Abiti su misura
di Milvia Comastri
Finalmente. Finalmente quel che resta del giorno ti appartiene completamente. Hai messo a dormire i bambini, hai guardato sotto il letto di Daniele per rassicurarlo che nessun drago se ne stia lì acquattato, hai recitato la filastrocca buffa a Elisa, sempre quella, così anche lei si sente rassicurata. Te ne sei stata a guardarli con tenerezza e orgoglio, mentre le loro palpebre pian piano si abbassavano. Le mie creature, hai pensato. Hai dato un bacio lieve sulle labbra di tuo marito, che si è addormentato presto, questa sera, stanchissimo per aver affrontato, oggi, un'estenuante trattativa di lavoro. Anche guardare lui, ti ha riempito il cuore di dolcezza. Per un attimo hai pensato di stenderti lì accanto, di svegliarlo a poco a poco, con piccole carezze, con una leggera pioggia di baci. Per un attimo hai desiderato di farlo. Ma poi sei uscita dalla stanza, hai chiuso senza rumore la porta dietro di te. Hai camminato al buio, nel lungo corridoio. Un sorrisetto ti si è stampato sulle labbra. E' bello questo silenzio, questa assenza di luce, è tutto così riposante e amichevole. E poi, in fondo al corridoio, in quella stanzetta trasformata in minuscolo studio, ti attende tutto un mondo. Il tuo mondo segreto. Il tuo mondo di notte.
Sigarette, accendino, una bottiglia d'acqua, ecco, sei pronta. Un'ultima cosa: peschi fra i cd quello che per questa sera ti sembra il più adatto. Questo, sì, questo degli Ekòva. Lo ascoltavi sempre quando la tua avventura è iniziata, ricordi? Bene. Ora ti siedi, accendi il tuo Mac, e mentre clicki su Word senti quasi un frullo nel cuore. Quante sere hai passato, qui davanti… Beh, fai un conto veloce: un anno, ti dici, sì, era settembre. Ho iniziato quando Marco era in America per la ditta, e i bimbi dalla nonna. Poi, metti due o tre volte alla settimana. A volte meno, a volte più. Apri la cartella che porta il tuo nome, un nome provvisorio, lo sai bene, ma ancora non sei sicura di come la chiamerai, questa cosa. Quando pensi di aver trovato il nome giusto ecco che subito dopo ti sembra banale, o pretenzioso, o… Beh, ci penserai alla fine, vero? Fai scorrere le pagine, velocemente. Poi ogni tanto ti soffermi, i tuoi occhi colgono qualcosa, scuoti la testa, batti sui tasti, tagli, incolli. Prosegui, e poi improvvisamente ti viene voglia di cancellare tutto. Ti sembra tutto così… così ingenuo e superficiale e senza senso. Ti guardi intorno. Ci sono libri nello scaffale che arriva fino al soffitto, ci sono libri impilati a terra, ci sono libri ovunque, in quella stanzetta. E io, pensi, che mi sono messa in testa? Lo sguardo ti cade sulla raccolta dei racconti di Maupassant. Li hai divorati, quei racconti, eri al primo anno di università, e dopo le lezioni correvi a casa, ti chiudevi in camera e ti abbeveravi di quelle parole, fino a che tua madre entrava di prepotenza nella stanza, stanca di chiamarti e richiamarti per la cena. Leggere. Che magia è sempre stata per te. Come un calore, dentro. Come un amore, un innamoramento. E adesso…Va beh, continui a far scorrere le parole sullo schermo, fino ad arrivare a una pagina bianca. Credi di avere già tutto in testa. Le creature che sono racchiuse in questo portatile ti fanno compagnia durante il giorno, mentre cucini, fai la spesa, rassetti la casa. Ti parlano delle loro vite, delle gioie, dei dolori, delle loro scelte. A volte le devi zittire, perché le loro voci ti distraggono dalle tue piccole faccende quotidiane. Quando si fanno più impellenti vorresti fare come Jane Austen, che scriveva su un angolo del tavolo del tinello, mentre in cucina il pranzo finiva di cuocersi. “Orgoglio e pregiudizio” è nato così, ricordi sorridendo. Ricominci a battere sui tasti, mentre in “The garden” risuona sommesso fra le pareti. Ma tu non la senti più, la musica. Sei senza spazio, e tempo e percezioni sensoriali. Scrivi velocemente, e diventi Angela, e Federico, e Lola, e il gatto Milù, e il signor Belli. I tuoi personaggi. Le tue creature, anche queste. Che si muovono nella tua testa, e, come i tuoi figli, a volte si ribellano, fanno scelte che non erano quelle che tu avevi progettato per loro. Ma va bene così. La libertà, l'indipendenza da schemi prefissati. Un principio basilare nella tua vita. Anche se… Anche se poi si devono indossare vestiti preconfezionati, a volte. E non sempre sono della misura giusta. E' stato in settembre che te ne sei accorta. Una cucitura un po' stretta sul cuore, e anche le braccia non riuscivi più ad alzarle agilmente. Erano come impaniate, pesanti, come le ali di un gabbiano lordate di petrolio. Ti sei fatta domande, ricordi?
