Il
XXV Aprile
Ormai
gli italiani sono in festa, ma la maggior parte non sa che cosa si
festeggi e il perché, né saranno sufficienti i numerosi tronfi
discorsi commemorativi per rendere edotti.
Perché,
mi sono detto, non provare a spiegare l’importanza di questa data,
magari con la collaborazione di altri, e allora è nato l’articolo
che segue e che comprende editoriali miei e di Ferdinando Camon, una
recensione di un libro che dovrebbe essere particolarmente
interessante e che è dovuta alla penna di Katia Ciarrocchi, una
poesia di Salvatore Quasimodo e un bel racconto di Piera Maria
Chessa.
25
aprile 1945 – 25 aprile 2006
di
Renzo Montagnoli
Domani
ricorre il 61° anniversario della liberazione, una festa, specie
negli ultimi anni, fonte di contrasti e di diatribe ad opera di
chi intende parificare, con identici diritti e dignità, i partigiani
e i fascisti.
Con
questa riflessione non intendo alimentare il fuoco che da sempre cova
sotto le ceneri, ma voglio evidenziare l'importanza, spesso
sconosciuta ai più, di questa festività.
Sì,
indubbiamente si celebra la fine di una guerra tragica per il nostro
paese, soprattutto dopo l'8 settembre del 1943; si può considerare
altresì la liberazione dalla tirannia nazi-fascista e
anche come con essa prese l'avvio il processo di
democratizzazione del nostro paese.
Certo,
il 25
aprile è
tutto questo, ma per me assume un significato ancora più ampio, a
suggello di quanto accaduto a seguito del raffazzonato armistizio
voluto da un re per salvare se stesso, sordo, come per il passato,
alla dignità dei suoi sudditi.
I
Savoia, con le guerre di indipendenza, con la spedizione dei mille e
con tutti altri episodi che videro gli allora cittadini dell'Italia
più spettatori che protagonisti, riuscirono a unificare sotto di sé
uno stato di notevole ampiezza, i cui abitanti erano simili più per
un'identità di linguaggio che per dei comuni interessi.
Insomma,
la famosa frase “Ora che abbiamo fatto l'Italia, dobbiamo fare gli
italiani.” aveva un senso logico del tutto riscontrabile
nella realtà.
L'identità
nazionale non avvenne negli anni successivi, e nemmeno la prima
guerra mondiale la facilitò; a maggior ragione anche il fascismo non
riuscì a dare il suo contributo, poiché il senso d'orgoglio di
essere italiani non era nelle coscienze, ma veniva imposto
dall'alto.
Qualsiasi
stato ha qualche evento che ricorda la sua unità nazionale, come gli
Stati Uniti con la loro dichiarazione di indipendenza, come la
Francia, con la presa della Bastiglia, tutti fatti in cui i
partecipanti si ritrovarono ad avere comuni identità di vedute.
Per
quanto possa sembrar strano, la guerra civile, scoppiata
nel nostro paese dopo l'8 settembre del 1943, soprattutto con la
costituzione della vassalla Repubblica di Salò, finisce con il
costituire la nostra prova di nascita di un popolo.
Le
quattro giornate di Napoli, altre rivolte meno note in Meridione, la
guerra partigiana al Nord, con il loro carico di dolore e di lacrime,
hanno finito idealmente con l'unire il povero bracciante
del Salento con il contadino vignaiolo dell'Astigiano,
emarginando chi voleva negare l'identità nazionale, in primis gli
invasori tedeschi, e poi i loro alleati repubblichini, miranti solo a
conservare privilegi del passato contro l'interesse di tutta la
collettività.
E
non è un caso che fra i partigiani troviamo persone di diverse
ideologie politiche, mentre la stessa cosa non esiste nella
Repubblica Sociale Italiana:
laddove c'era
un'unione di cittadini, mossi dallo stesso anelito di
libertà, nello staterello fascista si
ritrovarono invece solo quelli intenti a difendere uno status quo
precedente, e dunque per esclusivi interessi individuali.
Sono
due concetti diversi di nazione che vengono a scontrarsi: l'uno volto
ad affermare una comunanza di obiettivi e di affinità, l'altro teso
a privilegiare il singolo sul collettivo.
Ecco
perché per me il 25
aprile è
anche, soprattutto, la festa dell'unione di un popolo.
Siamo
a pochi giorni dalla conclusione delle elezioni che hanno
identificato una nazione divisa in due; c'è chi ne sta
approfittando, accentuando questa divisione, e in pratica minando le
fondamenta della nostra nazione.
Da
italiano dico a tutti gli italiani: non prestate orecchio, siamo uno
stesso popolo e quella divisione che così tanto viene evidenziata
è solo politica.
Abbiamo
una stessa cultura, una stessa storia, patrimoni indelebili,
costruiti spesso con il sangue; essi non verranno mai meno, non
avranno quella temporaneità propria dell'illusione politica.
Cerchiamo i punti di contatto, non quelli di divisione, pensiamo
a un unico futuro, mostriamo al mondo che non siamo solo un
popolo unito quando gioca la nazionale di calcio.
