I miei amati figli sconosciuti
di Milvia Comastri
Vi voglio raccontare dei miei figli.
Vi dirò dei miei figli come se non fossero
figli miei.
Come se non fossero nati dal mio sangue e
dal mio sudore, nella sofferenza e nella gioia.
Scriverò dei miei figli con distacco.
Vi mostrerò l’odio che li ha divorati. Lo
farò come il macellaio che espone con metodo i tagli di carne sul banco del suo
negozio.
Mi inoltrerò nella loro storia indossando
una corazza.
Riporterò i fatti che loro mi sciorinano
nel buio, nelle nere notti d’incubo.
Sbarrerò le emozioni con due assi
inchiodate, piantate a croce sul cuore.
E che Dio, un qualsiasi dio, mi assista.
La madre li aveva attesi con curiosità e
impazienza. Li aveva chiamati Andrea e Luca. I padri non c’erano: di loro
restavano soltanto, riposte in qualche cassetto, una maglietta scucita su una
spalla e una poesia interrotta sulla parola verità. Era stata lei
ad allontanarli. Dovevano essere solo suoi, quei due figli. Come erano solo
suoi i libri che scriveva. Una creazione della sua carne, così come i
personaggi dei suoi romanzi erano una creazione della sua mente.
Andrea, il maggiore, aveva la carnagione
scura, gli occhi grigi che facevano pensare a un cielo di novembre, quando il
sole filtra faticosamente fra la compattezza delle nuvole. Il viso aveva una
bizzarra forma triangolare, la fronte era una fascia ampia, il mento, un angolo
acuto tagliato da una fossetta. Ricordava una creatura silvestre, una volpe, un
elfo. Aveva le ossa minute e le scapole sembravano due piccole ali, come se
dovesse innalzarsi all’improvviso e scomparire nell’aria. Dava un senso di
incompletezza a chi lo vedeva per la prima volta, quasi ci fosse un dettaglio
da aggiungere, un tratto da definire. Ma il disagio cessava quando il volto del
bambino si apriva a un sorriso. Ti incantava, quel sorriso, ti faceva nascere il desiderio di chinarti e depositare una carezza su
quei capelli corvini.
Luca era roseo e biondo. Si era fatto ben
presto più alto del fratello maggiore. Era solido, compatto. Una figura
definita. La scultura di un piccolo dio pagano, con una certa arroganza negli
occhi azzurri che ti induceva a distogliere lo sguardo. Aveva mani forti,
tozze, e se le portava spesso alle orecchie quando non voleva ascoltare. La sua
esca era la voce d’angelo, così limpida e armoniosa, che gli adulti cessavano
quasi di respirare, quando cantava.
La madre era consapevole solo del sorriso
e del canto, non rilevava nessuna disarmonia nei figli tenacemente voluti e
amati. Continuava a crescerli, a volte con distrazione, a volte imboccandoli di
parole e sguardi d’amore. Soddisfatta, osservava come fossero legati, come
l’uno seguisse l’altro, come nessuno dei due cercasse la compagnia di altri
bambini.
Vengono a trovarmi di notte, i miei figli
intossicati. Strisciano nel buio della stanza, si arrampicano lungo le pareti,
si issano in cima al guardaroba, dondolano attaccati alle tende, e cominciano a
parlare. Distendono le pieghe nascoste di storie che credevo di conoscere;
sgretolano il passato, pietra su pietra. Luca inizia per primo, quasi sempre.
Ma a volte è Andrea che lo precede.
«Non hai mai visto nulla», inizia. «Eri
cieca, mamma. I miei bravi bambini, dicevi, i miei bravi ragazzi, hai
continuato a chiocciare anche quando siamo cresciuti. Ti riempivi del mio
sorriso, ti esaltavi alla sua voce. Eri così orgogliosa che i tuoi amati figli
stessero sempre insieme, che noi ti paragonavamo a una stupida chioccia
gongolante mentre osserva sfilare la sua ultima covata».
«In questo, mamma, eravamo uniti», lo
interrompe Luca «Nel giudicarti, nel paragonarti a una gallina, nel
sentirci soffocare da tutte le tue parole. Eravamo così solidali, sai, nel non
volerti perdonare la cecità che ti impediva di vederci come eravamo, la cecità
che ha permesso che la nostra pazzia ci annientasse. Eravamo uniti, mamma,
quando sentivamo la fame di un padre che tu ci hai negato. Lui, figlio di una
maglietta, e io…io figlio di una poesia interrotta».
