è uno svincolo con l'indicazione della nostra meta. La carreggiata si restringe un po', ma diminuiscono anche i veicoli che vi transitano e in pochissimo tempo si arriva al paese, ben dotato di parcheggi, di cui quelli più vicini alla Rocca sono a pagamento con il classico parchimetro. Io e mia moglie, non per tirchieria, ma per fare una sana passeggiata, ci siamo fermati in uno dei primi e da lì a piedi, lungo una strada prima in leggera ascesa, poi più ripida, siamo arrivati alla porta d'ingresso di Gradara.



Al riguardo ricordo che il borgo antico è interamente circondato da mura, con i percorsi di ronda ancora fruibili, previo pagamento di un biglietto.

La strada principale interna conduce direttamente, dopo un breve percorso su cui si affacciano ristoranti caratteristici e negozi di oggetto ricordo, al terrapieno antistante il Castello di Gradara. Lì c'è la biglietteria ove si paga il diritto di accesso al monumento, ben conservato (e si capirà più avanti il perché) e famoso soprattutto per la tragica vicenda di Paolo e Francesca.



Ritengo ora necessaria un po' di storia, anche per inquadrare bene le caratteristiche di questa vera e propria fortezza.

La costruzione iniziò con una torre intorno al XII secolo per volontà di Pietro e Ridolfo De Grifo, che sottrassero la zona al comune di Pesaro. Nella prima metà del secolo successivo, Malatesta da Verrucchio, detto il Centenario, con l'aiuto del papa si impossessò della torre dei De Grifo e ne fece il proprio mastio intorno al quale venne costruito il castello, caratterizzato da tre torri poligonali coperte e da ben tre ponti levatoi, in un disegno difensivo di grande accuratezza che rese l'opera pressoché inespugnabile.



E' di quel periodo la vicenda, vera, di Paolo e Francesca. Infatti, nel 1275 Guido da Polenta decise di dare in sposa la figlia Francesca, che si dice fosse dolce e bellissima, a Giovanni Malatesta, detto Giangiotto, giovane di pessimo carattere e per di più zoppo. Il motivo di tale sposalizio sta nella riconoscenza del padre della fanciulla per essere stato aiutato appunto dal futuro genero a cacciare i Traversari, una famiglia che era nemica del suo casato.

Il decano, Malatesta di Verrucchio, appunto il Centenario, acconsentì, ma si aveva il fondato timore che Francesca rifiutasse di legarsi a Gianciotto, perché bello non era, aveva un pessimo carattere e inoltre presentava quel difetto fisico indubbiamente ben poco gradito a una dama.



Per evitare un eventuale rifiuto i Signori di Rimini e Ravenna studiarono un inganno. Infatti inviarono a Ravenna Paolo il Bello, fratello di Gianciotto, e tutto all'opposto di questi. Per farla breve, Francesca, alla vista di quel bel giovane, andò in estasi, tanto anche da non accorgersi, durante il rito nuziale, che Paolo la sposava, ma in forza di procura, cioè a nome e per conto del fratello che, si narra, s'infilò nottetempo sotto le coltri, così che la povera sposina al risveglio quasi venne presa da un colpo.

Ma come si conviene nelle famiglie nobili fece buon viso a cattiva sorte e accettò serenamente, almeno in apparenza, il suo destino, al punto che ebbe dal marito una figlia.

Tuttavia, capitava con una certa frequenza che il bel Paolo, proprietario di terre prossime a Gradara, si recasse a visitare la cognata in gran segreto. Di ciò si accorse un altro fratello, Malatestino dell'Occhio, detto così perché aveva un occhio solo, ma che probabilmente vedeva bene e intuiva anche meglio. Questi ne parlò a Gianciotto che, un giorno di settembre del 1289, lasciata la camera da letto, certo della presenza all'interno del castello di Paolo, fece finta di andare con la sua scorta a Pesaro, come faceva sempre per esercitare le sue funzioni di podestà, e invece ritornò sui suoi passi, utilizzò per rientrare un percorso segreto, raggiunse la camera della sposa, aprì di colpo la porta…. 

Dante, nel quinto canto dell'inferno, ci dà una versione addolcita della vicenda, quasi impregnata di romanticismo, ma se Gianciotto si infuriò cosi tanto da trafiggerli entrambi con la spada non è improbabile che si sia trovato di fronte i due in atteggiamento eloquente.