Ti sei interrogata se qualcosa non andasse nella tua vita. Le risposte hai cominciato a scriverle sul tuo computer, hai messo crocette, sequele di sì e no. Sì, eri ancora innamorata di tuo marito. No, non eri completamente felice. Sì, adoravi i bambini. Sì, avresti fatto le stesse scelte, potendo tornare indietro… Eppure. Eppure qualcosa c'era. O non c'era. E' così che hai cominciato la cosa: buttando giù parole, prima un po' a casaccio, come quando su un banco del mercato si cerca un colore che colpisca, o una morbidezza di una stoffa, senza sapere quale. E a poco a poco ti sei cucita un vestito nuovo. Un vestito su misura. In segreto, senza dirlo a nessuno, punto su punto, complice la notte. Un po' ti vergogni a chiamarlo “romanzo”. Quando ci pensi dici “ la cosa”, quella cosa là, ti dici. Ma ancora hai quel sorrisetto sulle labbra, come adesso, mentre continui a battere sui tasti, e loro, le tue creature, guidano i tuoi pensieri.
E' molto tardi. E' quasi l'alba. L'ultima pagina. L'ultima parola. Spegni il computer, raccogli la bottiglia, il posacenere colmo, stai un attimo nel buio. Domani, anzi, oggi, svelerai il tuo segreto. E un poco ti dispiace. Ci saranno altre notti, altre creature. Ma mai più come queste.
Candele
di Renzo Montagnoli
Nella giornata grigia, uggiosa, con una pioggerellina insistente che consigliava, ove possibile, di stare al coperto, un uomo camminava lentamente, senza ombrello, quasi non avvertisse quel fastidio. Giunto nella piazza della cattedrale salì in fretta i gradini del tempio, sostò cinque minuti sotto il colonnato, giusto il tempo di fumare una sigaretta, poi entrò.
L'interno, nonostante le grandi vetrate dipinte, era quasi immerso nell'oscurità e aumentava il senso di grandezza della costruzione, un gotico giustamente famoso per la sua eleganza, meta di migliaia di turisti che, tuttavia, in quel giorno di pioggia, erano assenti.
Si segnò, poi volse lo sguardo all'intorno, cercando di focalizzare ogni particolare, fino a quando la sua attenzione si concentrò sul confessionale. Lo raggiunse rapidamente, si accomodò e suonò il campanello di chiamata.
Nell'attesa, si asciugò i capelli con il fazzoletto e rimase a fissare il graticcio, oltre il quale avrebbe preso posto il confessore. Era assorto, senza pensare a nulla, una sorta di catalessi che gli consentiva di recuperare energie e pensieri, quando udì chiaramente avvicinarsi dei passi; poi sentì che qualcuno si accomodava dall'altra parte e infine…
- Buongiorno, sono Padre Pierre, il confessore.
L'uomo ebbe un sorriso di compiacimento e accostò il volto al graticcio - Buongiorno, Padre, sono un peccatore che chiede il perdono di Dio.
- Parla, figliuolo, libera la tua anima dal peso che la grava e Dio, nella sua misericordia, monderà i tuoi peccati. Non aver timore, perché il peccato è nella natura umana. Da quanto non ti confessi?
- Da una vita. E per quanto riguarda il peccato lei ha ragione: è in tutti noi, anche in quelli che ho ucciso.
- Ucciso? E' grave quello che stai dicendo.
- Sì, Padre, perché ho violato il comandamento che impone di non uccidere, ma non perché ho ucciso.
- Credo di non capire, puoi spiegarti meglio?
- Mi è stato comandato di uccidere e io l'ho fatto.
- Comprendo la lacerazione del tuo animo, nel conflitto fra la tua coscienza e gli ordini che hai dovuto eseguire, magari quale militare in azioni di guerra.
- Padre, non sono un militare, sono un assassino di professione, un sicario.
Il sacerdote si portò le mani alla fronte e esclamò - Dio mio!
- Mi scusi se l'ho turbata, ma in confessione è l'unica volta che dico la verità.
- Non ti rendi conto di quanto sconvolgente possa essere questa verità; lo capisci, spero?
- Quale verità? Quella che ho ucciso su commissione, o quella che ho violato il comandamento?
- Non c'è nessuna differenza.
- E invece c'è, ed è una grande differenza. Nel primo caso ho fatto tutto per lavoro, dietro ricompensa, tale e quale un soldato; nel secondo caso ho disobbedito alla legge di Dio.
- Lasciami pensare un momento, per cercare di spiegarti meglio.
- Va bene, tutto il tempo che vuole, Padre.
Si passò nuovamente il fazzoletto sui capelli e con calma trasse una rivoltella dalla custodia sottoascellare, infilò la mano in una tasca della giacca e prese un silenziatore che avvitò alla canna dell'arma. Improvvisamente fu scosso da un suono cupo e profondo; istintivamente guardò verso l'alto e le note della toccata e fuga di Bach cominciarono a diffondersi nel tempio. L'organista ci metteva il suo impegno, ma non era certo un esecutore di valore; comunque, l'atmosfera del luogo riusciva a far sorvolare su qualche passaggio non proprio perfetto. Si immerse nella musica e lentamente avvertì crescere in lui una piacevole sensazione di serenità che lo distaccava dal mondo e gli faceva sorgere un senso di onnipotenza del tutto appagante.
Padre Pierre diede un leggero colpo di tosse, come ad annunciare che era pronto a riprendere la conversazione - Se ho ben capito, tu uccidi per denaro persone che nemmeno conosci, ma che non sono senza peccati, come prima mi hai detto.
- Sì, è proprio così.
- Vedi la differenza sta in questo: il militare deve disobbedire a un comandamento e, se non lo fa, viene punito; tu, ogni volta, cerchi il committente, fai come un contratto di tua spontanea volontà e di conseguenza già prima dell'incarico disobbedisci alla legge di Dio, senza nessuna costrizione.
- Se non lo facessi io, lo farebbe un altro, perché il destino delle vittime è segnato.
- E allora, seguendo il tuo ragionamento, perché chiedi di parlare con Dio mio tramite e chiedi l'assoluzione, se non hai peccato?