«Eravamo bambini cattivi, mamma», riprende
Andrea. «Eravamo abili architetti del male. Il nostro cercarci era
solo il desiderio di infierirci a vicenda colpi mortali, ferite non
rimarginabili. Fin da piccoli, sai, mammina?»
Andrea era il serpente, Luca lo squalo.
Come se fossero stati oggetto di una mutazione genetica che invece di alterare
i corpi avesse alterato loro l’anima.
Andrea colpiva velocemente, bastava una
piccola frase buttata lì, fra i compagni di classe: mio fratello piscia
nel letto, oppure mio fratello si fa le seghe pensando a quella
strega della prof di inglese.
Luca era lento, metodico. Preparava piani.
Un pomeriggio aveva trovato del veleno per topi in cantina, ben sigillato con
metri di nastro adesivo. La madre, prima di riporlo, aveva disegnato un teschio
sulla carta, e quel simbolo lo aveva elettrizzato. Ci aveva pensato per giorni,
a quel pacco. Poi una domenica mattina aveva preso dal frigorifero un pugno di
carne tritata, ed era sceso in cantina.
Andrea aveva trovato Toby, il suo
cane, rigido, con gli occhi rovesciati, il muso insozzato da una bava
biancastra, vicino al cancello del giardino. La madre aveva accusato il vicino.
Andrea aveva pianto molto: gli zigomi appuntiti gli erano rimasti arrossati per
ore.
Luca era lo squalo, Andrea il serpente.
C’erano cellule impazzite che si nascondevano sotto il canto d’angelo e il
celestiale sorriso.
Luca scovava insetti nel terreno umido del
giardino. Atterrava Andrea, gli si metteva a cavalcioni. Con due dita gli
stringeva il naso per impedirgli il respiro. Nel momento in cui il fratello,
privo d’aria, apriva la bocca, lui gli infilava l’insetto morto in gola. Poi si
alzava, e mentre l’altro era squassato dai conati di vomito, Luca si metteva a
canticchiare a bassa voce The Mosquito dei Doors.
Andrea spargeva semi velenosi di
calicanto, menzogne: mio fratello è frocio, mio fratello ha
paura del buio e dorme con mia madre, mio fratello è pazzo, si
sveglia di notte e comincia a ululare come un cane.
Me le raccontano loro, queste storie,
nelle ore cupe della notte, quando il fluire della sabbia nelle clessidre
sembra fermarsi e la luce è solo un lontano miraggio.
«Non sentivi l’odore della paura nelle
magliette di Andrea, Mamma»?
«Non ti sembrava strano che non
avessimo proprio nessun amico, Mammina?»
La madre aveva buttato occhiate frettolose
a piccoli indizi, ma li aveva accantonati: il vicino che aveva giurato di non
aver mai neppure pensato di avvelenare il cane; certi graffi addosso ad Andrea;
lo sguardo di Luca, attraversato a volte da una fiamma inquietante.
I silenzi, fra loro; un modo di muoversi circospetto, da animali.
La madre era appagata: aveva un lavoro che
amava, si chiudeva nello studio e scriveva fino a notte alta. I bravi bambini,
i bravi ragazzi, si facevano compagnia, sembravano non aver bisogno di lei.
Invece lei aveva bisogno di loro e allora li chiamava, li voleva accanto, e li
baciava, li odorava, gli leggeva le cose che aveva appena scritto. Poi li
lasciava andare con una carezza, lo sguardo già impigliato in nuove storie, in
altri personaggi.
I ragazzi crescevano: diciotto anni Andrea,
sedici Luca. Con gli anni era aumentata la forza distruttiva, quella miscela di
odio e complicità che impediva loro di confessare alla madre le crudeltà che si
infliggevano. Un codice mai tradotto in parole, quel non dire, il non
accusarsi mai per i soprusi, per le menzogne.
