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Lui passerà
per il camino
di Renzo
Montagnoli
Fu un inverno freddo quello del 1944 e con tanta,
troppa neve. Quando la guerra sembrava concludersi da un momento all’altro, il
proclama di Alexander rivolto ai partigiani affinché sospendessero le ostilità
raggelò tutti: gli italiani, inermi, privi di tutto, sfibrati dai bombardamenti
alleati e che sopravvivevano solo nell’attesa della liberazione, nonché gli
stessi coraggiosi che da un anno combattevano, con enormi sacrifici, sia in
montagna che in pianura, contro i nazifascisti.
Questi ultimi, ormai consapevoli dell’esito della
guerra, intensificarono invece le ostilità, con una brutalità senza precedenti
di cui furono vittime sia gli uomini della resistenza che la popolazione
civile. Fu intensificata, fra l’altro, la caccia agli ebrei, con esiti
raccapriccianti e di uno di questi il paese serba ancor oggi, commosso, il
ricordo.
Agli inizi di dicembre la città e tutta la
provincia furono oggetto di una retata capillare, a cui parteciparono sia le
famigerate SS che le non meno odiate Camicie Nere.
Ben pochi israeliti riuscirono a sfuggire, o perché
avvisati in tempo da qualche doppiogiochista che già allora cercava di
assicurarsi il futuro, oppure per pura casualità, come avvenne per Isaia Forni,
un bimbo di appena sei anni.
Quando la marmaglia sfondò la porta di casa e
catturò i suoi genitori, lui si trovava da una vicina, una signora anziana che
voleva fargli vedere il suo gattino. La donna, nonostante il pericolo, lo tenne
con sé qualche giorno fino a quando, a una parente che le fece visita, propose
di portarlo con lei in campagna, in un posto ritenuto più sicuro.
Fu così, che una settimana prima del Natale, Isaia
Forni arrivò in paese e, poiché le sfortune spesso si sommano, subito nel
pomeriggio perse la sua accompagnatrice, mitragliata da un aereo alleato mentre
in bicicletta percorreva l’argine diretta a una fattoria per vedere di poter
avere un po’ di latte.
Della presenza del piccolo era già stato informato
il parroco, Don Zeffirino. Appresa la tragica notizia della scomparsa della
signora, se lo portò in canonica e decise di tenerlo lì, nonostante fosse un
giudeo, ma come ebbe a dire una volta finita la guerra, davanti a Dio non ci
sono cristiani o mussulmani, o ebrei, ma solo uomini, e nel caso specifico un
bambino innocente, già duramente provato per la perdita dei suoi genitori.
Se lo coccolava con gli occhi, si divertiva a
guardare il suo stupore quando lo portava in chiesa, provava una gioia immensa
nel sentirsi il suo protettore e già sognava di renderlo partecipe della messa
di mezzanotte, non per farne un cristiano, ma perché vedeva in lui, con tutte
le sue sofferenze, l’immagine di Cristo.
Per quanto questa ospitalità fosse mantenuta il più
possibile segreta, arrivò alle orecchie di qualcuno e così, l’antivigilia, una
squadraccia fascista bussò con i soliti modi alla porta della canonica.
Don Zeffirino, sempre sul chi vive, li aveva visti
arrivare e aveva nascosto prudentemente il bimbo nel confessionale.
- Sappiamo che c’è un piccolo ebreo e in base alle
leggi sovrane della Repubblica Sociale Italiana dovete consegnarcelo.
Don Zeffirino guardò il capo manipolo con occhi
stupiti e rispose: - Non c’è nessun ebreo, in questa canonica.
- C’è, ne siamo sicuri e se non è in canonica, è
nascosto in chiesa. O ce lo consegnate, o andiamo a prenderlo.
- Vi assicuro che vi sbagliate e se vi azzardate a
fare un altro passo, o a mettere i piedi in chiesa con queste armi spianate,
dovrete passare sul mio corpo.
- Va bene, prendiamo atto delle vostre dichiarazioni
e non vogliamo inimicarci anche il Padreterno. Adesso usciamo, ma chi ritornerà
non avrà così tanti riguardi.