 

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

 

A legger Dante sembrerebbe si sia trattato solo di un fugace bacio, ma non è improbabile che i due fossero andati più in là e che questo acuì il desidero di vendetta di Gianciotto; questi era notoriamente brutto, di pessimo carattere, zoppo e per giunta cornuto.



La vicenda attirò l'interesse nei secoli successivi di poeti, narratori e pittori e ancor oggi è vibrante in questa sua aria di amore e morte, così che quasi aleggia sul castello lo spirito di questa unione tormentata, finita poi così tragicamente.

In seguito al posto dei Malatesta arrivarono gli Sforza e nel 1494 il castello vide fra le sue mura un'altra femmina fatale, bella, bionda, occhi cerulei, giovanissima. Era accaduto che, nell'ambito di una politica di consolidamento di alleanze, Giovanni Sforza aveva avuto la mano di Lucrezia Borgia, figlia del terribile Papa Alessandro VI. L'unione durò poco, nonostante l'accordo fra marito e moglie, ma Alessandro VI, nei suoi continui piani di conquista aveva bisogno di promettere in sposa la figlia ad altri e, poiché non sarebbe stato possibile in quanto già coniugata, a Giovanni Sforza fu posta una possibilità di scegliere: o non opporsi a che il matrimonio venisse annullato (ma in tal caso sarebbe stato ucciso), oppure sottoscrivere una dichiarazione di essere impotente. Fra le due secondo voi quale scelse?

Giovanni salvò la pelle, anche se l'ex cognato Cesare Borgia si impossessò del feudo di Gradara, ma per poco tempo, perché con la morte di Alessandro VI l'astro dei Borgia declinò rapidamente. A Gradara arrivò così Francesco Maria II della Rovere, nipote del nuovo pontefice Giulio II.



A seguito del decesso della sua vedova Livia Farnese, la rocca venne amministrata direttamente dal papato, che la concesse in enfiteusi al conte Santinelli, poi agli Omodei di Pesaro, indi agli Albani e infine, nella seconda metà del 1700, al conte Mosca di Pesaro. Alla sua morte  diventò di proprietà comunale e infine nel 1877 fu ceduta al conte Morandi Bonacossi di Lugo.



Intanto però tutto andava in rovina e fu provvidenziale nel 1920 l'acquisto, per Lire tre milioni, da parte dell'Ing. Umberto Zanvettori di Belluno. Quest'uomo profuse tutte le sue sostanze nel restauro dell'opera che cedette, poco prima di morire, allo Stato Italiano. La maggior parte dei lavori furono realizzati dall'ingegnere, mentre oggi ci sono alcune camere chiuse per le indispensabili opere di conservazione degli affreschi e fra queste purtroppo quella dove sulla parete è dipinta Lucrezia Borgia, nonché la famosa camera dei due amanti infelici, Paolo e Francesca.



La visita comunque consente di apprezzare le strutture murarie, fra le quali al piano terra la cosiddetta camera delle torture, che invece probabilmente era una cisterna di raccolta dell'acqua, e il corpo di guardia che conserva alcune alabarde dalla caratteristica fattura. Ai piani superiori vi sono numerose camere, la cui funzione si arguisce dall'arredo costituito sempre da un letto, oltre che da pregevoli mobili, di epoca eterogenea, nonché l'ampia sala del Consiglio, incastonata dagli scranni alle pareti ove sedevano i dignitari e i fiduciari del Signore.

La vista da questo piano da un lato volge alle dolci colline pesaresi e dall'altro al cortile interno, su cui ci si può affacciare grazie a un loggiato arioso che dona luce  al complesso residenziale, pressoché perfettamente conservato.



Orari d'apertura: da martedì a domenica: dalle ore 09:30 alle ore 18:30 (chiusura biglietteria ore 17:50); lunedì: dalle ore 9.30 alle ore 14.00 (chiusura biglietteria ore 13.15), da marzo apertura anche lunedì pomeriggio.

Biglietti d’ingresso:

BIGLIETTO INTERO:

8,00 dai 25 anni di età

  • INGRESSO GRATUITO:

per i cittadini italiani che non abbiano compiuto il 18esimo anno di età (vale anche per i cittadini stranieri a condizione di reciprocità nella gratuità)
• per i 
dipendenti del Ministero dei Beni Culturali
• 
guide interpreti turistici
• membri 
I.C.O.M.
• 
docenti e studenti di Architettura, Lettere, Conservazione Beni Culturali, Accademie Belle Arti, ecc.
• docenti con 
certificazione MIUR

In un'ora circa si visita tutto il castello e assicuro che merita.