Quando, nel culmine del furore che li
assaliva, stavano uno di fronte all’altro, vicini, i pugni serrati, i nasi che
quasi si toccavano, si riconoscevano lo stesso sguardo, la stessa luce di
follia. Era in quei momenti che si sentivano ben più che fratelli. Si
percepivano l’uno l’immagine speculare dell’altro. Sentivano di appartenersi,
in quei momenti, di essere uniti da una diabolica catena che non si sarebbe mai
potuta spezzare.
Anche Andrea ormai si serviva della forza
fisica, per colpire il fratello. Sempre più squalo, sempre meno serpente, si
rotolava con lui nella polvere, mordeva, stringeva, storceva.
Sono venuti anche questa notte, i miei
figli. I miei folli, amati figli. Sono giunti in silenzio, solo
il tocchettio dei piedi nudi sul pavimento mi ha avvertito della loro
presenza. Ho acceso la luce, speravo che se ne andassero. Ma sono rimasti. Mi
hanno avvolto in un sudario, mi hanno rimboccato coperte di ghiaccio. Si sono
seduti sul mio letto, uno a sinistra, l’altro a destra.
Non riuscivo a distinguerli: Luca aveva il
mento appuntito di Andrea, Andrea gli occhi azzurri di Luca. Si erano
mischiati, confusi fra loro. Ho spento la luce: non potevo tollerarne la vista.
Andrea ha cominciato a parlare, la voce
acuta che graffiava la lavagna della notte.
«Era solo un cagnetto, mamma, un povero
cagnetto abbandonato nel prato».
«Sì, un cagnetto, mamma, uno schifoso
cane giallo con la coda mozza», lo ha interrotto Luca, il timbro
profondo che sembrava oscurare maggiormente il buio, «Un brutta
bestia sporca che pareva essere arrivata lì proprio per un sacrificio».
«Era un bel cagnetto, mamma, era
come Toby. E lui ha cominciato a tirargli sassi. Lo ha colpito a una
zampa, poi alla testa. È così che è andata, mammina, è così che è andata».
Il cane aveva tentato di sfuggire alla
sassaiola, trascinandosi la zampa ferita, arrancando a fatica sull’erba
ingiallita dal sole. Quando il sasso lo aveva colpito alla testa era riuscito
ad arrivare fino alla montagnola di pietre, poi si era accasciato stordito. I
due ragazzi stavano venendo verso di lui: uno correndo, l’altro calmo, con
passi pesanti, decisi. Il cane aveva cominciato a tremare. Aveva paura di tutti
e due, anche del ragazzo che non gli aveva fatto alcun male. Sentiva che il
calore, la voglia di correre nei prati, di inseguire una femmina, di abbaiare
alla luna lo stavano abbandonando. Sentiva che stava morendo.
Quello dal muso di volpe gli si era
accovacciato accanto, e aveva emesso un suono acuto. Poi si era rialzato, aveva
preso una grossa pietra e l’aveva scagliata contro l’altro.
Avvicinavano i loro corpi, si scrutavano,
si allontanavano. L’uno girava intorno all’altro, si assalivano, si mordevano,
si spingevano.
Lo sguardo del cane non riusciva più a
mettere a fuoco le immagini. Forse era l’avvicinarsi della morte, o forse era
il turbinare della polvere che i due, rotolandosi a terra, sollevavano. Pietre:
c’erano pietre che si abbattevano sulle ossa, che schiacciavano, che
frantumavano. Tonfi sordi e ansiti e ringhi.
Sangue. Odore dolce e ferino di sangue.
Rantoli.
Il cane fu scosso da un brivido.
Poi rimase immobile.
E fu silenzio.
Andrea stava disteso accanto a Luca, di
sghimbescio, la testa appoggiata sul suo petto. Un braccio di Luca gli cingeva
le spalle. I loro occhi erano sbarrati sul rosso dell’ultimo tramonto.
Alla fine era arrivata la pace.
Vi ho raccontato dei miei figli. Vi ho
detto dei miei figli, perché li portiate dentro di voi. Perché siate capaci di
comprendere la loro follia e di accoglierla fra le vostre braccia. Quando
torneranno a trovarmi io non ci sarò. C’è un altro posto che mi attende. Un
posto dove il nero non ha limiti, dove anche il silenzio non ha confini.
Siate voi, vi prego, una madre migliore,
per loro, di quanto lo sia stata io.
Da Squilibri (Tombolini,
2016)