Qualcosa in cui credere
di Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso - Repubblica" 30 aprile
2012
«C’è troppa indisciplina nelle nostre famiglie, propongo che quando entrano i genitori, i figli si alzino in piedi»: parole del primo ministro inglese, David Cameron. Dice che manca il senso del dovere in Inghilterra. Manca anche in Italia. In tutta la società: c’è troppa sregolatezza dappertutto, casa, scuola, lavoro, Parlamento. In casa manca il rispetto per i genitori, a scuola manca il rispetto della cultura, in azienda e in ufficio manca il senso del lavoro, in politica manca il senso dello Stato. Non vogliamo essere al servizio di niente,vogliamo che tutto sia al nostro servizio. I figli non obbediscono ai genitori, gli studenti irridono i professori su YouTube, in Parlamento ogni partito cura le proprie casse e i propri voti. Che i figli si alzino quando entrano i genitori forse è troppo, ma che si alzino gli studenti quando entrano i professori è giusto. Una volta era un dovere in tutte le scuole, adesso c’è un certo lassismo. Alzandosi in piedi quando entra il professore, gli studenti mostrano rispetto verso ciò che il professore porta: oggi spiegherà un canto di Dante o la teoria di Copernico, tornando a casa tu, studente, passi in mezzo a migliaia di persone che quelle cose non le sanno, il tuo insegnante ti regala qualcosa di prezioso, che cambia la tua vita. Mostrare rispetto significa mostrare gratitudine. Anni fa il Centro-Destra proponeva che prima delle lezioni gli studenti assistessero in cortile all’alzabandiera, dritti sull’attenti. Non se ne fece nulla. E come si poteva farne qualcosa, se un partito di quell’alleanza proponeva di tuffare la bandiera nel cesso? E che, i nostri ragazzi si mettono sull’attenti davanti al cesso?
L’oltraggio alla bandiera e al 25 aprile sono segni di decadenza. Andrebbero puniti. Il parlamentare che dice: “La bandiera italiana mi fa schifo”, andrebbe espulso dal Parlamento.
C’è chi propone di abolire il valore legale della laurea: i laureati si presentano ai concorsi tutti alla pari, a prescindere dal punteggio con cui si sono laureati. E perché? Perché ci sono università che regalano i voti, e università che te li fan sudare. Ah, ma allora qui il problema non è nella laurea, è nelle università. Fatele funzionare tutte, ma se io ho la laurea con 110 e lode, pretendo che valga come tale. Il 110 e la lode sono un merito, questa dev’essere la regola.
Chi ha un ruolo pubblico, non può sgarrare neanche nelle piccole cose. Va al ristorante? Se lo paga. Va in vacanza? Se la paga. Ce la paghiamo noi, che guadagniamo un decimo di lui, perché non se la paga lui, che guadagna il decuplo? Se uno ti offre qualcosa, acquista il diritto di chiederti qualcosa, e tu governatore (in questo caso, della Lombardia) diventi ricattabile.
Chi ha rubato non deve soltanto smettere di rubare, deve anche restituire tutto quello che ha rubato. C’era una vecchietta a Venezia, che si fingeva cieca e tirava la pensione d’invalidità, lo Stato l’ha scoperta e adesso la costringe a restituire tutti i soldi. Non li ha? Deve pagare, o s’impicchi: le regole sono regole. Ma scusate, il figlio di Bossi rubacchiava lo stipendio di consigliere regionale, 12 mila euro almese, non se lo meritava, lo ha riconosciuto e s’è dimesso. Ma dove sono i soldi che ha intascato finora? Se li tiene? Se lo Stato se li fa ridare, è uno Stato serio, se non se li fa dare, è uno Stato-burletta.
Burletta richiama burlesque: noi disperati per la crisi, con i più disperati che si suicidano, e il nostro ex-capo di governo rievoca le serate con fanciulle discinte, impegnate in gare di burlesque? Qualcuna era anche vestita da suora: lui chiede i voti ai cattolici, e poi profana ciò in cui credono?
Non si salva niente, studio lavoro governo finanza tasse religione bandiera… Se uno vuol salvarsi, vivere una vita che abbia una dignità, al servizio di valori che la superino, deve trovarli da sé, non nel pubblico ma nel privato, in famiglia. Per questo Cameron pensa che bisogna salvare la famiglia, imporle una disciplina. È che noi pensavamo la famiglia come regno dell’affetto, non dell’autorità. Se dovessimo imporre l’autorità in famiglia, perché fuori non ce n’è nessun’altra, sarebbe il danno più grave che patiamo dalla nostra decadenza.
«C’è troppa indisciplina nelle nostre famiglie, propongo che quando entrano i genitori, i figli si alzino in piedi»: parole del primo ministro inglese, David Cameron. Dice che manca il senso del dovere in Inghilterra. Manca anche in Italia. In tutta la società: c’è troppa sregolatezza dappertutto, casa, scuola, lavoro, Parlamento. In casa manca il rispetto per i genitori, a scuola manca il rispetto della cultura, in azienda e in ufficio manca il senso del lavoro, in politica manca il senso dello Stato. Non vogliamo essere al servizio di niente,vogliamo che tutto sia al nostro servizio. I figli non obbediscono ai genitori, gli studenti irridono i professori su YouTube, in Parlamento ogni partito cura le proprie casse e i propri voti. Che i figli si alzino quando entrano i genitori forse è troppo, ma che si alzino gli studenti quando entrano i professori è giusto. Una volta era un dovere in tutte le scuole, adesso c’è un certo lassismo. Alzandosi in piedi quando entra il professore, gli studenti mostrano rispetto verso ciò che il professore porta: oggi spiegherà un canto di Dante o la teoria di Copernico, tornando a casa tu, studente, passi in mezzo a migliaia di persone che quelle cose non le sanno, il tuo insegnante ti regala qualcosa di prezioso, che cambia la tua vita. Mostrare rispetto significa mostrare gratitudine. Anni fa il Centro-Destra proponeva che prima delle lezioni gli studenti assistessero in cortile all’alzabandiera, dritti sull’attenti. Non se ne fece nulla. E come si poteva farne qualcosa, se un partito di quell’alleanza proponeva di tuffare la bandiera nel cesso? E che, i nostri ragazzi si mettono sull’attenti davanti al cesso?