Girarono i tacchi e se andarono.
Don Zeffirino si accorse solo allora di quanto
sudasse, nonostante il freddo. Era riuscito a parare il primo colpo, ma sapeva
bene che il secondo, qualora al posto delle camicie nere fossero arrivati gli
uomini delle SS, sarebbe stato fatale.
Fu così che andò a prendere il bimbo e lo portò,
quasi nascondendolo sotto la tonaca, dalla Tilde, la moglie di Annibale
Chiocchetti che solo più tardi sarebbe stato conosciuto con il soprannome di
Guercio e che all’epoca era da qualche parte, sugli Appennini, con i
partigiani.
- Tilde cara, ti chiedo un gran piacere: puoi
tenere questo bambino per un po’, non tanto, finché si calmano le acque.
- Come è bello, Don Zeffirino: ha gli occhi neri,
vivi, ma velati di tristezza. E’ rimasto orfano?
- Forse sì.
- In che senso?
E allora il prete raccontò tutta la storia.
- Può restare quanto vuole, come se fosse un altro
mio figlio, e anzi può giocare con Giacomo, tanto dovrebbero avere più o meno
la stessa età. - E dicendo così, nell’accarezzare i capelli di Isaia, rivolse
uno sguardo dolce a quel figlio, avuto immediatamente prima della guerra e che
così poco aveva conosciuto il suo papà.
- Mi raccomando solo una cosa: nessuno deve sapere
che c’è.
- Naturalmente.
Come preavvisato dai fascisti, il giorno dopo
arrivarono, su una macchina nera due loschi figuri, lugubri e laidi
nell’aspetto, che si qualificarono come membri della Gestapo e che senza
chiedere tanti permessi cercarono in ogni dove, nella canonica e in chiesa, e
che se andarono sbattendo la porta.
I due bimbi fecero subito amicizia e poiché Giacomo
aveva acquisito dalla madre una fervente religiosità, il giorno della Vigilia
si mise a fare il presepe.
Isaia lo guardava e presto cominciò a incuriosirsi
e chiese di partecipare a quello che credeva un gioco.
Giacomo, con la naturalezza tipica dei bimbi, gli
spiegò che era quasi un rito religioso e Isaia si mostrò ulteriormente
interessato.
- Chi è quel bambino che metti nella mangiatoia?
- Gesù.
- E chi è Gesù.
- Era un bambino come noi, ma poi diventò grande,
tanto grande, al punto che quando parlava tutta la gente l’ascoltava e lo
seguiva nel suo girovagare.
- Che diceva?
- Diceva di essere il figlio di Dio e che era
venuto sulla terra per redimere gli uomini, per farli diventare tutti buoni e
bravi, e inoltre diceva che siamo tutti fratelli.
- Era grande sì, quasi come il mio papà.
- Anche quasi come il mio, ma di più, perché lui è
il papà di tutti.
- E’ vissuto tanto tempo fa?
- Quasi duemila anni fa.
- Tanto, e lo si ricorda sempre così, come un
bambino?
- No, anche come un uomo adulto inchiodato a una
croce.
- Ah, sì, quando l’uomo con il vestito lungo nero
mi ha nascosto in una specie di casetta c’era un uomo grande, mezzo nudo,
appeso a due assi incrociate e con una corona di spine in testa.
- Quello è Gesù.
- Ma perché ricordarlo così?
- Perché lui si è fatto giustiziare per salvarci
tutti.
- Che buono che doveva essere! E chi è stato così
cattivo con lui?
Giacomo rimase assorto, non sapendo che rispondere,
nel timore di offendere il suo piccolo amico e poi sbottò:
- Quelli che non erano cristiani come lui.
- Dovevano essere proprio cattivi per fare una cosa
simile.
- Sì, ma l’hanno fatto per ignoranza.
- Povero Gesù, trattato male come noi ebrei.
Il Natale trascorse abbastanza tranquillo e perfino
Pippo, l’aereo da bombardamento che assillava le notti della gente, se ne
stette un po’ alla larga.