- Perché sono venuto meno a un suo comandamento, e non di mia spontanea volontà come dice lei, ma perché forse ho sbagliato una volta e quell'errore mi ha portato ai successivi.
L'uomo si fermò un istante, chiuse gli occhi e iniziò a raccontare.
- Le narro la storia di un giovane, timorato di Dio, che studiava in Seminario, da cui è uscito suo malgrado per necessità familiari; nell'ambiente povero di periferia, sfumati i miei sogni, ho trovato chi mi ha dato una speranza di un mondo migliore e più giusto, un mentore che mi ha prospettato un grande disegno che avrebbe portato a una più equa distribuzione della ricchezza e io gli ho creduto. Si potrebbe chiamare quest'idea un movimento politico, ma clandestino, visto che il raggiungimento dello scopo prevedeva di colpire il potere nei suoi simboli più rappresentativi. L'obbedienza era, e doveva essere totale; si arrivò così a un giorno in cui fui comandato di uccidere il più odioso di questi simboli e io lo feci nella convinzione assoluta di fare del bene all'umanità. Proprio per questo mi sentii in dovere di violare il comandamento, identificando la mia persona con l'angelo giustiziere, come se fossi stato uno strumento di Dio.
L'organizzazione fu scoperta, dovetti fuggire, andai via dal mio paese, trovando momentanei aiuti presso membri dell'organizzazione; ero e sono un esule, senza più patria, senza famiglia, e che per vivere è disposto a tutto. Una volta che si è violato il comandamento, una volta che volontariamente si è forzata la propria coscienza non ci sono più remore e così, quando mi fu proposto di uccidere dietro compenso una persona, accettai.
Si fermò un attimo, passandosi la mano sulle labbra secche, poi riprese - Lei mi domanderà ora perché chiedo il perdono di Dio? Semplicemente perché nella mia coscienza s'annida il dubbio che, contravvenendo alla legge di Dio, possa essere meritevole di una punizione, nonostante, chiamiamole così, tutte le circostanze attenuanti che mi hanno portato a violare il comandamento. Ormai la mia mente è confusa e non comprende più quale sia veramente il giusto. Attendo, Padre.
Il sacerdote, affranto, rispose con voce angosciata - Figliuolo, non ci possono essere punizioni sufficienti per i tuoi peccati; tu li hai confessati e solo Dio, nella sua misericordia, può darti l'assoluzione. Ti consiglio, però, di porre fine a questa vita, di costituirti, di espiare le tue colpe, prima secondo la giustizia degli uomini, per poi sottoporti a quella di Dio, quando verrà l'ora. Prometti, almeno, che altri non avranno a patire per le tue azioni, che cesserai questa vita scellerata.
La musica frattanto era aumentata di volume, negli splendidi passaggi del brano di Bach, e il sicario ritenne che il momento fosse propizio; si udirono appena due leggeri schiocchi, come due esplosioni soffocate, poi silenziatore e pistola furono riposti nelle loro sedi.
Uscì dal confessionale, dal quale fluiva un sottile rivolo di sangue, si approssimò all'altare e ripensò a tutti quelli che aveva ucciso; li contò mentalmente, poi prese venti candele, le dispose ben allineate, accendendole una a una. Recitò silenziosamente una preghiera, poi restò brevemente assorto nei suoi pensieri.
Rivide tutta la sua vita, in rapide sequenze, una lunga serie di delitti, effetto di quella prima disobbedienza alla legge di Dio e si sentì quasi un predestinato; una torbida scia di sangue scorreva davanti ai suoi occhi e concluse che se l'angelo sterminatore era venuto meno al comandamento di non uccidere per un ordine divino forse anche lui non faceva altro che obbedire al grande libro del destino che il cielo aveva disegnato.
Si sentì soddisfatto, appagato da quel colloquio, che gli aveva rischiarato la mente, allontanando i dubbi e facendo radicare certezze.
Le note dell'organo gli giungevano lontane, come se scendessero dal cielo; e fu proprio un acuto dello strumento che lo fece sobbalzare. In chiesa non c'era nessuno, tranne il musicista, ma le precauzioni non erano mai troppe e in fondo, se era ancora in libertà, era dovuto alla sua prudenza.
Guardò verso l'organo, poi prese un'altra candela e l'accese
Il paese sommerso
di Patrizio Spinelli
C'era una
volta in Garfagnana, un paesino di poche anime di nome Fabbriche
di Careggine. Così inizierebbe una fiaba, per portarci nel
meraviglioso mondo della fantasia. Ma qui non si tratta di una fiaba,
anche se ha tutti gli ingredienti per esserlo. Il paesino c'era e c'è
ancora oggi, ma è sommerso dall'acqua. Se non sei del posto e non
conosci la sua storia, non potresti mai sapere o sospettare della sua
esistenza. E' un paesino medievale, e si trova ai piedi delle Alpi
Apuane a ridosso delle superbe pareti del Roccandagia e
del Sumbra, due vette importanti che toccano i 1700 metri,
e forse, uno dei due li supera. Fu fondato, a quanto ne sappiamo in
pieno Medioevo, da una colonia di fabbri provenienti dalla zona di
Brescia che si erano trasferiti in quella zona per la lavorazione del
ferro. Nelle forre di quelle remote e selvagge montagne scorreva e
scorre ancora oggi l'Edron, un tumultuoso torrente
che veniva sfruttato per azionare i magli di quegli antichi
e rudi fabbri. Fitte foreste coprivano quelle montagne e
costituivano un' altra importante e preziosa risorsa, il
legname per alimentare il fuoco delle fucine. Acqua e fuoco, i due
primordiali elementi della Natura erano abbondanti e a disposizione
delle rozze e chiassose botteghe di quegli operosi adepti del dio
Vulcano, le cui fumanti fucine forgiavano e sfornavano zappe, vanghe,
badili, falci, e altri attrezzi agricoli molti richiesti nelle
campagne a quei tempi, riempiendo ogni giorno il paese e la valle dei
vigorosi e assordanti colpi dei magli.