L’oltraggio alla bandiera e al 25 aprile sono segni di decadenza. Andrebbero puniti. Il parlamentare che dice: “La bandiera italiana mi fa schifo”, andrebbe espulso dal Parlamento.
C’è chi propone di abolire il valore legale della laurea: i laureati si presentano ai concorsi tutti alla pari, a prescindere dal punteggio con cui si sono laureati. E perché? Perché ci sono università che regalano i voti, e università che te li fan sudare. Ah, ma allora qui il problema non è nella laurea, è nelle università. Fatele funzionare tutte, ma se io ho la laurea con 110 e lode, pretendo che valga come tale. Il 110 e la lode sono un merito, questa dev’essere la regola.
Chi ha un ruolo pubblico, non può sgarrare neanche nelle piccole cose. Va al ristorante? Se lo paga. Va in vacanza? Se la paga. Ce la paghiamo noi, che guadagniamo un decimo di lui, perché non se la paga lui, che guadagna il decuplo? Se uno ti offre qualcosa, acquista il diritto di chiederti qualcosa, e tu governatore (in questo caso, della Lombardia) diventi ricattabile.
Chi ha rubato non deve soltanto smettere di rubare, deve anche restituire tutto quello che ha rubato. C’era una vecchietta a Venezia, che si fingeva cieca e tirava la pensione d’invalidità, lo Stato l’ha scoperta e adesso la costringe a restituire tutti i soldi. Non li ha? Deve pagare, o s’impicchi: le regole sono regole. Ma scusate, il figlio di Bossi rubacchiava lo stipendio di consigliere regionale, 12 mila euro almese, non se lo meritava, lo ha riconosciuto e s’è dimesso. Ma dove sono i soldi che ha intascato finora? Se li tiene? Se lo Stato se li fa ridare, è uno Stato serio, se non se li fa dare, è uno Stato-burletta.
Burletta richiama burlesque: noi disperati per la crisi, con i più disperati che si suicidano, e il nostro ex-capo di governo rievoca le serate con fanciulle discinte, impegnate in gare di burlesque? Qualcuna era anche vestita da suora: lui chiede i voti ai cattolici, e poi profana ciò in cui credono?
Non si salva niente, studio lavoro governo finanza tasse religione bandiera… Se uno vuol salvarsi, vivere una vita che abbia una dignità, al servizio di valori che la superino, deve trovarli da sé, non nel pubblico ma nel privato, in famiglia. Per questo Cameron pensa che bisogna salvare la famiglia, imporle una disciplina. È che noi pensavamo la famiglia come regno dell’affetto, non dell’autorità. Se dovessimo imporre l’autorità in famiglia, perché fuori non ce n’è nessun’altra, sarebbe il danno più grave che patiamo dalla nostra decadenza.
La Festa amara della Liberazione
di Ferdinando Camon
Quotidiani
locali del Gruppo "Espresso-Repubblica" 25
aprile 2013
Grande giornata oggi: Festa della Liberazione. Grandissima per coloro che ricordano come la Liberazione è avvenuta. Per tutti costoro la domanda è: è questa l’Italia Liberata? È così che la si aspettava? È stato realizzato l’ideale di coloro che hanno combattuto e sono morti per liberare l’Italia? Guardando l’Italia di oggi sarebbero contenti?
No, non sarebbero contenti. Avrebbero (hanno, quelli che sono ancora vivi) sorprese atroci. Inutile girare alla larga ed evitare la sorpresa più amara: abbiamo appena eletto il presidente della repubblica, e tra i candidati di un partito assai votato dagli italiani c’era un volontario dei repubblichini, i miliziani della Repubblica Sociale Italiana. Partigiani e repubblichini erano i due fronti opposti. Gli uni combattevano gli altri. La Repubblica Sociale era nata “dopo” la nostra sconfitta militare, quand’era chiaro che la guerra era perduta, i volontari che correvano ad arruolarsi nella RSI non volevano vincere ma volevano (sono parole loro, il loro programma) “morire come lupi”. Di fatto, i combattenti della RSI sono stati cacciatori e fucilatori di partigiani. Forse non tutti. I buoni ci sono dappertutto, anche tra i tedeschi di Marzabotto e di Stazzema. Può darsi che questo volontario della RSI sia personalmente incolpevole, ma se un nemico dei combattenti per la Liberazione è oggi candidato alla presidenza della repubblica, vuol dire che l’Italia non è nata sui progetti, le speranze, le attese dei combattenti per la Liberazione.