Negli immediati dintorni ci sono altre mete di sicuro interesse, fra le quali il Montefeltro, la città di Pesaro, quella di Urbino, Gabicce e il suo monte, insomma c'è solo l'imbarazzo della scelta.

Gradara resta un raro esempio di borgo fortificato, ben conservato e facilmente accessibile al turista che desideri vivere per un po' l'atmosfera di un tempo ormai lontano.

 

NB: Le foto a corredo dell’articolo sono stare reperite in diversi Siti Internet




martedì 9 gennaio 2024

Il lago di Bolsena

 




Il lago di Bolsena

di Renzo Montagnoli




In Italia i laghi più estesi sono tutti al nord e, quasi tutti, sono di origine glaciale; nel resto del nostro paese i bacini lacustri sono presenze sporadiche e di modesta entità nel Mezzogiorno, mentre più frequenti si trovano in Umbria e nel Lazio, con quelli di quest’ultima regione che sono di origine vulcanica, nel senso che occupano il cratere di un vulcano spento. Non vantano grandi superfici, ma alcuni hanno una dimensione non disprezzabile, come quello di Bolsena che con i suoi 113 Kmq. è di poco inferiore all’umbro Trasimeno. Ed è appunto di questo che ora vado a parlare. Sito nella parte settentrionale del Lazio, in provincia di Viterbo, pare si sia formato oltre trecentomila anni fa in conseguenza del collasso della caldera di alcuni vulcani dei monti Volsini. Nella sua origine è il più grande in Europa, con una forma quasi rotonda, due isole, e un fiume emissario e un bacino idrografico di ben 273 Kmq. A ulteriore testimonianza delle sue origini vulcaniche ha spiagge con sabbia di colore nero riveniente dalla disgregazione delle rocce vulcaniche. Le coste sono in genere basse, interrotte da piccole penisole e con pochi promontori (il Monte Bisenzio, la Punta San Bernardino, la penisola di Capodimonte e la Punta di Sant’Antonio). Proprio per questo motivo gli insediamenti urbani sono stati facilitati e sorgono numerose strutture turistiche e balneari.



Fin dalla preistoria le coste del lago e le sue isole (Bisentina di 0,17 Kmq. E Martana di 0,10 Kmq.) furono abitate; erano villaggi palafitticoli e quindi nei pressi delle rive, ma non sulle stesse; in epoca etrusca assunse una grande importanza e sulle sue sponde sorsero quattro città: Visentum (l’odierna Bisenzio), Civita di Grotte di Castro, Cornossa e Bolsena, porto dell’importante urbe di Volsinii. In epoca romana, distrutta Volsinii, la popolazione fu trasferita a Bolsena, che prese il nome di Volsinii Novi; è in epoca tardo imperiale che avvenne il martirio di Santa Cristina che sarà poi proclamata patrona del lago.

Al riguardo è noto il cosiddetto Miracolo di Santa Cristina, la cui storia ho tratto pari pari dal sito Basilica S. Cristina – Santuario del Miracolo Eucaristico.