A testimonianza e a
riprova di ciò, esiste tutt'oggi una località immediatamente a
valle dell'attuale paesino sommerso che porta il toponimo di
Ferriera. L'attività fabbrile fu la secolare risorsa
economica del paese, ma è nel Settecento, secolo in cui fu costruita
la via Vandelli che attraversava il centro del paese e
congiungeva la Garfagnana, "aspra e selvaggia", a
Massa e a Modena, ad imprimergli il massimo sviluppo. Ma via via che
si consumava il declino di quella antica strada, anche l'attività di
quel paesino di fabbri si esaurì. Poiché dovevavano campare
e andare avanti, gli antichi artigiani dell'arte febbrile, di quel
minuscolo paese, ritornarono a fare
gli
atavici mestieri di agricoltori e pastori, patendo molto spesso la
fame in quella terra poco ospitale e feconda per le attività
agricole.
Agli inizi del Novecento, molti emigrarono verso
l'Inghilterra, verso l'America e anche verso la lontana Australia,
seguendo un po' le orme di altri abitanti dell'impervia Garfagnana,
dando così origine alla leggenda, che perfino Cristoforo Colombo
quando arrivò nelle Americhe, vi trovò un lucchese che
vendeva statuine di gesso, in ossequio ad un'altra gloriosa attività,
quella della produzione di statuine di gesso per i presepi, un
tempo ampiamente diffuse in quelle povere zone garfagnine.
Gli altri pochi che non se la sentirono di andare via, in cerca di
fortuna per le strade del mondo, tirarono avanti con la scoperta di
una nuova risorsa, le cave di marmo del bacino marmifero di Vagli. Ci
fu conseguentemente una ripresa delle attività produttive di quella
martoriata zona. Per la lavorazione del marmo fu opportunamente
decisa la costruzione di una prima e piccola centrale elettrica che
portò ben presto il paese a godere di una rinascita economica, fino
alla meta del secolo scorso. Proprio in quegli anni a metà del
Novecento, la società dell'energia elettrica, che allora si
chiamava Valdarno decise di costruirvi un'imponente diga,
alta quasi cento metri. Fu sbarrato il corso del fiume Edron, e
le persone che ancora vi abitavano, circa 150 anime, furono costretti
a malincuore a lasciare le loro povere case di pietra ed evacuare il
loro paesino, ai piedi delle verdi montagne. In poco tempo l'acqua
sommerse completamente il paese e la vallata, formando il lago
artificiale di Vagli. Ora il lago viene svuotato per
manutenzione circa ogni dieci anni. E' l'occasione buona per essere
visitato, ed infatti l'ultima volta che ciò accadde, fu
nel 1994, e l'evento richiamò un sorprendente afflusso di
visitatori. Lo visitai anch'io e fu davvero un'esperienza indicibile
e toccante, quasi magica. Era una calda e afosa giornata estiva in
quella valle, e ricordo che il sole e l'aridume avevano
crepato il fango che si era depositato dappertutto, dando a
tutta la zona un aspetto desertico e lunare. Le povera mura
di pietra locale delle case, di quel minuscolo paesino, seppur coi
tetti scoperchiati erano tutte in piedi, scarnificate, ed essenziali
senza più porte e finestre ma ricoperte di uno spesso strato di
fango, che dava loro un color terra con scalature dal beige
al marroncino, a secondo della loro esposizione al sole. Dappertutto
sembrava regnasse un'aura di magia, irreale, spettrale, al di fuori
del tempo. Sembrava di essere in mezzo a un sogno o forse ad un
incubo. Vicino alla chiesetta con l'abside e il campanile ancora
intatti, incontrai un vecchietto, seduto sulla soglia della porta di
quella che doveva essere stata un tempo la sua casa, che aveva le
lacrime agli occhi.
Si vedeva da come guardava dentro quelle
vuote stanze, seppur piene di luce solare che filtrava piena
dall'alto delle mura senza più tetto, che la sua mente era tutta
rivolta ai ricordi della sua vita legata a quel posto. Mi soffermai e
gli chiesi conferma, come avevo già capito, se fosse stato un
vecchio abitante di quel paese. Il vecchio, degnandomi del suo mesto
sguardo, in silenzio annuì. Compresi che non aveva voglia
di parlare, e subito lo salutai.
Mi parve di leggere nei suoi
occhi e sul suo volto lo strazio di chi deve rinunciare a vedere i
propri ricordi, la casa, il paese, l'ambiente, i volti, i sapori, gli
odori, i colori dove nei suoi più giovani anni, chissà, aveva
vissuto le sue più intense emozioni e forse i suoi momenti di vita
più belli della sua vita. Sembrava il volto di un uomo a
cui erano venuti a mancare dei riferimenti, delle certezze e che
si stava trattenendo lì il più a lungo possibile per fare un pieno
di gioia prima che l'acqua ritornasse a coprire di nuovi i sui
ricordi ed un pezzo della sua vita.
Passione
di Cesarina Bo
“Devo sbrigarmi” pensò Lorenzo nello scendere dal letto.
Rabbrividì per il freddo e subito si infilò il maglione che la sera precedente aveva lasciato sulla sedia. Quell'inverno era così rigido che aveva preso l'abitudine di tenersi il pigiama, anche di giorno, sotto agli altri abiti.