Certo, siamo liberi, e la libertà è il primo e massimo bene sognato nei giorni della Liberazione. Possiamo votare, studiare, lavorare, essere per il governo o per l’opposizione, pretendere che i nostri diritti siano rispettati, citare in processo chi li calpesta, mandare al parlamento chi vogliamo. Ma tutti questi diritti sono attuati in parte, e alcuni in minima parte. Non possiamo mandare al parlamento quelli che vogliamo, ma solo quelli prescelti dai partiti. Dunque non c’è pieno diritto elettorale. Non possiamo citare in processo chi ci fa un torto civile o penale. La Giustizia ha costi enormi, e dunque funziona per classi sociali. Ha tempi lunghissimi, e una giustizia che si fa aspettare anni e anni è un’ingiustizia. Molti cittadini, quando patiscono dei torti, si rassegnano senza reagire. Dall’altra parte, quelli che fanno i torti, li fanno contando sul fatto che saranno puniti molto tardi o addirittura mai. Il lavoro oggi non c’è, i figli pesano sui padri anche a 40 anni o vanno all’estero. Quelli che restano in patria, urtano contro un ostacolo che chi ha liberato l’Italia non sospettava che avrebbe avvelenato le nostre vite oggi: tu vuoi lavorare e sai lavorare e lavori bene, ma il lavoro non si ottiene per merito, questa Italia è costruita sulla negazione della meritocrazia. Non solo nei settori privati ma anche nei concorsi statali, anche quelli più delicati come l’università o la Giustizia. Chi ha combattuto per liberare l’Italia, e aveva contro di sé nemici criminali che facevano stragi di civili, contava sul fatto che, dopo la Liberazione, i criminali sarebbero stati perseguitati e scoperti e processati e condannati in tutta Europa. Purtroppo non è così. L’Europa non è nata sull’espiazione delle colpe, ma sull’oblio delle colpe. Non parlo in assoluto, non voglio fare un’affermazione contestabile: sto dicendo che non tutte le colpe sono state indagate, alcune, enormi e mostruose, sono state coscientemente nascoste. A insabbiare la Giustizia hanno lavorato governi europei, anche governi italiani. No, non è questa l’Italia che chi ha fatto la Liberazione sognava. La Liberazione è stata una Rivoluzione generale, che doveva far partire una catena di riforme. La catena s’è bloccata. Ricordiamocelo, oggi.
Grande giornata oggi: Festa della Liberazione. Grandissima per coloro che ricordano come la Liberazione è avvenuta. Per tutti costoro la domanda è: è questa l’Italia Liberata? È così che la si aspettava? È stato realizzato l’ideale di coloro che hanno combattuto e sono morti per liberare l’Italia? Guardando l’Italia di oggi sarebbero contenti?
No, non sarebbero contenti. Avrebbero (hanno, quelli che sono ancora vivi) sorprese atroci. Inutile girare alla larga ed evitare la sorpresa più amara: abbiamo appena eletto il presidente della repubblica, e tra i candidati di un partito assai votato dagli italiani c’era un volontario dei repubblichini, i miliziani della Repubblica Sociale Italiana. Partigiani e repubblichini erano i due fronti opposti. Gli uni combattevano gli altri. La Repubblica Sociale era nata “dopo” la nostra sconfitta militare, quand’era chiaro che la guerra era perduta, i volontari che correvano ad arruolarsi nella RSI non volevano vincere ma volevano (sono parole loro, il loro programma) “morire come lupi”. Di fatto, i combattenti della RSI sono stati cacciatori e fucilatori di partigiani. Forse non tutti. I buoni ci sono dappertutto, anche tra i tedeschi di Marzabotto e di Stazzema. Può darsi che questo volontario della RSI sia personalmente incolpevole, ma se un nemico dei combattenti per la Liberazione è oggi candidato alla presidenza della repubblica, vuol dire che l’Italia non è nata sui progetti, le speranze, le attese dei combattenti per la Liberazione.
Certo, siamo liberi, e la libertà è il primo e massimo bene sognato nei giorni della Liberazione. Possiamo votare, studiare, lavorare, essere per il governo o per l’opposizione, pretendere che i nostri diritti siano rispettati, citare in processo chi li calpesta, mandare al parlamento chi vogliamo. Ma tutti questi diritti sono attuati in parte, e alcuni in minima parte. Non possiamo mandare al parlamento quelli che vogliamo, ma solo quelli prescelti dai partiti. Dunque non c’è pieno diritto elettorale. Non possiamo citare in processo chi ci fa un torto civile o penale. La Giustizia ha costi enormi, e dunque funziona per classi sociali. Ha tempi lunghissimi, e una giustizia che si fa aspettare anni e anni è un’ingiustizia. Molti cittadini, quando patiscono dei torti, si rassegnano senza reagire. Dall’altra parte, quelli che fanno i torti, li fanno contando sul fatto che saranno puniti molto tardi o addirittura mai. Il lavoro oggi non c’è, i figli pesano sui padri anche a 40 anni o vanno all’estero. Quelli che restano in patria, urtano contro un ostacolo che chi ha liberato l’Italia non sospettava che avrebbe avvelenato le nostre vite oggi: tu vuoi lavorare e sai lavorare e lavori bene, ma il lavoro non si ottiene per merito, questa Italia è costruita sulla negazione della meritocrazia. Non solo nei settori privati ma anche nei concorsi statali, anche quelli più delicati come l’università o la Giustizia. Chi ha combattuto per liberare l’Italia, e aveva contro di sé nemici criminali che facevano stragi di civili, contava sul fatto che, dopo la Liberazione, i criminali sarebbero stati perseguitati e scoperti e processati e condannati in tutta Europa. Purtroppo non è così. L’Europa non è nata sull’espiazione delle colpe, ma sull’oblio delle colpe. Non parlo in assoluto, non voglio fare un’affermazione contestabile: sto dicendo che non tutte le colpe sono state indagate, alcune, enormi e mostruose, sono state coscientemente nascoste. A insabbiare la Giustizia hanno lavorato governi europei, anche governi italiani. No, non è questa l’Italia che chi ha fatto la Liberazione sognava. La Liberazione è stata una Rivoluzione generale, che doveva far partire una catena di riforme. La catena s’è bloccata. Ricordiamocelo, oggi.
Lo
zio partigiano
di
Piera Maria Chessa
L’indomani
sarebbe stato il 25
aprile,
giorno della Liberazione. Una data importante per Anna per due
motivi, quale dei due lo fosse di più era difficile da dire. Il 25
aprile,
tanti anni prima, era morto suo padre, nello stesso giorno di un anno
ancora più lontano, il 1945, l’Italia si accingeva a rinascere,
dopo tanta desolazione.