Poi venne Santo Stefano e la Tilde e Don Zeffirino
cominciarono a pensare che Isaia era finalmente al sicuro, ma l’ultimo giorno
dell’anno la Gestapo ritornò e andò a colpo sicuro.
Quando bussarono pesantemente alla porta, la Tilde
sentì una fitta al cuore e capì che era finita.
Aprì tremando e i due corvacci in nero entrarono
senza presentarsi.
- C’è un bambino ebreo e noi lo vogliamo.
- Non ci sono bambini ebrei.
- Noi vediamo due bambini e siamo sicuri che uno è
ebreo e che si chiama Isaia Forni.
- No, c’è solo mio figlio Giacomo e suo cugino
Ettore, che ha perso i genitori e la casa in un bombardamento.
- Siamo stati anche troppo pazienti, ma tutto ha un
limite. Ripeto: vogliamo, e subito, l’ebreo!
- Quale ebreo?
Per tutta risposta, la Tilde si prese un ceffone
che la fece cadere a terra mentre i due piccoli cominciavano a piangere.
- Non lo ripeto più: quale è l’ebreo?
Non ci furono risposte.
- Va bene! Facciamo così: li porto via tutti e due.
- No, vi prego no, se avete un cuore, se anche voi
avete dei figli, non fate una cosa del genere.
- L’ebreo, o li porto via entrambi.
Fu allora che, con il capo chino, Isaia si fece
avanti e disse, con voce tremante: - Sono io, Isaia Forni.
Lo presero e alla domanda della Tilde su dove
l’avrebbero portato, risposero sogghignando:
- Lui passerà per il camino.
Ancora non si sapeva che volesse dire, ma la Tilde
pensò al peggio e guardò per l’ultima volta, con animo angosciato,
quell’esserino che veniva portato via come fosse un delinquente.
Non fu difficile scoprire chi fosse stato
l’ignobile delatore, anche perchè Aldo Marchetti, soprannominato Gerarchetto,
lo stesso che aveva indotto con il suo comportamento Annibale Chiocchetti a
darsi alla macchia, se ne vantò la sera stessa all’osteria.
La guerra terminò e di Isaia Forni non si ebbero
più notizie, se non dopo un paio d’anni, quando la comunità israelitica lo
rintracciò fra i deceduti del lager di Buchenwald. Don Zeffirino non lo
dimenticò mai e fu sempre presente nelle sue messe dei morti.
Quanto a Gerarchetto, scomparso dalla scena negli ultimi
giorni del conflitto, ricomparve dopo la costituente fra le file democristiane
e fu uno dei primi deputati del neoparlamento, e tutto questo come se nulla
fosse accaduto, come tanti altri, del resto.
(da Storie di paese)
Foto da web
Nei suoi
occhi
di Renzo Montagnoli
- Vieni via dalla
strada.
Franco si volse a
guardare la madre che gli faceva cenno di rientrare e rimase fermo sul ciglio
della strada.
- Non vedi che passano
i soldati che vanno al fronte, che gli autocarri rombano e quasi ti sfiorano?
No, non vedeva quello
che diceva sua madre; le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi, ma nemmeno
le coglieva. Sentiva invece dentro di sé svilupparsi altre visioni: truppe a
cavallo che procedevano al galoppo, elmi scintillanti nella luce del sole,
spade lucenti sguainate come in una delle tante storie che il nonno gli aveva
narrato, battaglie antiche, cozzi di scudi, scontri da cui sempre usciva
vincitore il più buono, il più bravo.
E anche ora che
soldati stranieri sfilavano davanti a lui diretti verso il vicino fronte non
riusciva a scorgere altro che gli eroi di quelle storie.
Si sentì strattonare e
trascinare in casa.
- Vuoi capirlo che è
pericoloso stare lì fuori!?La guerra non è un gioco e tutti quei tedeschi lo
sanno bene. Prova a guardarli in faccia: sembrano granitici, impassibili, ma
non possono non aver paura e quando si combatte si muore anche.