Accese la luce: la lampadina che pendeva dal soffitto diffuse un debole chiarore nella stanza. Controllò l'ora e ripeté:
“Devo sbrigarmi”.
I suoi ottant'anni non gli permettevano di muoversi con rapidità. Lanciò un'occhiata alla stufa spenta e alla caffettiera sul fornellino, già pronta, ma alla fine, seppure con riluttanza, rinunciò all'idea di scaldare la stanza e di farsi un caffè.
“Meglio, così risparmio” si disse.
Era una sua abitudine, quella di parlare a voce alta rivolgendosi a se stesso.
Andò verso il lavello, aprì il rubinetto e bagnandosi appena le punte delle dita si sciacquò velocemente il viso: faceva troppo freddo anche per lavarsi.
Si legò una sciarpa al collo, indossò il pesante cappotto e si mise i guanti di lana in tasca. Se li sarebbe infilati dopo essere andato in bagno.
Diede un'occhiata intorno, spense la luce, uscì e chiuse la porta facendo girare la grossa chiave per due volte nella toppa. Abitava in una stanza a pian terreno di una vecchia casa a Madonna di Campagna, una di quelle case di ringhiera che, dietro alla facciata decorosa, nascondeva un profondo cortile dove si affacciavano alloggi ai piani superiori e, al piano terreno, locali adibiti a rimesse, magazzini, cantine. La stanza di Lorenzo era sistemata tra l'officina di un ciclista e la rimessa di un venditore ambulante di robe vecchie, quasi al fondo del cortile.
A Lorenzo quella sistemazione piaceva per una serie di motivi.
C'era la comodità del bagno che si trovava a pochi metri dalla sua stanza. Era, quasi, come averlo in casa e praticamente non lo usava nessuno tanto che, da tempo, aveva preso l'abitudine di lasciare il rotolo della carta igienica senza portarlo avanti e indietro come, invece, faceva una volta.
Poi c'erano i vicini.
Ernesto, che pomposamente si faceva chiamare antiquario, non mancava mai di regalargli qualcosa sotto Natale. L'ultima volta era arrivato con una vecchia edizione di Guerra e Pace ancora in buono stato, fatta eccezione per la copertina sciupata. Nel dargliela aveva detto sorridendo furbescamente:
“Ieri, al Balon, c'era una donna che voleva comprare a tutti i costi proprio questo libro. Continuava ad offrirmi sempre più soldi per averlo, ma io non mi sono mica fatto convincere! Era per te e così non sono stato a sentire ragioni. Anzi, ad un certo punto le ho detto: «Cara madamin, ca ënsista nen për piasì!». Se ne è andata offesa, ma chissenefrega!”
Luigi, invece, di professione riparava biciclette: era un ometto mezzo calvo con le mani perennemente sporche di grasso e la radio sempre accesa in officina. Lo chiamavano “ël ciclista” per il discreto passato sportivo che l'aveva visto partecipare, come gregario, anche ad un giro d'Italia. Nella sua officina, alle pareti, c'erano appese le foto di vecchi campioni che ricordavano il suo periodo d'oro. Era un uomo di poche parole, ma tutti i giorni si sincerava che il vicino non avesse bisogno di nulla.
Lorenzo uscì sulla strada e si incamminò verso la fermata del nove. Il traffico a quell'ora del mattino era inesistente: le poche auto transitavano con i fari accesi a gran velocità approfittando delle strade semideserte. Salì sul tram e si sedette in prima fila. Sospirò soddisfatto. Per mezz'ora se ne sarebbe stato tranquillo al caldo guardando la città a risvegliarsi; a poco a poco il tram si sarebbe riempito, ma, al momento, si sarebbe goduto la pace e la tranquillità. Non sopportava la ressa della gente, gli spintoni, la promiscuità che si veniva a creare nelle ore di punta. Anche da giovane amava stare solo.
Era stato un bravissimo linotipista in una piccola tipografia aperta in società con un lontano cugino. Aveva lavorato per anni in una stanzetta sul retro del negozio e, come unica compagnia, la sua linotype; volentieri aveva lasciato al cugino il compito di trattare con i clienti. Anche se erano trascorsi tantissimi anni da allora sentiva ancora la mancanza dell'odore del piombo caldo mescolato a quello dell'inchiostro e, talvolta, gli pareva persino di sentire il tintinnio cristallino delle matrici. Aveva composto milioni di parole, con passione e competenza, le aveva allineate, dando luce a libri, opuscoli, riviste. Ricordava ancora la commozione e la meraviglia che lo assalivano di fronte ad una bozza ancora umida di stampa. Con occhio critico apprezzava l'eleganza dei caratteri e l'allineamento perfetto delle righe di quella che considerava una sua creatura. Poi la tipografia era fallita, le linotype sostituite dai computer e lui, troppo vecchio per imparare un nuovo mestiere, era campato di piccoli lavori.
Arrivò alla stazione di Porta Nuova alle sei e trenta, dieci minuti prima dell'arrivo del treno proveniente da Roma. Ormai non doveva neppure controllare i tabelloni: il treno sarebbe arrivato al binario numero otto e lì si sarebbe fermato essendo arrivato al capolinea.
Attraversò il grande atrio dalle volte alte e immense, si infilò nel passaggio lato via Nizza e lo percorse fino a sbucare davanti ai binari.
Si avvicinò ad un crocchio di persone vestite con divise verdi che stavano fumando e bevendo caffè; poco distante da loro, grossi raccoglitori di immondizia, scope, palette.
“Ciao, Lorenzo. E' da un po' che non ti vedevamo! Hai fatto vacanza?”
Lorenzo rispose al saluto scherzoso, scuotendo la testa in segno di diniego. Una donna si allontanò dal gruppo ritornando poco dopo con una tazza di caffè.
