Prima del buio
di
Già, già, si andava ripetendo nel guardare ciò che restava di tutte le sue fortune: una camera incolore e disadorna, che un tempo ospitava il cuoco di quello che era stato il suo castello e che ora, in altre mani, gli era stata caritatevolmente concessa dal nuovo proprietario, un commerciante di suini arricchitosi anche troppo in fretta.
Senza fonti di sostentamento, praticamente in miseria, il conte Gherardo Uguccione di San Colombano, casato di antiche origini e di cui si parlava già nel tardo medioevo, misurava a occhio la sua attuale dimora, nulla più di un loculo come con ironia, ma anche con tristezza, la definiva.
C’era stato invero un passato glorioso, se può definirsi tale il continuo svolazzo di un farfallone fra i tavoli dei tapperi verdi delle case da gioco e le alcove di numerose dame, nobili e non, perché tanto nel letto non contano i titoli, ma gli attributi.
Aveva così sperperato il notevole patrimonio lasciatogli dai suoi avi, fra una partita a chemin de fer e una notte di fuoco, di passione amorosa travolgente, in continue assillanti trombate, come le definiva lui, che si compiaceva anche di essere un vero campione in materia, grazie a doti fisiche non consuete e a esperienze che lo avevano visto protagonista fin dall’adolescenza, prima con le serve di casa, e poi con nobildonne, popolane, perfino con una suora, in un turbine di letti disfatti e di respiri affannati. Sì, perché lui si considerava un gran trombatore, un virtuoso di quello strumento proprio solo degli uomini e che lui amava chiamare tromba.
Ancor adesso che la sua bella epoque era finita amava ricordare amplessi con donne di cui non rammentava più il nome, ma che nel silenzio accogliente di una camera da letto guardavano stupite il suo membro lasciandosi sfuggire termini di meraviglia, che, a seconda del ceti, andavano da “che spada” a un “Uh signur!”, senza dimenticare quella che si era messa a urlare, con gli occhi lucidi e fissi sull’affare: “Diu belu! Diu belu!”.
E lui affondava la spada, anzi lo spadone, implacabile, e quelle si beavano, come Giuditta, la serva di casa con cui aveva avuto il primo rapporto, una donna avanti con gli anni, ma ben tornita, che nell’eccitazione continuava a ripetere: “No, signorino, no!!, ma che poi, verso la fine della cavalcata doveva aver cambiato opinione perché urlava: “ Sììì! Così, ancora, dai, spingi, non fermarti!”. E lui era un moto perpetuo, capace di prestazioni di ore, una macchina infernale che travolgeva ogni inibizione e portava a orgasmi parossistici. Mai sazio, sempre pronto, a chi lo definiva un tombeur des femmes, rispondeva sorridendo che lui era un trombateur des femmes.
Vista la continua ricerca di nuove fonti di piacere non si era mai sposato, nel timore d’incontrare una moglie arcigna che, in un modo o nell’altro, gli intralciasse l’attività, e poi il matrimonio era un rischio grosso, un legame con un essere che nel tempo poteva rivelarsi del tutto sbagliato, come era capitato al suo amico Ubaldo Francesco Maria conte di Copertino. Questi, suo compagno di scorribande notturne, ma beninteso di più modeste caratteristiche, aveva creduto di cogliere due piccioni con una fava quando aveva impalmato la duchessa Agrippina Desdemona di Sant’Erasmo, in possesso di un gran patrimonio, ma ossuta, strabica e con un naso a proboscide, una dama da tutti rispettata e additata ad esempio come ricca di virtù cristiane che si esprimevano con la messa giornaliera, cui la sera seguiva il rosario, e con frequentissimi pellegrinaggi a Lourdes. Se l’attaccamento religioso poteva essere di ostacolo alle scorribande notturne del marito, tuttavia restavano le frequenti assenze per questi viaggi di pietà cristiana, senza dimenticare poi che fin dalla prima notte aveva voluto dormire in una camera separata e che il maggior atto di intimità con il marito era un fugace bacio sulla guancia il giorno della partenza per la località francese.