In un giorno imprecisato dell'anno 1263 (o 1264), forse nella tarda estate, giunse al santuario un sacerdote teutonico, al quale più tardi la tradizione attribuì un nome, Pietro, e una città d'origine, Praga. Sempre secondo la tradizione, Pietro aveva intrapreso il lungo e disagevole pellegrinaggio per sentirsi fortificato nelle verità di fede che in quel momento mettevano in crisi la sua identità di sacerdote, fra tutte la presenza reale di Cristo nell'eucaristia. Nell'animo di Pietro il ricordo della martire Cristina, la cui fortezza non aveva vacillato di fronte al martirio, aprì uno spiraglio. Dopo aver venerato devotamente la tomba della santa, in quel luogo celebrò l'eucaristia. Di nuovo i suoi dubbi cominciarono a turbargli la mente e il cuore; pregò intensamente la santa perché intercedesse presso Dio di donargli quella forza, quella certezza nella fede che l'avevano distinta nella prova estrema. Al momento della consacrazione, mentre teneva l'ostia sopra il calice, pronunciate le parole rituali, questa apparve visibilmente arrossata di sangue che copiosamente stillava bagnando il corporale. Al sacerdote mancò la forza di continuare il rito; pieno di confusione e di gioia, avvolse le specie eucaristiche nel corporale e si portò in sagrestia. Durante il percorso alcune gocce di sangue caddero anche sui marmi del pavimento e dei gradini dell'altare. Ripresosi Pietro dallo sbigottimento, accompagnato dai canonici di Santa Cristina e dai testimoni del prodigio, si recò nella vicina Orvieto dove temporaneamente soggiornava con la sua corte papa Urbano IV, al quale confessò il suo dubbio chiedendo il perdono e l'assoluzione. Il sommo pontefice inviò subito a Bolsena, Giacomo, vescovo di Orvieto, accompagnato, secondo la leggenda, dai teologi Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, per verificare il fatto e portare fino a lui le reliquie. Al ponte di Rio Chiaro, oggi ponte del Sole, avvenne l'incontro tra il vescovo, che tornava da Bolsena con le reliquie del miracolo, e il papa che, con il clero orvietano, i dignitari della sua corte e una grande folla agitante rami di ulivo, gli si era processionalmente recato incontro. Genuflesso, Urbano IV ricevette l'ostia e i lini intrisi di sangue, e li recò, tra la commozione e l'esultanza di tutti, nella cattedrale orvietana di Santa Maria, e dopo averli mostrati al popolò, li pose nel sacrario. Del prete teutonico non si seppe più nulla. Nello stesso tempo, durante la permanenza di Urbano IV a Orvieto, venne istituita dal pontefice la solennità del Corpus Domini con la bolla Transiturus de Hoc Mundo, l'11 agosto 1264 per il patriarcato di Gerusalemme e l'8 settembre per la chiesa universale, e fu affidato a Tommaso d'Aquino il compito di stendere officiatura e messa per la nuova festività, stabilendo che questa venisse celebrata il giovedì dopo l'ottava di Pentecoste. È lo stesso Urbano IV a dirci che in Orvieto con tutti gli arcivescovi e vescovi e gli altri prelati delle chiese dimoranti nella sede apostolica, abbiamo solennizzato la detta festa, per offrire un salutare esempio ai presenti e ai lontani che avrebbero sentito parlare della celebrità di questo grande giorno.”.



Nel Medioevo fu teatro di scorrerie di Longobardi e Saraceni, nonché di guerre fra Bolsena e i comuni limitrofi, tutti eventi che ne determinarono la decadenza. Con il ritorno a Roma del trono pontificio si ha un lungo periodo di quiete che consente una ripresa economica e dei traffici. Sarà solo nel 1871 che l’area del lago entrerà a far parte del Regno d’Italia, ma i primi anni non saranno sereni perché la zona verrà caratterizzata dal brigantaggio, debellato il quale iniziò una fase di progressiva, lenta, ma costante, crescita.

L’aspetto turistico è saliente, perché hotel e campeggi sono in funzione della balneazione, ma sarebbe riduttivo considerare interessante una visita solo per fare un bagno o prendere un po’ di sole, perché di cose da vedere ce ne sono non poche e anche di interessanti. Al riguardo un piccolo excursus su quelle che considero più che raccomandabili:




- la rocca Monaldeschi della Cervara a Capodimonte, eretta fra il XIII e il XXIV secolo dagli Orvietani, passò poi alla famiglia Monaldeschi; al suo interno c’è il museo territoriale di Bolsena, importantissimo per comprendere come Bolsena nei secoli si sia adattata alle variazioni territoriali;




- Marta è una piccola cittadina sul lago con un grazioso porto, tutto da scoprire;




- a Bolsena la basilica di Santa Cristina e le sue catacombe;




- a Montefiascone la Rocca dei Papi;




- a Capodimonte la Rocca Farnese;




- a Gradoli il Palazzo Farnese;




- a Grotte di Castro le “Cento camere”, grandiosa necropoli etrusca.

Fra un bagno e l’altro, quindi, è possibile visitare i numerosi centri rivieraschi non trascurando una puntata anche ad alcune città limitrofe, come le splendide Civita di Bagnoregio e Orvieto.

Le strutture ricettive sono adeguate e quindi non è un problema il soggiorno, tranne nei periodi di punta; in zona poi i ristoranti sono numerosi e la ristorazione è eccellente, come pure i vini, alcuni dei quali notissimi come l’est est est di Montefiascone e l’Orvieto.