Due avvenimenti così diversi tra loro ma ugualmente intensi per lei. Uno intimamente privato, l’altro straordinariamente collettivo.
In quel momento Anna stava seduta sul divano, dinanzi al televisore, davanti a lei le immagini di quel giorno lontano, mai conosciuto nella realtà ma profondamente interiorizzato grazie ai racconti di suo padre, dei suoi zii, alle fotografie sui giornali, sulle riviste, sui libri, ai servizi trasmessi alla televisione.
Un giorno di gioia e di “liberazione” per lei ormai adulta. Ma, subito dopo, il ricordo di un fatto tragico si era affacciato alla sua mente, un avvenimento precedente al 25 aprile del ’45. Poco meno di un anno prima, il 21 maggio del 1944, un suo zio, fratello di suo padre, partigiano di poco più di vent’anni, era stato ucciso dai nazisti in Slovenia, al confine col Friuli- Venezia Giulia.
Uno zio mai conosciuto ma del quale aveva sentito parlare tanto.
Rifletteva Anna in quella sera di primavera, era rilassata ma col cuore e la mente rivolta a fatti e affetti che non voleva dimenticare. E, a un certo punto, il sonno ebbe la meglio sulla sua attenzione agli avvenimenti raccontati.
Due avvenimenti così diversi tra loro ma ugualmente intensi per lei. Uno intimamente privato, l’altro straordinariamente collettivo.
In quel momento Anna stava seduta sul divano, dinanzi al televisore, davanti a lei le immagini di quel giorno lontano, mai conosciuto nella realtà ma profondamente interiorizzato grazie ai racconti di suo padre, dei suoi zii, alle fotografie sui giornali, sulle riviste, sui libri, ai servizi trasmessi alla televisione.
Un giorno di gioia e di “liberazione” per lei ormai adulta. Ma, subito dopo, il ricordo di un fatto tragico si era affacciato alla sua mente, un avvenimento precedente al 25 aprile del ’45. Poco meno di un anno prima, il 21 maggio del 1944, un suo zio, fratello di suo padre, partigiano di poco più di vent’anni, era stato ucciso dai nazisti in Slovenia, al confine col Friuli- Venezia Giulia.
Uno zio mai conosciuto ma del quale aveva sentito parlare tanto.
Rifletteva Anna in quella sera di primavera, era rilassata ma col cuore e la mente rivolta a fatti e affetti che non voleva dimenticare. E, a un certo punto, il sonno ebbe la meglio sulla sua attenzione agli avvenimenti raccontati.
Stanca,
dopo un lungo viaggio, Anna, insieme ad alcuni parenti, arrivò
finalmente al confine tra il Friuli-Venezia Giulia e la
Slovenia.
Alcune persone del luogo, con le quali faticosamente erano riusciti ad avere dei contatti, li aspettavano, insieme sarebbero andati nel piccolissimo paese sloveno dove, avevano saputo, era stato sepolto Stefano, lo “zio partigiano”, come da sempre veniva chiamato in famiglia.
Anna non avrebbe saputo dire con precisione che cosa provasse in quel momento, nostalgia, rimpianto, ansia, malinconia?
- Malinconia, forse, – si disse, – un gran rimpianto, ma anche tanta rabbia per la morte di un ragazzo che aveva poco più di vent’anni!
Presero diversi mezzi, inizialmente un treno, poi dei pullman. Il primo, comodo e spazioso, gli altri invece erano mezzi vecchi che ad Anna sembrarono persino poco sicuri.
Finalmente, dopo diverse ore di incertezza e preoccupazione, arrivarono nel piccolo borgo situato in terra slovena che ospitava, nel suo minuscolo cimitero, lo zio Stefano.
Era una bella giornata autunnale, ancora tiepida, quasi un giorno di fine estate. Già sul pullman la loro guida aveva mostrato oltre i vetri un punto lontano.
- Quasi arrivati, – disse, – nel suo italiano impreciso ma comprensibile, – là, dopo monte, vedete piccola chiesa, e vicino, cimitero.
Anna si sporse un poco, ma il sole le impedì di vedere con chiarezza, intravedeva lontano soltanto un po’ di foschia.
Passò ancora qualche tempo, poi finalmente il pullman si fermò.
Anna si allontanò un poco dai suoi, voleva vivere intensamente e da sola quel momento. Doveva essere molto stanca ma, coinvolta com’era, non ne percepiva l’intensità. Lo zio di cui tanto aveva sentito parlare, sul quale aveva fatto tante domande ai genitori, soprattutto al padre, fino a sfinirli, era là, poco lontano da lei.
- Ventidue anni di una vita che si era conclusa con un massacro per colpa forse di giovani come lui, indottrinati da gente ben più smaliziata, ma non per questo incolpevoli, – pensò.
Si fermò sul ciglio di una strada polverosa e guardò intensamente davanti a sè. Ecco la piccola chiesa di cui aveva parlato la guida, il tetto spiovente, e a fianco il campanile, alto e snello. Poco distanti i muri del minuscolo cimitero rettangolare, a malapena Anna intravedeva alcune croci, poi, piccole case bianche con i tetti rossi, ordinate, una vicina all’altra, quasi sentinelle in quel luogo di preghiera e meditazione. Intorno, muretti a secco, alberi ancora verdi ma già tendenti verso colori autunnali, campi e prati color smeraldo si alternavano ad altri gialli. Sullo sfondo, colli avvolti da una luce azzurrina. Nessuno presente, tranne loro venuti da lontano.