“Bevi che fa un freddo della miseria stamattina” disse porgendogli la bevanda bollente.
Il piccolo bicchierino di plastica gli scottò piacevolmente le dita.
Un uomo barbuto dal forte accento meridionale aggiunse:
“Prima d'andare via passa nei nostri spogliatoi: in questi giorni abbiamo lavorato noi per te: troverai una busta sotto al tavolo…”
Gli altri si misero a ridere per la battuta e Lorenzo ringraziò, compunto e serio come sempre.
Era da anni che frequentava la stazione e, ormai, gli inservienti lo conoscevano e lo trattavano come uno di loro. All'inizio aveva fatto fatica a spiegare e spiegarsi, ma alla fine avevano capito. E lo avevano assecondato.
Il rumore del treno in arrivo coprì le loro chiacchiere. Gli inservienti iniziarono a camminare lungo la banchina per raggiungere gli ultimi vagoni. I passeggeri scesero camminando in fretta, trascinandosi dietro i bagagli mentre accendevano una sigaretta o telefonavano al cellulare.
Lorenzo rimase fermo vicino ad una colonna aspettando con pazienza che tutti si fossero allontanati. Poi salì sul treno. Iniziò a percorrere un vagone dietro l'altro guardando con attenzione sui sedili e sui sostegni in alto, dove i viaggiatori posavano i loro bagagli. Dopo un'intera notte passata in treno i segni della permanenza erano ben visibili sotto forma di cartacce, bottiglie vuote, giornali spiegazzati lasciati in giro un po' ovunque.
Era incredibile, poi, quante cose i viaggiatori dimenticassero nella fretta di scendere.
Lorenzo, se trovava un oggetto, lo metteva ben in evidenza sul sedile di modo che gli addetti alle pulizie potessero vederlo facilmente.
Al terzo vagone trovò, lasciato su un sedile, un libro. Un'edizione economica, ma in buono stato. Lorenzo lo prese in mano e lo sfogliò con delicatezza: negli occhi un sorriso soddisfatto. Si trattava di un romanzo storico che lui non aveva ancora letto. Andava pazzo per i romanzi storici. Leggeva di tutto, ma quelli erano i suoi preferiti. Tolse dalla tasca una busta di nylon e vi infilò dentro il libro con cura. Poi continuò nella sua ricerca, senza fortuna.
“Trovato qualcosa?” gli chiese l'uomo dall'accento meridionale passandogli accanto.
“Sì, oggi mi è andata bene”
“Perfetto. Ricordati di passare nello spogliatoio, prima di andare via”
“Certo!” rispose Lorenzo.
Scese con cautela dal treno e camminando lentamente si diresse verso gli spogliatoi. Come gli avevano detto sotto il tavolo trovò una busta con dentro alcuni libri: gli sarebbe piaciuto sfogliarli subito, ma non voleva abusare troppo della gentilezza dei suoi amici. C'era sempre il rischio che entrasse qualcuno che non lo conosceva e sarebbe stato imbarazzante spiegare il motivo della sua presenza.
Rientrò a casa con il suo bottino. Si sedette sul letto e tolse i libri dal sacchetto. Li esaminò uno per uno e guardò le alte pile di libri, ordinatamente accatastate, che riempivano tutto lo spazio disponibile. Pensò che avrebbe dovuto ben presto eliminare la sedia perché occupava troppo spazio: in fondo non gli era poi così indispensabile.
"...Quando penso a tutti i libri che mi restano da leggere, ho la certezza di essere ancora felice..."
Jules Renard
Sogno di ghiaccio antico
di Mario Malgieri
Camminavo lungo un sentiero appena accennato.
Avevo già attraversato il bosco di larici, punteggiato dal croco e dai primi tarassachi.
Qua e là, dove il terreno volgeva a nord a formare piccoli avvallamenti perennemente ombrosi, chiazze di neve morente ricordavano che l'inverno non era trascorso da molto.
Dall'alto, nel silenzio del canto degli uccelli e del fruscio del vento, giungevano ogni tanto gli schiocchi del ghiacciaio, quel suono secco e scrosciante della roccia che precipita dal fronte in dissoluzione, mentre il suo letto di gelo, sul quale aveva riposato per secoli, si espone al calore del sole.
Uscito dagli alberi, mi aggiustai sulle spalle lo zaino leggero e presi a risalire i pascoli, aggirando le rocce e attraversando i numerosi ruscelli che mi cantavano melodie antiche. Arrivai e superai i canaloni ombrosi, dove resistevano nevai che, stillando lentamente la loro vita, s'immolavano al sole per donare l'acqua alle fioriture di primavera.
Infine giunsi ai piedi dall'antico gigante dai riflessi azzurrini, immobile solo in apparenza.
Perchè il ghiaccio scivola lento nei valloni con tutta la forza della creazione, incide e spacca la roccia, sospinge i massi come mandrie di strani camosci possenti; poi, alla fine del viaggio, raggiunge la meta cadendo a schegge, a brani, a costoni e ritorna tra le braccia di madre acqua, per morire nel sole in un ultimo fremito di gocce lucenti.
Così, ai piedi del lungo ghiacciaio, si forma uno specchio grigio, continuamente mosso dal vento e dal precipitare di sassi e rocce, mentre piccoli iceberg in dissoluzione ondeggiano sulla superficie, sospinti dal capriccio dei venti che mormorano parole sconosciute, udite e imprigionate dal gelo mille e mille anni fa e infine liberate come bollicine affioranti.