Come arrivare

Il lago di Bolsena dista circa 40 km dalle coste del mar Tirreno, 50 km dal monte Amiata e poco più di 100 km da Roma. Il lago è facilmente raggiungibile in auto attraverso l’autostrada del Sole A1, dalla SP lago di Bolsena e dalla strada statale Aurelia SS1 e dalla statale Cassia SS 2. Per chi preferisce viaggiare con i mezzi pubblici, il bacino vulcanico è raggiungibile con il treno facendo scalo a Orvieto, Viterbo e Zepponami per poi proseguire con l’autobus. L’aeroporto più vicino è quello di Roma Fiumicino che dista circa 125 km, mentre il porto più importante nella zona dista 60 km e si trova a Civitavecchia.



Fonti: wikipediaLago di BolsenaLazio nascostoBasilica S. Cristina – Santuario del Miracolo Eucaristico.



Le fotografie a corredo dell’articolo sono state reperite in diversi siti Internet.



sabato 7 ottobre 2023

Alla ricerca del foliage

 

Alla ricerca del foliage

di Renzo Montagnoli


Ottobre mese autunnale da restare tappati in casa? Macché, con questo clima impazzito, con temperature che di giorno sono quasi estive e con dei bei cieli tersi è un mese ideale per fare delle gite, per vedere come muta la natura con il trascorrere dei giorni (sì, perché anche se il clima non è proprio autunnale il ciclo vivente, soprattutto quello dei vegetali, è invece quello tipico della stagione che precede l’inverno). Le foglie cambiano di colore e ai primi venti cadono. Il cosiddetto foliage si tinge di giallo e di rosso, nelle infinite tonalità, assicurando un quadro che sembra una tavolozza.

Dove andare per vedere questa meraviglia? Più o meno tutti abitano vicini a dei giardini e a dei viali, e pertanto si tratterebbe di fare due passi, ma ci sono mete ben più interessanti, non proprio vicine, ma nemmeno troppo lontane.

Ecco le tre che ho scelto:



La Val di Fumo




Ci sono valli alpine che, per l’andamento orografico o anche per una limitata accessibilità stradale, rappresentano tuttavia dei luoghi che è quasi eufemistico definire incantevoli. E’ così che la val di Fumo si presenta agli occhi degli escursionisti, una manciata di chilometri di natura selvaggia e rigogliosa. Estensione della forse più conosciuta val Daone, ben inserita nel Parco Naturale Adamello Brenta, è solcata da un intrepido torrente che scende dal grande ghiacciaio della Lobbia e che già si chiama con il nome per cui è da tanti conosciuto, cioè il Chiese. Valle tipicamente frutto dell’erosione glaciale, si estende nella direzione Nord-Sud, praticamente nel settore meridionale del massiccio dell’Adamello. 





L’itinerario ideale per scoprire questa bellissima vallata è quello che parte dal parcheggio del lago artificiale di Malga Bissina, a cui si può arrivare con una tipica strada di montagna, tuttavia ben tenuta e anche sicura. La quota di partenza è a 1.790 m. slm e il sentiero che si prende porta fino al Rifugio Val di Fumo, aperto nel 1960 e sito a un’altezza di 1.920 m. slm, con un dislivello complessivo di 195 metri, per niente impegnativo, anche perché spalmati lungo un percorsi di km. 5,500 che possibile effettuare in circa 90-120 minuti. Al parcheggio non si può fare a meno di ammirare la possente diga che ha formato il lago di Malga Bissina e subito si può intraprendere l’itinerario, scegliendo fra i due disponibili, ognuno dei quali segue una sponda del torrente Chiese. L’itinerario non presenta particolari difficoltà e quindi ci si può concentrare sulle bellezze del paesaggio, con sullo sfondo le innevate cime del Gruppo dell’Adamello, che hanno nomi che richiamano la memoria dei combattimenti che si ebbero ad alte quote nel corso della Grande Guerra: Caré Alto, Corno di Vigo e il Crozzon di Lares. Si arriva così al rifugio Val di Fumo quasi senza accorgersi, un fine corsa provvidenziale perché la fatica comincia a farsi sentire e con essa la fame. Oltre alle possibilità di pernottamento, c’è anche la ristorazione, di qualità indubbia, tale da saziare stomaco e palato. 





