domenica 3 novembre 2013

Non c'é festa, di Renzo Montagnoli


                                                                     Foto da web


Non c’è festa

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Domani, 4 novembre, ricorre l’anniversario della fine della Grande Guerra, quel conflitto divampato nel 1914 e che vide la partecipazione dell’Italia dall’anno successivo e fino appunto al 4 novembre 1918.

Si festeggerà una vittoria, una delle poche ottenute nelle guerre a cui ha partecipato il nostro paese, una vittoria amara, sia per gli insoddisfacenti benefici, sia soprattutto per il contributo di sangue. Vi furono milioni di morti e fra questi gli italiani risultarono all’incirca 680.000, a cui sono da aggiungere i numerosi mutilati e quelli che subirono devastanti effetti psichici.

Fu una carneficina, una tragedia nazionale che supera il valore di ogni vittoria e pertanto domani sarebbe più giusto ricordare queste vittime; non deve essere un giorno di gioia, ma di dolore, a anziché abbandonarsi a una trita retorica i vari oratori dovrebbero limitarsi a un discorso muto, magari accompagnato solo dalle note del Silenzio fuori ordinanza.

Finché ci saranno commemorazioni di vittorie non ci saranno speranze per l’umanità, fino a quando parleremo enfaticamente di onore, gloria ed eroismo l’uomo resterà quella bestia che, nata nelle caverne, si è poco a poco sviluppata, atteggiandosi a essere superiore, ma sempre pronta a rivendicare  la sua originaria natura. L’homo sapiens non è ancora che una belva travestita da agnello.

 


Prima del tramonto, di Renzo Montagnoli


                                                                      Foto da web

Prima del tramonto

di Renzo Montagnoli

 

 

 

Fronte dell’Isonzo – 15 ottobre 1916.

 

- Signor Tenente, è vero che verso sera ci sarà l’attacco?

- Sembra di sì; hai immaginato a causa della distribuzione straordinaria di grappa, vero?

- Sì, sempre così quando…

 

Il soldato Mario Paltrinieri, classe 1896, abbassò gli occhi come a cercare la punta degli scarponi affondata nel fango, poi si sedette su una panca sgangherata, trasse di tasca un foglio sgualcito e una matita smozzicata; restò assorto un attimo, gli occhi fissi verso il cielo plumbeo, poi cominciò a scrivere.

 

“Cara Marta,

ho ricevuto ieri la tua lettera di due settimane fa e non sai la gioia che ho provato nel leggere le tue poche righe; per alcuni minuti mi sono ritrovato con te, al paese, sotto il pergolato: è stato meraviglioso. Ho pensato al nostro bambino che nascerà fra un paio di mesi e mi sono sentito felice in mezzo a queste miserie di ogni giorno. Da noi non è poi così male come certa gente dice; la guerra non è peggio della vita a casa, con qualche accettabile rischio in più. Non temere per me: sto attento e voglio portare a casa questa pellaccia; già sogno quando ti stringerò a me. Un lungo bacio e un abbraccio

Tuo Mario”

 

Piegò il foglio, lo mise in una busta, ma non la chiuse: tanto l’avrebbe riaperta la censura militare.

Guardò di nuovo il cielo pieno di nubi cariche di pioggia e si incupì; era da sei mesi in quell’inferno, in quel girone di disperati, distrutti dalle bombe, dalle pallottole, dalla disperazione per aver firmato con la morte una cambiale a vista.

Ogni tanto arrivavano le zaffate di carne putrescente, di quelli che giacevano esanimi nella terra di nessuno; le prime volte gli era venuto da vomitare, ma poi si  era rassegnato..

 

- Mario, vuoi darmi la lettera per la spedizione?

Si scosse e – Un attimo, Signor Tenente, un attimo solo, devo scrivere ancora: sa, potrebbe essere l’ultima e voglio che mio figlio, che nascerà fra poco, possa avere almeno una lettera dal suo papà.

- Va bene, ma non pensar male; sta su d’animo.