Anna provava ora una sensazione di pace, era in attesa, come sospesa.
Qualcuno la chiamò per avvicinarsi insieme al cimitero, dovevano percorrere ancora un breve tratto di strada a piedi. Si incamminarono. Impiegarono dieci minuti, forse quindici, poi furono davanti al cancello.
Anna, le sue due sorelle e un cugino, quasi un fratello, si fermarono nel medesimo istante. Erano tutti molto emozionati, da tempo aspettavano quel momento perché quel viaggio desiderato era stato rimandato più volte. Ma ora erano lì a rendere omaggio allo zio Stefano.
La guida li guardò e intuendo il loro stato d’animo attese con discrezione un cenno.
Anna capì, scambiò qualche parola con i suoi e poi disse:
- Possiamo entrare, siamo pronti.
Il ragazzo aprì il cancello. Doveva essere chiuso da tempo perché cigolò vistosamente. Poi li precedette nel breve viale che conduceva ad un piccolo gruppo di tombe situate su uno dei lati più lunghi del cimitero. Quando arrivò a destinazione si fermò. Indicò una tomba, stava al centro, quasi protetta dalle altre. Anna si avvicinò ancora un poco seguita dai suoi.
La commozione era grande. Su una lapide c’era quel nome a lungo ripetuto nella mente dopo che i genitori avevano raccontato loro quel che era successo.. La storia di Stefano, zio ed eroe, amato e rispettato da quei bambini diventati poi adulti. C’era anche una fotografia, ingiallita e poco chiara, ma abbastanza da riconoscere le sembianze di un ragazzo dagli occhi grandi, dal sorriso timido e ugualmente determinato, dallo sguardo intenso proteso, come quello di tutti i giovani, verso il futuro.
La sua vita aveva preso invece un corso diverso. Nascosto in una casa, presso una famiglia amica, era stato preso dai nazisti insieme ad alcuni compagni. Per loro e per i generosi ospiti non c’era stato scampo.
Anna pensò ai loro ultimi istanti chiedendosi che cosa potevano aver provato, quali pensieri avevano attraversato le loro menti.
Ancora dolore e rabbia in lei. Lasciò che gli occhi si bagnassero senza opporre resistenza, si voltò infine verso i suoi e vide in loro la stessa commozione.
Si era fatto tardi, in certe circostanze il tempo corre fin troppo velocemente. La guida spiegò che era arrivato il momento di andar via, avevano diverse ore di viaggio prima di arrivare al confine con l’Italia.
- Andiamo, – disse Anna, – siamo pronti.
Si diressero di nuovo verso il cancello.
Alcune persone del luogo, con le quali faticosamente erano riusciti ad avere dei contatti, li aspettavano, insieme sarebbero andati nel piccolissimo paese sloveno dove, avevano saputo, era stato sepolto Stefano, lo “zio partigiano”, come da sempre veniva chiamato in famiglia.
Anna non avrebbe saputo dire con precisione che cosa provasse in quel momento, nostalgia, rimpianto, ansia, malinconia?
- Malinconia, forse, – si disse, – un gran rimpianto, ma anche tanta rabbia per la morte di un ragazzo che aveva poco più di vent’anni!
Presero diversi mezzi, inizialmente un treno, poi dei pullman. Il primo, comodo e spazioso, gli altri invece erano mezzi vecchi che ad Anna sembrarono persino poco sicuri.
Finalmente, dopo diverse ore di incertezza e preoccupazione, arrivarono nel piccolo borgo situato in terra slovena che ospitava, nel suo minuscolo cimitero, lo zio Stefano.
Era una bella giornata autunnale, ancora tiepida, quasi un giorno di fine estate. Già sul pullman la loro guida aveva mostrato oltre i vetri un punto lontano.
- Quasi arrivati, – disse, – nel suo italiano impreciso ma comprensibile, – là, dopo monte, vedete piccola chiesa, e vicino, cimitero.
Anna si sporse un poco, ma il sole le impedì di vedere con chiarezza, intravedeva lontano soltanto un po’ di foschia.
Passò ancora qualche tempo, poi finalmente il pullman si fermò.
Anna si allontanò un poco dai suoi, voleva vivere intensamente e da sola quel momento. Doveva essere molto stanca ma, coinvolta com’era, non ne percepiva l’intensità. Lo zio di cui tanto aveva sentito parlare, sul quale aveva fatto tante domande ai genitori, soprattutto al padre, fino a sfinirli, era là, poco lontano da lei.
- Ventidue anni di una vita che si era conclusa con un massacro per colpa forse di giovani come lui, indottrinati da gente ben più smaliziata, ma non per questo incolpevoli, – pensò.
Si fermò sul ciglio di una strada polverosa e guardò intensamente davanti a sè. Ecco la piccola chiesa di cui aveva parlato la guida, il tetto spiovente, e a fianco il campanile, alto e snello. Poco distanti i muri del minuscolo cimitero rettangolare, a malapena Anna intravedeva alcune croci, poi, piccole case bianche con i tetti rossi, ordinate, una vicina all’altra, quasi sentinelle in quel luogo di preghiera e meditazione. Intorno, muretti a secco, alberi ancora verdi ma già tendenti verso colori autunnali, campi e prati color smeraldo si alternavano ad altri gialli. Sullo sfondo, colli avvolti da una luce azzurrina. Nessuno presente, tranne loro venuti da lontano.
Anna provava ora una sensazione di pace, era in attesa, come sospesa.
Qualcuno la chiamò per avvicinarsi insieme al cimitero, dovevano percorrere ancora un breve tratto di strada a piedi. Si incamminarono. Impiegarono dieci minuti, forse quindici, poi furono davanti al cancello.