Poi, per chi volesse proseguire, non mancano itinerari più impegnativi, come quello che porta al Rifugio Carè Alto attraverso il Passo delle Vacche. Proprio vicino a quest’ultimo si possono trovare numerose testimonianze della Grande Guerra e per questo motivo è molto frequentato. 




Comunque l’escursione è su quote piuttosto elevate (3.000 metri), il che presuppone preparazione e attrezzatura adeguata. Punto di riferimento, o se vogliamo chiamarlo più appropriatamente Campo base, è il Rifugio Caré Alto, sito a 2.459 m. slm.; lungo la cresta del Caré Alto, a monte del rifugio, in un’ora di cammino si può arrivare al cannone austriaco Skoda, restaurato in quella che era la sua postazione originale. Oltre alle tracce delle guerra non ci si può sottrarre al fascino di panorami a 360° e che spaziano dalle cime e dai ghiacciai dell’Adalmello ai torrioni spettacolari delle Dolomiti di Brenta.




San Romedio, la chiesa sulla roccia


 


Ci sono motivi che vanno oltre fede, atmosfere che avvincono e che attirano irresistibilmente credenti, agnostici e atei.

E' questo il caso di San Romedio, uno dei più celebri santuari d' Europa, una meta da raggiungere almeno una volta nella vita per immergersi nella sacralità della natura e quindi per avvicinarsi a Dio.




Si trova nel Comune di Sanzeno, in provincia di Trento, in Val di Non e si può raggiungere percorrendo prima l'autostrada A22 (Brennero) con uscita a Mezzocorona. Di lì si prende la strada che porta a Cles, un percorso a mezza costa fra meleti che in settembre diffondono ovunque il profumo dei loro frutti maturi. Arrivati a Sanzeno, nella piazza del paese, si prende la stradina a destra che porta appunto all'inizio della gola al termine della quale c'è la nostra meta. Per quanto sia possibile giungervi in auto, tranne che nei mesi di luglio ed agosto, allorché il transito dei veicoli a motore è vietato, conviene fermare l'auto nell'ampio e comodo parcheggio a lato di un ristorante e proseguire a piedi, come i pellegrini.




Il percorso non è lungo, soprattutto se si segue lo stretto nastro asfaltato che corre nella gola di fianco al torrente. Consiglio però di prendere il sentiero attrezzato a mezza costa che, a parte la fatica dell'ascesa iniziale, poi si presenta agevole e offre un panorama veramente stupendo. In ogni caso si arriva poi ai piedi della roccia su cui sorge il santuario, un faro nel bosco che svetta sui pini e a cui si accede tramite una strada in salita non troppo scomoda.
Una volta giunti davanti all'ingresso ci si accorge della bellezza di quest'opera realizzata dall'uomo e costituita in pratica da tre chiese una sopra l'altra.

Sono tutte visitabili, a patto di avere ancora fiato per giungere in cima alla scalinata, costituita da ben 131 gradini.
E' un po' faticoso, ma ne vale senz'altro la pena, incontrando prima la cappella di San Giorgio (del 1487), poi la chiesa in stile gotico dedicata a San Michele Arcangelo e che risale al 1514, e infine la chiesa di San Romedio, del 1536, comprendente la cappella di San Vigilio, preceduta da un bel portale romanico, e infine in cima a tutto il sacello, cioè la cappella delle reliquie, il nucleo più antico risalente all'XI secolo e costruito vicino alla grotta dove visse l'eremita e ove si conservano le sue reliquie.



Stranamente il ritorno, cioè la discesa della scalinata sembra lieve; forse è l'atmosfera mistica che avvolge la sommità, oppure quel senso di appagamento che si prova nell'aver raggiunto una meta, ma resta il fatto che come si esce dal complesso già si progetta la prossima visita. Ah, prima di ripartire è opportuna una visitina agli orsi, che si trovano in un bello spiazzo recintato ai piedi della roccia, pigri e simpatici plantigradi ormai bene avvezzi alle vere e proprie frotte di turisti, custodi anche loro, come i francescani, di questo splendido monumento.
E il tema degli orsi mi ricorda che prima di ultimare questo articolo è giusto parlare di questo Romedio, vissuto tantissimi anni fa.

Romedio, in latino Remedius, era l'erede della prestigiosa casata tirolese dei Thaur e sulla fine del X secolo cedette tutte le sue ricchezze al vescovo di Trento, ritirandosi a meditare e a pregare in una grotta in val di Non, dove morì e intorno alla quale la devozione fece sorgere il Santuario.