Mi fermai, rapito da quello spettacolo che pure avevo già visto altre volte, respirando a lungo l'odore del ghiaccio e dell'aria finissima, mentre il ritmo del cuore e dei polmoni, provati dalla salita, rallentava a ripulire il corpo dai veleni della fatica.
Lago della battaglia: ancora mi posi la domanda di come fosse nato quel nome, chi mai fosse arrivato sino là per corrompere con l'odio e col sangue quel tempio della natura. Avevo anche fatto ricerche, ma nessuno aveva saputo darmi una risposta certa su quale battaglia si fosse combattuta, e neppure se mai una battaglia vi fosse davvero stata.
Ma adesso era tempo di riposare.
Camminai ancora un poco, quasi in punta di piedi, sulla riva morenica, verde di bassa vegetazione; cercavo il luogo asciutto e riparato dal vento che mi ricordavo.
Era quello un piccolo seno del lago dove, millenni prima, una roccia appiattita, scivolando e rimbalzando giù dal crinale irto di pinnacoli spezzati, ora offriva uno spazio rude per il riposo di chi vi si fosse inerpicato.
Lo trovai, mi liberai dello zaino e indossai indumenti asciutti al posto di quelli fradici del sudore della salita. Mi sdraiai, godendomi il sole come una lucertola alla sua prima uscita dopo l'inverno. Ben presto il tepore, il canto delle acque e il fruscio del vento mi fecero chiudere gli occhi.
Così, la testa appoggiata sullo zaino, caddi in quello strano torpore dove il sonno ancora non sbarra la porta alle sensazioni del mondo, ma già i sogni si infiltrano silenziosi tra i pensieri.
Un'altra persona camminava sulla riva.
C'era solo una parola che poteva definirla al suo apparire: un guerriero.
L'elmo di cuoio indurito, la spada forgiata nel ferro, lo stesso metallo della cotta di maglia indossata sulla lunga tunica di lana grezza. I calzari, di pelle come lo scudo, rotondo e rinforzato di borchie. Lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle, incorniciavano una barba già grigia e un volto duro, gli occhi dello stesso freddo colore dell'acqua e del cielo.
Il guerriero si fermò sulla riva osservando il lago, dove un pesce, in un guizzo di scaglie lucenti, afferrò una libellula in volo. Ristette immobile, sino a quando i cerchi si infransero sui sassi con un lieve sciacquio, poi si volse verso di me, ma quasi parlando a se stesso.
- Vedi, le nostre vite sono come questi cerchi, creati da qualche essere che ci è estraneo. Egli è indifferente sia a ciò cui ha dato vita, sia alla sua rapida fine.-
La voce era bassa, poco più di un sussurro. Dopo un breve silenzio, riprese:
-Tu riposi dove io dormo da mille e più anni. Mille e più volte ho visto le nevi coprire il lago ghiacciato. Lievi, le zampe dei camosci mille e più volte sono passate sul mio corpo disfatto e mille e più volte in questo tempo senza fine ho sentito il vento spirare dal Nord, portando gli odori lontani del mio paese, dove i miei figli mi attesero invano e la mia donna fu data ad un altro.
Ci crearono gli Dei, e poi ci dissero di andare a combattere genti sconosciute, che gli ori, le femmine e le messi sarebbero stati nostri, perché così era scritto. -
Il guerriero si volse e si allontanò risalendo il sentiero che si perdeva sulla morena, ma la sua voce ancora giungeva chiara.
- Uomo, ora io lo so, tutto è un inganno che non abbiamo ancora imparato a riconoscere. Gli dei sono crudeli e indifferenti alla nostra sorte, e le stesse cose che dicono a noi le dicono anche ai nostri nemici. Così, in loro nome, ci spingono a dare e ricevere la morte, mentre loro amano, bevono il vino migliore, mangiano miele e ridono dell'umana stupidità.-
Io mi riscossi dal torpore e mi guardai intorno spaventato, ma non vidi altro che il lago e le montagne. Infine raccolsi lo zaino e scesi sulla riva, tra le rocce e i pini mughi. Mi bagnai il viso con l'acqua gelida, quasi a scacciare l'immagine che mi aveva appena invaso la mente, e tentai di specchiarmi in quel lucente grigiore increspato dal vento.
Dall'alto del ghiacciaio, con il consueto suono schioccante, si staccò un grosso frammento, uno dei tanti. Rimase a galleggiare sulla superficie, ondeggiando semisommerso come se fosse più pesante del normale.
All'interno, in attesa di essere liberato dalla sua prigione, mi parve di scorgere il corpo di un antico guerriero. Stringeva ancora la spada e aveva lunghi capelli biondi.
Di lì a poco il frammento, spinto dal vento verso il centro del lago, si spezzò ancora e quell'ombra appena intravvista s'inabissò nella sua dimora di fango e pietre.
Io rimasi a lungo a osservare la luce del sole che giocava con le increspature della tramontana.
Guardando attentamente, potevo vedere il riflesso dei secoli trascorsi da quando quell'acqua era scesa in forma di neve, lassù, al confine tra il cielo e la montagna, mentre il vento sembrava portarmi l'eco delle ultime parole di quell'uomo antico: "...umana stupidità"
Venere ovvero Lassù qualcuno ci ama
di Donato Altomare
“ ....la sonda si è felicemente posata sul suolo di Venere.”
Un brivido percorse la sala. Ci fu un istante di attonito silenzio poi esplose una babele di voci e domande. Finalmente uno dei giornalisti presenti riuscì a sovrastare con la sua voce il caos e a chiedere per tutti: “Cosa si è scoperto?”