Tutto bene, quindi, si sarebbe detto, ma si vede che a Lourdes i miracoli non è che siano infrequenti e così era successo che al ritorno di uno di questi viaggi Agrippina era entrata nottetempo nella camera da letto del marito e come una furia aveva preteso gli arretrati dei doveri coniugali.
Per farla breve, dopo due mesi di amplessi a tutte le ore, una mattina, in cui il sole era offuscato da una nebbia lattiginosa, il conte Ubaldo, al termine dell’ennesimo rapporto, aveva alzato gli occhi al cielo, sbarrandoli, e così era rimasto per alcuni mesi, prima di esalare l’ultimo respiro.
Gli anni passano, si ripeteva Gherardo. Si invecchia, aggiungeva con timore. E con rammarico concludeva: la tromba è da un po’ che non suona e un ultimo assolo, prima del silenzio, non può mancare.
Le forze, se pur ridotte c’erano, la voglia era ben presente, ma quello che mancava era lei, l’altra. Nei tempi delle vacche grasse non era difficile trovarla, ma ora che era in miseria e alquanto invecchiato, come avrebbe fatto?
Si mise a pensare ed elencò mentalmente tutti i punti del piano.
Prima di tutto doveva trovare la femmina, possibilmente piacente e meglio ancora se giovane; avrebbe attuato una manovra di aggiramento per portarla a sé, poi una cenetta e infine la nottata, nel suo attuale loculo.
Il programma sembrava perfetto e ora si dovevano trovare solo l’obiettivo e i mezzi necessari, già i mezzi, lui che non aveva un soldo in tasca e viveva con piccoli prestiti che gli elargivano vecchi amici nella consapevolezza che non avrebbero avuto di ritorno quel denaro. Qualche cosa si poteva fare, ma non un lume di candela in un noto ristorante con le tovaglie ricamate e il cameriere sempre alle spalle, pronto a spinare la sogliola e versare lo champagne nel calice. Contò e ricontò e vide che l’unico locale per la cenetta intima non poteva che essere una pizzeria. Concluse così fra sé e sé: Meglio di niente, e poi oggi è di moda, soprattutto fra i giovani, e io la voglio cercare giovane, giovane come quella biondina dell’Est che incontro ogni mattina nel parco comunale, un tipino non appariscente, ma ben fatta, occhi svegli, bocca invitante e gambe snelle. Sì, quella deve essere l’obiettivo, anzi sarà lei, disse spegnendo la luce e apprestandosi a dormire.
Si appostò il giorno dopo nel parco e quando la vide arrivare finse di perdere i guanti di camoscio, facendo in modo che lei notasse.
- Mi scusi, signore, le sono caduti.
Si chinò a raccoglierli e nel farlo la scollatura della camicetta scivolò verso il basso, lasciando intravedere buona parte di un seno sodo e ben tornito.
- Grazie, signorina, troppo gentile. Permette che mi presenti: sono il conte Gherardo Uguccione di San Colombano.
- Piacere, Elena.
Quel nome, che richiamava colei che originò la guerra di Troia, lo scombussolò, gli fece venire in mente la bellezza quasi da dea della consorte di Agamennone e avvertì chiaro che la tromba cominciava a risvegliarsi.
- La vedo tutte le mattine, più o meno a quest’ora.
- Faccio un po’ di moto e passo anche il tempo, perché sono senza lavoro.
- Senza lavoro una ragazza sveglia, intelligente e bella come lei?
- Putroppo sì e per quelli come me è più difficile trovarlo, perché non siamo italiani.
- Di dov’è?
- Di Minsk in Bielorussia.
- Ah, sì – e lo disse così per dire, perché di questa Minsk e di questa Bielorussia non ne sapeva nulla.