Su di lui ci sono varie leggende, ma quella dell'orso è la più famosa; la bestia, affamata, gli divorò il cavallo che gli serviva per andare dal vescovo di Trento. Allora lui ammansì l'orso, ne fece la sua cavalcatura, con cui entrò poi in città.

Il Santuario è aperto tutto l'anno con orario dalle 9 alle 17 e con ingresso libero.



Se non siete ancora stanchi segnalo di seguito alcune mete interessanti negli immediati dintorni:

 

-         La diga di Santa Giustina, una delle maggiori a volta fra quelle costruite in Europa. Sbarra il Corso del Noce, dando luogo al lago di S. Giustina. L'opera è ardita con un'altezza di m. 152,50 e uno spessore alla base di m. 16,50. Splendida, ma terrificante, è la vista dalla sua sommità del letto del Noce;

 

-         Il lago di Tovel a 1178 metri s.l.m., inserito nel Parco Naturale Adamello-Brenta. Era noto soprattutto per la colorazione rossa delle sue acque in estate causata dall'azione di un'alga di nome Glenodium Sanguineum. Il fenomeno è stato visibile fino al 1964, anno dopo il quale si verificò la scomparsa di questa vegetazione lacustre, dovuta probabilmente all'inquinamento;

 

-         Castel Thun, costruito nella metà del XIII secolo, dimora e fortezza della famiglia Thun. Sorge su un colle a 609 metri d'altezza e gode di una magnifica vista panoramica. E' visitabile tutti i giorni, esclusi i lunedì non festivi, il 1° Gennaio e il 25 dicembre, dalle 10 alle 18. Chiuso negli ultimi anni per urgenti lavori di restauro, è stato riaperto ufficialmente il 17 aprile 2010. L'edificio conta ben 150 stanze impressionanti per sfarzo e raffinatezza.   





Il parco giardino Sigurtà




Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, a due passi da Borghetto, considerato il più bel borgo d'Italia, mollemente disteso in un anfiteatro contornato dalle colline moreniche del Garda, ospita, oltre al Castello e al ponte scaligero, anche un autentico gioiello, vale a dire il parco giardino Sigurtà.



Quest'area verde, che si affaccia sul profondo solco scavato dal fiume Mincio, che scorre con acque ancora cristalline poco più sotto, si estende per ben 600.000 mq. e trae la sua origine dal “brolo cinto de muro”  (1617), giardino di Villa Maffei, realizzata su progetto del Pallesina allievo del Palladio, dimora patrizia che nel corso della II guerra di Indipendenza fu il quartier generale di Napoleone III. Le fortune della famiglia Maffei non durarono a lungo e fu così che nei secoli successivi la proprietà passò di mano in mano fino a quando, nel 1941 il nuovo acquirente fu l'industriale farmaceutico di Milano Giuseppe Carlo Sigurtà. Il tutto era quasi in rovina e inoltre l'area collinare difettava di irrigazione, ma soprattutto quel che mancava era l'acqua, nonostante la vicinanza del fiume Mincio a seguito dei regolamenti di prelievo che impedivano di poterla attingere. Nel rovistare fra vecchie carte dei precedenti proprietari, Sigurtà ebbe la fortuna di scoprire un diritto concesso a Carlo Tullio Maffei di prelevare acqua, un diritto che era ancora valido e di cui l'originario beneficiario non si era mai avvalso.



Iniziò così la magnifica avventura del Parco Sigurtà, facilitata dalla possibilità di avere l'indispensabile acqua, ma anche supportata largamente in termini finanziari dalla passione del nuovo proprietario.



Occorsero tuttavia molti anni per arrivare a quello che è unanimemente considerato il più bel parco privato italiano; infatti l'inaugurazione, con apertura al pubblico, è datata 19 marzo 1978. Da allora i visitatori, italiani e stranieri, sono stati milioni, incantati dai bei viali, dalla fioritura in marzo e in aprile di un milione di tulipani, dal vale delle Rose con i suoi 30.000 esemplari, dall'enorme labirinto di 2.500 mq. costituito da ben 1.500 piante di tasso, dai bucolici specchi d'acqua impreziositi da stupende ninfee. E poi ci sono anche gli edifici, come il Castelletto, che in passato era una sala d'armi, l'Eremo, che è un piccolo tempio in stile neogotico, la Meridiana Orizzontale, la Grande Quercia, l'albero più antico fra quelli presenti, poiché ha più di quattro secoli.