- Le storie del nonno,
però…
- Appunto, sono
storie, favole, ma hanno sempre un fondo di verità e tutte le battaglie di cui
parla ci sono state, anche se tanti anni fa.
Franco non disse
niente, accostò una sedia alla finestra, vi salì per guardare, al riparo dei
vetri, la fila interminabile dei soldati e riprese a fantasticare.
Sua madre si rivolse
al nonno, quasi appisolato accanto al focolare – Pa’, smettila di raccontargli
delle battaglie dei secoli passati. Non vedi che non riesce più a vedere la
realtà, che non capisce che siamo in guerra e non in una delle tue storie.
- E’ troppo brutto
questo tempo perché Franco possa accettarlo. Non è che un bambino di sei anni e
i suoi occhi vedono la tragedia della guerra in modo diverso dai nostri, e
forse è meglio così.
- Meglio un corno! Non
voglio crescere un figlio che non è mai presente, che rifiuta la realtà,
creandosi un mondo tutto suo.
- Passerà, passerà…
- E se non passa? E se
poi in tutta la vita, anche quando verrà la pace, si rifiuterà di essere parte
del mondo di tutti?
- Per il momento è
meglio così; non voglio che viva con il timore che è sempre dentro di noi; non
voglio che debba trasalire ogni volta che bussano alla porta; voglio che i suoi
sonni rimangano leggeri e non come i nostri popolati da incubi.
- Va bene, hai sempre
ragione tu.
- No, non è vero che
ho sempre ragione, ma qualche volta il mondo deve apparire diverso da quello
che è e questo è più facile per un bambino.
Già stava calando il
sole e con esso il numero delle truppe che percorrevano la strada del paese.
Quando fu tutto buio e
non si udì più il rumore sordo degli scarponi chiodati sul selciato, Franco si
scostò dalla finestra e si mise a sedere accanto al nonno.
- Hai un’altra storia,
nonno?
- Sì, ma non questa
sera; è lunga e te la racconterò domani. Ora mangia e poi va di corsa a letto.
Pur a malincuore
Franco obbedì e mise sotto i denti quel poco che c’era, poi si coricò.
Rimase a lungo a occhi
aperti, contando i travicelli del soffitto, poi si sovvenne di una storia
narrata dal nonno qualche giorno prima, di un cavaliere indomito che per il
bene di tutti combatteva contro i draghi e, mentre nella sua fantasia ne
assumeva le sembianze, il sonno lo colse.
Al canto del gallo si
risvegliò, porse l’orecchio alla strada, ma non udì rumori: tutto era quiete
nell’alba di quel giorno. Si alzò e andò in cucina: il nonno si era
addormentato accanto al focolare e aveva lasciato cadere la vecchia pipa. Il
fuoco era spento e faceva abbastanza freddo; allora prese sulle ginocchia
Marameo, il vecchio gatto, che si mise a far le fusa. La prima luce che entrava
dalla finestra sciabolava il buio della camera, accentuando le ombre, in cui si
immaginò di vedere schiere di armigeri, mentre il nonno era il suo fido
scudiero e il micio che si strisciava contro il suo grembo altri non era che il
destriero che presto l’avrebbe portato a cavalcare alla testa dei suoi prodi.
Improvvisamente udì
bussare alla porta, prima un colpo forte, poi un vero e proprio tambureggiare.
D’istinto si raggomitolò e quando in un frastuono di assi spezzate l’ingresso
fu sfondato rimase impietrito nel vedere due ossessi che entravano nella
stanza, gridando come pazzi.
- Rauss, rauss…
Accorse sua madre e subito
si prese un ceffone da uno dei due che allungò anche un calcio al nonno che
faticava ad aprire gli occhi.
- Fuori, tutti fuori,
andare in chiesa.
E furono spinti in
strada, dove già c’era un corteo di insonnoliti paesani che procedeva, fra
calci e pugni, verso la vecchia chiesa parrocchiale.
Si sentiva l’acre
odore del fumo di alcune case che bruciavano e, ogni tanto, delle urla
strazianti e poi degli spari.