Anna, le sue due sorelle e un cugino, quasi un fratello, si fermarono nel medesimo istante. Erano tutti molto emozionati, da tempo aspettavano quel momento perché quel viaggio desiderato era stato rimandato più volte. Ma ora erano lì a rendere omaggio allo zio Stefano.
La guida li guardò e intuendo il loro stato d’animo attese con discrezione un cenno.
Anna capì, scambiò qualche parola con i suoi e poi disse:
- Possiamo entrare, siamo pronti.
Il ragazzo aprì il cancello. Doveva essere chiuso da tempo perché cigolò vistosamente. Poi li precedette nel breve viale che conduceva ad un piccolo gruppo di tombe situate su uno dei lati più lunghi del cimitero. Quando arrivò a destinazione si fermò. Indicò una tomba, stava al centro, quasi protetta dalle altre. Anna si avvicinò ancora un poco seguita dai suoi.
La commozione era grande. Su una lapide c’era quel nome a lungo ripetuto nella mente dopo che i genitori avevano raccontato loro quel che era successo.. La storia di Stefano, zio ed eroe, amato e rispettato da quei bambini diventati poi adulti. C’era anche una fotografia, ingiallita e poco chiara, ma abbastanza da riconoscere le sembianze di un ragazzo dagli occhi grandi, dal sorriso timido e ugualmente determinato, dallo sguardo intenso proteso, come quello di tutti i giovani, verso il futuro.
La sua vita aveva preso invece un corso diverso. Nascosto in una casa, presso una famiglia amica, era stato preso dai nazisti insieme ad alcuni compagni. Per loro e per i generosi ospiti non c’era stato scampo.
Anna pensò ai loro ultimi istanti chiedendosi che cosa potevano aver provato, quali pensieri avevano attraversato le loro menti.
Ancora dolore e rabbia in lei. Lasciò che gli occhi si bagnassero senza opporre resistenza, si voltò infine verso i suoi e vide in loro la stessa commozione.
Si era fatto tardi, in certe circostanze il tempo corre fin troppo velocemente. La guida spiegò che era arrivato il momento di andar via, avevano diverse ore di viaggio prima di arrivare al confine con l’Italia.
- Andiamo, – disse Anna, – siamo pronti.
Si diressero di nuovo verso il cancello.
In
quell’istante Anna avvertì qualcuno accanto a lei che la chiamava.
Rabbrividì leggermente, poi sentì suo marito che diceva:
- Ti sei addormentata sul divano, è tardi, dai, andiamo a riposare!
- Addormentata? – ripetè Anna, – Che è successo, ho solo sognato? Niente è vero, dunque!
Suo marito la guardò perplesso, incuriosito dal suo sguardo ancora assente le chiese di raccontargli il sogno.
- Prima che tu possa dimenticarlo. – scherzò.
Ma Anna era certa che non lo avrebbe dimenticato. Glielo raccontò infatti senza omettere niente.
E mentre narrava una storia che aveva creduto vera si ricordò che qualche anno prima un conoscente, il cui padre era stato partigiano ed era morto in un agguato per mano dei fascisti, era riuscito, sia pure tra tante difficoltà, a riportarne a casa le spoglie.
Perché non incominciare a informarsi sulle procedure da seguire?
- Ti sei addormentata sul divano, è tardi, dai, andiamo a riposare!
- Addormentata? – ripetè Anna, – Che è successo, ho solo sognato? Niente è vero, dunque!
Suo marito la guardò perplesso, incuriosito dal suo sguardo ancora assente le chiese di raccontargli il sogno.
- Prima che tu possa dimenticarlo. – scherzò.
Ma Anna era certa che non lo avrebbe dimenticato. Glielo raccontò infatti senza omettere niente.
E mentre narrava una storia che aveva creduto vera si ricordò che qualche anno prima un conoscente, il cui padre era stato partigiano ed era morto in un agguato per mano dei fascisti, era riuscito, sia pure tra tante difficoltà, a riportarne a casa le spoglie.
Perché non incominciare a informarsi sulle procedure da seguire?
Cos'è
il 25 aprile
di
Ferdinando Camon
"Avvenire" 25
aprile 2015
Per chi c’era, in quella fine aprile e inizio maggio del 1945, la liberazione dai nazifascisti fu un evento enorme, e come tale allora non valutabile e non comprensibile. Sì, scappavano i fascisti e i nazisti, ma chi restava? E chi veniva? Per fare che cosa? S’intuiva che nella liberazione dai nazi-fascisti c’era il germe oscuro di un’Italia dai molti partiti, forse ancora monarchica (ma diversamente), forse addirittura repubblicana, comunque senza manganelli, senza olio di ricino, con manifestazioni pubbliche, giornali, giornali radio. Si sentiva che la Resistenza avrebbe contato moltissimo. Noi eravamo un popolo che “aveva la Resistenza”. Sì, eravamo il popolo che aveva inventato il fascismo e il fascismo era stato il maestro del nazismo. Che poi l’allievo avesse superato il maestro, questo era già nella storia. Però noi avevamo inventato il fascismo ma anche la lotta al fascismo, la resistenza del popolo. Ci sono popoli che ci sfottono con la famosa barzelletta coniata contro di noi: “Qual è il libro più breve del mondo? Risposta: l’elenco degli eroi di guerra italiani”. A questa barzelletta rispondeva Brecht (“Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi”), ma rispondiamo anche noi, quando vediamo sul digitale o su Sky o al cinema, qualcuno dei tanti film costruiti sui cosiddetti eroi di guerra: la grandezza della guerra e la grandezza umana stanno su piani diversi, ambedue sono memorabili ma una sola è benefica. E la Resistenza ha avuto un suo eroismo, che nasceva proprio dall’essere la parte militarmente improvvisata e dunque più debole. Bande contro esercito. Oggi, 25 aprile, noi festeggiamo la vittoria delle bande. Abbiamo un lungo elenco di eroi partigiani, perché abbiamo avuto una lunga Resistenza. E possiamo dire: “Infelici quei popoli che, avendo una dittatura, non hanno anche una Resistenza”. Magari avranno diserzioni, tradimenti, congiure, attentati, ma le congiure dei comandi militari, gli attentati alla vita del dittatore, le bombe alle sue riunioni, sono atti eroici, molto eroici, però non sono azioni del popolo, sono sempre azioni del vertice.