Come se non bastasse, da un lato, volgendo lo sguardo in basso, si vede scorrere il Mincio e dall'altro, verso Sud, imponente e affascinante al tempo stesso si staglia il Castello Scaligero.  



Con il variare delle stagioni cambiano anche i colori, così se nella primavera le fioriture danno luogo a inebrianti policromie e in estate spiccano le alternanze di luci e ombre, nell'autunno le foglie dei vari alberi presentano sfumature di giallo e di rosso che hanno un fascino tutto particolare. Ovviamente, nella stagione morta, quella del riposo vegetativo e cioè l'inverno, il parco è chiuso ai visitatori.



Le parole, però, non sono in grado di fornire le emozioni che si provano nel vedere questa meraviglia, i profumi che soavi aleggiano e stimolano piacevolmente il senso dell'olfatto; ci si deve andare, considerando che a volerlo visitare tutto non s'impiega più di una mezza giornata, e ancor più velocemente si procede se, anziché andare a piedi, si noleggia una bicicletta o si prende il trenino che consente di arrivare nei punti migliori e più interessanti.

Per chi abita lontano, dico solo che è facilmente raggiungibile, che nelle vicinanze c'è una buona scelta di ospitalità e che è una zona in cui il mangiar bene e il bere ancora meglio è ormai una tradizione.

Pertanto, come al solito, di seguito riporto le informazioni necessarie.

Quando visitarlo

Dal 5 marzo al 12 novembre 2023, tutti i giorni con orario continuato.
Ingresso dalle ore 9.00 alle ore 19.00, chiusura ore 18.00.
Nei mesi di Marzo, Ottobre e Novembre ingresso fino alle ore 17.00, chiusura ore 18.00.

Il costo del biglietto

  Adulti

16,00

Ragazzi 5-14 anni

9,00

Bambini 0-4 anni

Gratis

Over 65

12,00

Disabili 100% (con certificazione)

Gratis - accompagnatore € 12,00

 

Nota importante: è vietato l'accesso agli animali al Parco, ad eccezione dei cani guida che accompagnino i non vedenti. 

 

Come visitare il parco

A piedi

A piedi, seguendo i percorsi consigliati o semplicemente la propria curiosità.

In trenino

Con il trenino che percorre l'"Itinerario degli Incanti" (35 minuti circa; € 4,00 a persona; gratis per i bambini inferiori al metro di altezza e per i disabili al 100%)

In bicicletta

In bicicletta elettrica (noleggio: € 6,50 all'ora)

In golf-kart

A bordo dei golf-cart elettrici potrete visitare il Parco grazie ad una speciale guida con tracciamento GPS in quattro lingue (italiano, inglese, tedesco, francese).
Un innovativo compagno di viaggio che offre ai visitatori tutte le informazioni relative alle attrazioni naturali che si snodano lungo il percorso.
Ogni golf-cart ospita un massimo di 4 persone e richiede che il conducente presenti la patente di guida B.
Il noleggio del golf-cart non è prenotabile ed ha un costo orario di 20,00 € all'ora.



Come arrivare

In auto

 

Autostrada A4, uscita Peschiera del Garda, 8 km in direzione Valeggio sul Mincio.

Autostrada A22, uscita Nogarole Rocca, direzione Valeggio sul Mincio all'uscita Affi Lago di Garda Sud, direzione Parchi del Garda

In treno

 

Stazione di Verona Porta Nuova: proseguire con autobus ATV, linea Verona-Valeggio sul Mincio. Stazione di Peschiera del Garda: proseguire con autobus APAM, linea Peschiera-Mantova. Visita il sito www.trenitalia.com/ per conoscere gli orari dei treni.

In autobus

 

Da Verona: visita il sito http://tech.atv.verona.it/atv_www/orari_extraurb/orari/atv_localita_V.html per conoscere gli orari degli autobus provenienti da Verona (linea Verona-Valeggio sul Mincio)

Da Mantova e Peschiera del Garda: visita il sito www.apam.it/linee per conoscere gli orari degli autobus provenienti da Mantova e da Peschiera del Garda (linea Mantova-Peschiera, n.46).


 

Parcheggi

Parcheggio gratuito esterno adiacente al Parco.
È inoltre possibile parcheggiare nei numerosi parcheggi pubblici nei pressi del parco.