- E’ un peccato, ma vedrà che troverà, anzi mi attiverò per cercarle un’occupazione, tanto più che lei parla bene la nostra lingua.
- Grazie, grazie. Ho studiato italiano all’università, facoltà di lingue, ma ho lasciato prima della laurea per problemi economici, gli stessi che mi hanno spinto a emigrare e a venire in Italia.
- Per far questo devo avere da lei un po’ di notizie.
- Comincio subito…
- No, non corra, ho un impegno importante con un industriale siderurgico, affari consistenti, e non posso tardare. Facciamo una cosa: me ne parla stasera. Ci troviamo in pizzeria, ha presente Il Vomero, quella proprio all’inizio di questo parco?
- Sì.
- Ebbene, ci troviamo là alle venti, mangiamo una pizza, che ovviamente le offro io, e intanto parliamo.
- Oh grazie, signore, conte…
- Di nulla, mio dovere.
E si allontanò senza voltarsi, affrettando il passo, proprio come se temesse di far tardi a un appuntamento importante.
Lui era davanti al Vomero già alle 19,30, ma defilato, nascosto dietro un chiosco, in una zona non illuminata, da cui sbucò, quando alle venti in punto, Elena arrivò.
- Puntuale, noto. Brava, apprezzo questo pregio.
Entrarono, si sedettero a un tavolo, ordinarono due pizze e una birra e quando queste, fumanti e ben cotte, furono scodellate nei piatti, fra un boccone e l’altro, iniziarono a conversare.
- Sì, ho capito che lei è quasi laureata, ma non è facile oggi trovare lavoro. C’è la crisi anche per noi, ma farò il possibile, senza poterle dare certezze, se non che il mio impegno sarà totale.
- Grazie, signor conte.
- Macchè signore, macchè conte, i tempi sono cambiati, i titoli sono spariti, oggi ci si da del tu, Elena.
- Vede…
- Vedi, dì vedi, mi devi dare del tu.
- Vedi, con te voglio essere sincera: a me va bene qualsiasi lavoro, perché non ho un soldo e questa pizza è il primo e unico pasto di oggi.
Il conte la fissò assorto, imbambolato.
- Non stai bene?
- Non so – rispose quasi meccanicamente, perché stava ripensando alle donne che aveva avuto, ben nutrite, dame e popolane, a conquiste fatte per abilità di maschio e non per fame. Per la prima volta provò vergogna e poi pietà per se stesso; per la prima volta si accorse che esistevano anche degli altri, persone in carne e ossa, cuori pulsanti, vite che aveva ignorato, quasi comparse in quella che era l’unica esistenza da considerare meritevole di ogni attenzione, la sua.
- Non ho nemmeno più un posto per dormire. Avevo prima una cameretta in affitto, una stanza di fortuna, che pagavo quattrocento euro al mese, ma senza soldi non ho più potuto saldare la pigione e allora il padrone, un usuraio, mi ha gettato fuori.
La tromba diede un segno di risveglio, ma fu subito frenata.
Gherardo non riusciva a scuotersi di dosso quel torpore, anzi avvertì chiaramente che il peso degli anni di colpo gli piombava addosso, un macigno che lo soffocava e di cui avrebbe potuto liberarsi solo smettendo di mentire con gli altri e soprattutto con se stesso.
- Potrei dirti di venire a casa mia, ma non è più casa mia; ci sto, per pietà altrui, perché sì sono nobile, ma decaduto; ho scialato tutta la vita, ho fatto quello che si dice la bella vita, ma tu sei qui ora, sei giovane e non puoi non godere della gioventù. E’ un’età unica in cui si dovrebbe vivere spensierati e fiduciosi nell’avvenire, e invece…Dico solo che non è giusto che tu e altre ragazze, altri ragazzi vi troviate in un mondo che o vi rifiuta o vi sfrutta.