- Ci provo, ma ogni volta che c’è battaglia temo che per me non ci possa essere ritorno.

Trasse di tasca un altro foglio, si portò alle labbra la mina della matita e infine riprese a scrivere.

 

“Adorato figlio mio,

è il tuo papà che ti scrive, il papà che non hai mai conosciuto e che tanto avrebbe voluto vederti.

Ho un desiderio incredibile di stringerti a me, ma non mi è possibile; dove sono io ormai

Il tempo e la gioia non esistono, ma spero, anche se non potrai scorgermi, di esserti accanto, giorno dopo giorno, di condurti in questo mondo affinché almeno tu non abbia da vedere orrore e morte.

 

Vedi, la vita è bellissima, è un dono di Dio che l’uomo spesso, inutilmente, spreca;

vivila, fino in fondo, con tutte le tue forze e il tuo ardore.

Diffida di chi parla di gloria, di onore, di bella morte: la gloria non è immolarsi su un campo di battaglia, ma comportarsi umanamente; l’onore non è credere in qualche cosa di astratto, ma rispettare i valori della vita: l’amore, la famiglia, la pietà per chi non sa vivere;

la bella morte non esiste, perché per tutti è un dolore, per chi va e per chi resta.

Rispetta tutti, per prima la  tua mamma, e gli altri rispetteranno te; sogna, perché altrimenti il mondo ti sembrerà impossibile, ma resta ancorato a terra con i piedi, perché c’è sempre chi è pronto a sfruttare i tuoi sogni.

Un giorno ti troverai una brava ragazza: amala, con tutto il tuo cuore, perché non c’è nulla di più bello dell’amore.

Vorrei dirti tante altre cose, mi piacerebbe parlarti di me, ma il tempo stringe e devo chiudere.

Sappi solo che ti amo tanto, ancor prima di conoscerti.

Addio, dolce bambino mio.

Il tuo papà.”

 

Piegò il foglio, lo ripose in un’altra busta, scrisse il destinatario e appose un’annotazione “da spedire solo in caso di morte del mittente”. Si levò lentamente, mentre le prime gocce di pioggia si mescolavano alle lacrime, e porse entrambe le buste al tenente.    

- Manca poco; è quasi il tramonto.

A occidente il cielo si andava squarciando, lasciando intravedere, fra le nubi, il disco rossastro del sole.

Mario volse lo sguardo: là dove il cielo incontrava la terra, dove i bagliori rossastri attraversavano il maltempo c’era casa sua, sua moglie, tutta la sua vita. Sul suo capo invece imperversava la pioggia sferzante e oltre il reticolato c’era un’altra trincea, dove  esseri come lui attendevano trepidanti e angosciati.

Il tenente, quasi avesse indovinato il suo pensiero, gli diede una pacca sulle spalle.

- Dai, Mario, che ce la faremo anche questa volta.

La sua voce fu coperta dal cannoneggiamento, appena iniziato; dapprima i grossi calibri, i 305, che passavano rombanti sulle loro teste per infrangersi duecento metri oltre con un frastuono assordante, poi le bombarde immediatamente alle loro spalle che lanciavano in aria una sorta di grossi zaini che ricadevano provocando un insostenibile spostamento d’aria, e infine i piccoli calibri  da trincea.

Quando il tiro cominciò ad allungarsi, tutti capirono che era arrivato il momento; ci fu chi si fece il segno della croce, chi strinse spasmodicamente il moschetto, chi, come Mario, volse gli occhi imploranti al cielo.

Il tenente per primo, la pistola in pugno, balzò fuori dalla trincea e gridò – Avanti, Savoia.!

Il grido fu ripetuto da mille bocche arse dalla sete.

 

Fronte dell’Isonzo – 16 ottobre 1916

 

- Sono stante tante le perdite?

- Il reggimento ha perso circa la metà degli effettivi: 350 morti e 260 feriti.

- Mi passi la lista dei caduti; bisogna fare la comunicazione alle famiglie, ma prima cerchi di verificare che fra la posta in partenza non ci siano lettere delle vittime.