Avvertì che qualcuno
gli prendeva la mano e si volse a guardare: era il nonno, con il volto teso,
che si sforzava di sorridergli.
- Che cosa succede
nonno?
Il vecchio non
rispose.
- Che succede,
insomma?
Mentre le lacrime gli
rigavano il volto prese in braccio il nipotino e a bassa voce parlò.
- Ti racconto la
storia che ti ho promesso e non aver paura, perché tutto quello che sta
succedendo è parte di essa.
Tanti anni fa il
nostro paese è stato invaso da un’orda di lanzichenecchi, mercenari tedeschi
che non si fermavano davanti a nulla. Dove passavano l restavano solo macerie
fumanti e uccidevano tutti, ma non sapevano che c’era qualcuno con cui
avrebbero dovuto fare i conti. Infatti, un cavaliere delle nostre parti, Franco
da Barberino aveva radunato degli armati e si apprestava allo scontro decisivo.
- Si chiamava Franco
come me!
- Sì, come te ed era
forte e coraggioso.
Nel frattempo erano
arrivati alla chiesa e furono costretti ad entrarvi. Il tempio, di per sé
piccolo, non riusciva quasi a contenere tutta la gente. Il parroco cercò di
parlare con il capo dei tedeschi, ma per tutta risposta gli spararono alla
testa. La soldataglia poi abbatté il portone della chiesa e portò un autocarro davanti all’ingresso.
All’interno i più
piangevano e molti pregavano perché ormai avevano capito.
Il nonno si mise
davanti al nipotino, quasi come per fare scudo.
- Lo scontro avvenne
proprio in paese, sulla piazza della chiesa. I lanzichenecchi erano molti di
più degli armigeri di Franco, ma questi non avevano paura, perché sapevano di
essere nel giusto.
Fu alzato il telone
dell’autocarro e così apparve una mitragliatrice con i suoi serventi.
- La battaglia iniziò
all’alba e…
La voce si troncò di
colpo, mentre partivano le prime raffiche della mitragliatrice.
Il vecchio si
afflosciò su se stesso, mentre il sangue schizzava ovunque fra le grida, prima
di terrore, poi di dolore. I serventi, con calma, alimentavano il mezzo di
morte con nuove pallottole e continuarono a sparare come se nulla fosse, come a
una esercitazione. Poi, a un cenno del capo, si fermarono; nella chiesa furono
gettate una mezza dozzina di granate e quindi entrarono un paio di soldati. Si
aggirarono nel carnaio, rivoltando i corpi; se qualcuno ancora respirava gli
sparavano.
Franco, coperto dal
corpo del nonno, era ancora vivo, anzi non era nemmeno ferito.
Se ne stava zitto,
tutto lordo di sangue, e non riusciva a pensare a nulla; tutto gli sembrava
così irreale, e non un sogno, ma un incubo.
Quando, sollevato il
corpo del nonno, il tedesco lo scorse rimase un attimo senza decidere, poi
prese un altro caricatore e lo infilò nel fucile.
Franco lo guardava
stupito: era questo quindi il lanzichenecco?
Sì, lo era e allora
chiuse gli occhi e si vide nei panni di un grande condottiero che andava a
combattere il male per il bene di tutti, in una battaglia cruenta dove anche il
suo scudiero era stato massacrato.
Il campo era quello
tipico di un grande combattimento ed erano più i morti che i vivi, anzi erano
sopravvissuti solo lui e il capo nemico, e adesso loro si sarebbero affrontati.
Il tedesco armò il
fucile, guardò un attimo quel piccino dagli occhi chiusi che, rialzatosi, gli
stava davanti, ritto, quasi impavido, poi alzò la canna dell’arma verso l’alto
ed esplose un colpo.
- Finito?
- Finito.
- Allora usciamo e
andiamo a Sant’Anna di Stazzema.
L’autocarro ripartì
rombando, fra canti sguaiati.
Il piccolo riaprì gli
occhi e si guardò intorno: Franco da Barberino aveva vinto la sua
battaglia.