Elena non sembrò meravigliata di quella confessione, anzi dimostrò di apprezzarla.
- Tu sei una brava persona, la prima che ho trovato da quando sono in Italia, la prima che non mi ha messo le mani addosso, la prima che non ha cercato di portarmi a letto, la prima che forse è stata sincera, e proprio per questo è impossibile che un uomo come te abbia gettata alle ortiche la sua vita.
- E invece è vero, mi sono illuso di un’eterna gioventù e di una ricchezza inesauribile, ma poi la realtà, gli anni che diventano sempre più pesanti, la solitudine che mi stringe quasi ad affogarmi sono lo specchio di una vita che, come hai detto giustamente tu, ho gettato alle ortiche. Il fatto è che io sono un fallito, in modo irrimediabile, mentre tu invece sei la vittima di una società ingiusta; per me non ci sono scusanti, avevo e ho scialato, sono stato la cicala che ha cantato al vento.
Si passò una mano fra i capelli e si accorse che gli occhi gli si stavano riempiendo di lacrime, che cercò di frenare invano.
Lei gli mise le mani sulle guance, a raccogliere quelle perle di dolore, e lui lasciò fare, poi, abbassando il capo, riprese a parlare.
- Tu sei giovane, puoi ancora riemergere e Dio sa quanto vorrei poterti aiutare, ma non sono in grado.
- L’appuntamento con l’industriale era una bugia, vero?
- Sì, ma a quest’età ci si vuole illudere di contare ancora, di essere importanti; scusami. In verità, lo confesso, ciò che volevo era una notte d’amore con te e adesso ti lascio e torno nel mio loculo.
- Sei una brava persona, Gherardo, e adesso so che sei sincero; lascia solo che ti accompagni.
- Va bene.
Lungo il tragitto la mano di lei cercò quella di lui e infine la trovò, una mano fredda, ossuta, con le vene in rilievo, quella di un vecchio.
Arrivarono al castello e sull’ingresso le mani si strinsero ancor di più.
- E’ stata una bella serata, la più bella forse della mia vita; non pensar male per quello che sto per dirti. Non voglio approfittare di te, ma non hai più un alloggio e quindi, se sali con me, questa notte non dormirai sotto le stelle.
- Non so.
- Non preoccuparti, non ti toccherò, te lo giuro.
E si accorse di essere sincero, perché il suo non era più desiderio, ma affetto, e la prova, nel caso occorresse una conferma, era dall’assoluto riposo della sua diabolica tromba.
- Salgo.
Il letto era un tre quarti, da starci coricati in due, ma addossati.
Le carezzò i capelli biondi.
- Potresti essere mia figlia.
- Potresti essere mio padre.
- Potremmo essere una famiglia come le altre.
Nella camera rischiarata dalla luna si accorse che lei si spogliava.
- No, non voglio farlo.
- Ma dormo sempre nuda, quando sono in casa!
- Va bene, fa pure.
Lei scivolò nel letto, gli carezzò i capelli, e, sussurrata una buona notte, si addormentò.
La luce della luna filtrava dalle imposte, un debole chiarore che che pareva galleggiare nella camera.
Lui guardò a lungo il suo corpo nudo, la rotondità dei fianchi, il Monte di Venere sospeso come un giardino pensile, guardò e poi disse fra sé: Cara tromba, è giunto il momento di metterti per sempre a riposo.
Chiuse gli occhi e lo colse il sonno; quando la luce dell’alba illuminò la stanza e lo svegliò, si volse per una paterna carezza, ma lei non c’era più.
Andò al parco, ma quel giorno non venne, e lo stesso il giorno dopo, e l’altro ancora, non venne mai più.
Si sedeva su una panchina, accanto a un altro vecchio, che un giorno gli chiese perché stesse sempre lì.
- Attendo - rispose - attendo ciò che non tornerà. E lei perché è qui?
- Attendo come lei che il mio giorno finisca.