Il portavoce della Nasa sorrise per l'improvviso silenzio che si creò. Tutti pendevano dalle sue labbra: “Molto, signori, e certamente di grandissima importanza. Era luogo comune, a causa della perenne nuvolosità, pensare al suolo del pianeta come ad un grande acquitrino, ma non è cosi. L'elevata temperatura del pianeta, che tocca i 500°C non permette la presenza di liquidi. Il terreno è duro e scaglioso.”
Tutti stavano prendendo appunti velocemente.
“L'elevata temperatura è soltanto causa dell'effetto serra?”
“Il suo campo magnetico è stabile?”
“Potrebbe essere una terra alle origini con a base l'azoto e non il carbonio?”
Il portavoce sollevò le mani con le palme rivolte in fuori: “Calma, signori, vi prego, un attimo di calma.” E atteso che il silenzio fosse tornato riprese: “E' evidente che io non sia la persona più competente per dare tutte le risposte. La Nasa paga i migliori scienziati del Paese perché facciano questo. Tra poco sarà distribuito uno stampato con la relazione dettagliata dell'avvenimento e di tutto quanto possa interessare il mondo intero. Inoltre sarà anche proiettato il filmato dell'avvicinamento della sonda al pianeta.”
Un coro di proteste si sollevò dai giornalisti. Aspettare significava far saltare l'edizione straordinaria già in macchina con tutte le notizie; inoltre quel genere di comunicazioni erano piuttosto addomesticate. Ma mal comune .....
“Perché soltanto dell'avvicinamento? Ha appena netto che la sonda si è posata sul suolo.” Il solito intrigante del New York Times.
“Questo non è possibile per il semplice fatto che le condizioni atmosferiche trovate, particolarmente sfavorevoli, hanno danneggiato subito alcune apparecchiatura tra le quali la lente della cinepresa. Non si dimentichi che l'atmosfera venusiana è ricca di nubi di acido solforico e altri componenti altamente corrosi.”
“Ma non lo sapevate già? Non era stato forse previsto?”
L'uomo della Nasa guardò biecamente il corrispondente e rispose: “Ce lo aspettavamo, ma non della forza riscontrata. In ogni missione c'è un certo margine d'insuccesso e possiamo dire che sia- mo stati molto fortunati che la sonda non sia andata distrutta nell'attraversamento dell'atmosfera. In ogni modo” tagliò corto per impedire altre domande “il materiale che vi sarà consegnato sarà esauriente. Nell'attesa il bar è a vostra disposizione. Consideratevi come sempre nostri ospiti. Grazie.” E sparì letteralmente dietro una tenda.
Con passo sostenuto percorse un lungo corridoio, svoltò varie volte attraversando un cancello con agenti di guardia e infine si fermò di fronte ad una porta con a destra una luce rossa accesa e un grosso cartello che, a caratteri cubitali, vietava l'ingresso ai non autorizzati. L'uomo tirò fuori dalla tasca una piastra con un piccolo manico e l'inserì nell'apposita fessura. La porta si aprì velocemente. Era una sala di proiezione piuttosto asettica, impersonale. Alle altre poltrone erano seduti una decina di uomini e un paio di stenografe. La crema della Casa Bianca, Pentagono e Nasa stavano osservando un filmato. Il portavoce si sedette silenziosamente cercando di non disturbare. Benché l'avesse già visto rimase affascinato dalle immagini. Nessuno gli prestò attenzione
Il suolo venusiano si perdeva a vista d'occhio. Sullo sfondo, non molto visibile, una catena montuosa e in alto la cappa eternamente grigia della nubi. La telecamera aveva preso a ruotare spostandosi sulla sinistra quando accadde qualcosa. Un masso grande quanto un'anguria rotolò nel campo visivo. Poi quella che parve un'ombra in movimento parve sbucare dal nulla. L'immagine si inclinò ... poi svanì. Le luci della sala si accesero.
Il Direttore Generale del Progetto Venere si girò verso gli altri. “Questo è tutto. Due minuti e ventisette secondi di proiezione. L'abbiamo visto più volte senza capire nulla. Qualche idea?”
Il nuovo entrato azzardò: “Forse una montagna nelle vicinanze. Quando la sonda si è posata ha rotto l'equilibrio precario di qualche masso che è precipitato travolgendola.”
“Ah, è qui Roger. No, non è possibile. Ci avevamo pensato anche noi, ma il film dell'avvicinamento ci ha mostrato una zona assolutamente piatta, come avevamo programmato ovviamente.” Poi come ricordandosi di qualcosa chiese: “I giornalisti?”
“Turbolenti e sospettosi come al solito. Qualcuno ha forse fiutato qualcosa ma nulla di certo.”
“Bene.” E rivolto agli altri “Signori, qui c'è una sola cosa da fare: mandare su un'altra sonda e vedere cos'è successo alla prima.”
“Ma ... ma questo vuol dire interrompere il Progetto Saturno! Cosa penserà il mondo intero?”
“Chiedetevi piuttosto cosa penserebbe se lasciassimo perdere. Certo vi renderete conto che lassù può esserci qualcosa .....o qualcuno.”
Il silenzio fu più chiaro di un assenso.
Il venusiano sbucò con la sua galleria in superficie. Il sistema di raffreddamento esterno cessò di funzionare. La temperatura era tornata normale. Sollevò le antenne e all'improvviso captò del metallo in avvicinamento.
“Rrrrrrotr, smettila di mangiare quel pezzo di metallo ossidato e vieni fuori.”
L'altro gli sbucò di fianco: “Ma Zzzzzzotz, io ho fame. Cosa c'è?”
Zzzzzzotz indirizzò la sua attenzione verso l'oggetto in arrivo: “Lassù qualcuno ci ama.”
“Perché?”
E Zzzzzzotz sorrise agitando i peduncoli: “Un'altra torta.”