- Sì, signor colonnello, provvedo subito.

- Già che c’è, capitano, mi faccia portare una bottiglia di cognac; la battaglia è stata dura e avverto il bisogno di un po’ di conforto.

 

Il colonnello si tolse gli occhiali e ripensò alla giornata, alla trincea nemica conquistata, persa, riconquistata e poi ripersa definitivamente: sì, 350 morti, per non dimenticare i feriti, per cercare di ottenere 200 metri in più d’Italia, insomma uno sproposito.

- Ecco la lista dei caduti, le lettere in partenza degli stessi e il cognac.

- Scriva lei capitano, perché io non me la sento.

- Ecco, signor colonnello, fante Giuseppe Ciribanti; metterei la solita allocuzione: ho l’ingrato compito di comunicare la perdita del fante tal dei tali, caduto gloriosamente nell’adempimento del proprio dovere. Io mi permetterei di aggiungere l’assicurazione che non ha sofferto.

- Non ha sofferto? Non ha sofferto un corno: giorni e giorni di trincea, fra pidocchi, fango, morti, cibi scotti, pioggia, freddo, gli assalti, le veglie notturne, la morte sempre davanti agli occhi… Sì, in confronto morire è porre fine a una sofferenza che ti assilla di continuo, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Va bene, metta pure questa frase idiota.

Si rigirò fra le mani il bicchiere, poi tracannò avidamente e scagliò il vetro contro la parete della baracca.

- C’è qualche caso particolare?

- Non mi sembra, o meglio c’è n’è uno che ha scritto due lettere, di cui una da spedire in caso di sua morte.

- Me le faccia vedere, controlliamo che c’è.

Lesse velocemente la prima, più breve, e la mise da una parte.

Passò alla seconda e rimase annichilito.

Si portò la bottiglia alla bocca, bevendo a lunghi sorsi, poi guardò il capitano.

- Lei che ne farebbe di questa?

- Aspetti che la leggo.

Mentre il dito correva a sottolineare le righe, la fronte si imperlava di sudore.

- Signor colonnello, questa sarebbe da censurare pressoché totalmente, anzi, meglio ancora, sarebbe da cestinare. E’ stata scritta da un sovversivo, non ci sono dubbi.

- Un sovversivo? Lei dice un sovversivo? Vorrei avere avuto un padre che mi avesse scritto una lettera simile, un uomo che mi avesse voluto bene, attento al mio futuro, e non obbligato dalla nascita a rispettare solo il destino che lui mi aveva voluto imporre.

- Secondo me, è disfattista, e contiene pericolosi riferimenti rivoluzionari; se si sapesse in giro che l’abbiamo fatta passare non deporrebbe a suo favore, anzi penso che sarebbe un freno alla sua brillante e meritata carriera.

Il colonnello si rigirò la bottiglia fra le mani, poi tracannò il contenuto fino all’ultima goccia; rimase un attimo assorto, come se la sua mente seguisse un lontano pensiero, e fissò quasi beffardo il capitano…

- Forse ha ragione, capitano, ci sono cose più importanti e più grandi di noi che non stare ad ascoltare le idee irrealizzabili di un povero soldato. Non la distrugga; la terrò io fra le mie cose personali, se non altro perché è scritta bene.

 

Domodossola – 24 dicembre 1926

 

“Gentile signora,

sono il colonnello che comandava il reggimento in cui prestava servizio suo marito e in colpevole ritardo Le allego una lettera per suo figlio; adesso avrà l’età per leggerla e per capirla e, soprattutto per comprendere, quanto  bene gli volesse suo papà.

E’ la vigilia di Natale; non voglio dire che per questo tutti devono essere più buoni, ma spero tanto che mi perdonerà le debolezze umane che mi hanno impedito di mandargliela subito.

Nella lettera con cui Le ho comunicato la sua morte ho scritto che era caduto eroicamente, ma non è vero, perché invece lui è vissuto eroicamente.

Buon Natale.”  

 

    

 

  

 

 

MondoBlog del 3 novembre 2013


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