Man mano che cresceva la Resistenza al fascismo e che cresceva la repressione fascista, si faceva chiaro un concetto: una parte avrebbe vinto e l’altra avrebbe perso. La parte perdente non combatteva più per la vittoria: combatteva per la vendetta. Il suo motto era: “Morire come lupi”. È questo che rende impossibile oggi onorare ambedue le parti. Aver pietà per i morti dell’altra parte è umano ed è cristiano, ma il tributo d’onore è un’altra cosa. Il capo dello Stato, il cattolico Mattarella, ci ricorda che una parte combatteva per la libertà, l’altra per la sopraffazione. Da una parte è venuta l’Italia in cui viviamo, che avrà mille difetti ma li possiamo denunciare e combattere, dall’altra sarebbe venuta un’Italia in prosecuzione di quella che moriva, che avrebbe continuato a far vivere i suoi cittadini in attuazione della volontà di un uomo o di una oligarchia o di una dottrina. Controllato da quella volontà, tu dovevi essere fascista, non potevi essere marxista, non potevi essere cristiano... È questa la differenza. Ed è una differenza che sta nella Costituzione. Il che significa che il risultato più grande e più duraturo della Resistenza è la Costituzione che abbiamo. Chi è morto da partigiano o da resistente, è morto perché fosse cambiata la Costituzione. La Costituzione si può perfezionare, tutto è perfettibile, ma non si può tradirla. Ricordare oggi la Resistenza vuol dire ricordarsi di questo.
Oggi
ricorre il 25
aprile,
festa della liberazione, o anche della Resistenza, data prescelta per
celebrare il giorno della proclamazione da parte del Comitato di
Liberazione Nazionale Alta Italia l’insurrezione in tutti i
territori ancora occupati dai nazifascisti. In pratica è la
consacrazione in perpetuo dei valori della Resistenza, di quello
straordinario moto popolare che vide, dopo l’8 settembre 1943, una
reazione, decisa e attiva, alle forze tedesche occupanti e ai loro
sodali della Repubblica di Salò. Oggi si tende, da parte di certi
spiriti reazionari, ad associare l’ideale partigiano a quello dei
repubblichini. Attenzione, è un voler capovolgere la storia, è un
voler dare pari dignità a chi la merita e a chi invece non la
merita, è come se volessimo porre su uno stesso piano morale le
forze di polizia e i criminali. Dietro ai partigiani c’è l’ideale
di un mondo libero, in cui tutti sono paritari nei diritti e nei
doveri; dietro i fascisti c’è solo il nulla, anzi qualcosa c’è,
c’è la reazione violenta e rabbiosa di chi non vuole ammettere la
propria sconfitta, tanto da assecondare le forze occupanti tedesche,
tradendo così non tanto l’Italia, ma gli italiani. La bella poesia
che segue commemora i 15 partigiani trucidati il 10 agosto 1944 a
Milano, in piazzale Loreto, i cui corpi restarono esposti a lungo sul
selciato. Altri corpi, appesi alle strutture di un distributore,
nemmeno un anno dopo furono esibiti nello stesso luogo: erano quelli
di Benito Mussolini e di altri gerarchi fucilati. Lo spettacolo non è
stato certo degno di un mondo civile, ma è stato un ulteriore
omaggio a quei quindici assassinati e ai tanti altri torturati e
messi a morte dai nazifascisti.
(Renzo
Montagnoli)
Ai
quindici di Piazzale Loreto
di
Salvatore Quasimodo
Ai quindici di Piazzale Loreto.
Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano:
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.
Al di là della notte.
Il romanzo delle fosse Ardeatine
di
Ivano Liberati
Edizioni
LSWR
Pagg.
208
ISBN 9788868955670
Prezzo
Euro 11,90
Era
Marzo 1944, su Roma pioveva a dirotto e le tessere annonarie erano
diventate insignificanti contenitori di bollini. Per chi voleva
mangiare doveva andare al mercato nero e pagare dieci, venti volte di
più dei prezzi originali.
A Roma in quell’inverno si rubava per fame, e tutto era Verboten: “Verboten portare la barba troppo lunga, Verboten camminare con un passo troppo svelto, Verboten portare pacchi sotto braccio o occhiali scuri, Verboten camminare su certi marciapiedi. Verboten perfino andare in bicicletta da quando si era scoperto che i partigiani le usavano per le loro azioni”.
Anna una delle protagoniste di questa storia troppo vera e poco romanzata, narra le sue avventure/disavventure, tra comparsate nel cinema – per sopravvivere – e pettegolezzi su attrici e registi del momento.
Si girava “Ossessione” il primo film che fuoriusciva dai rigidi schemi fascisti dei telefono bianchi “Il bianco del cinema per mascherare il grigio della vita”.
Anna, va in sposa a Mario un disertore che sopravvive sotto le mentite vesti di uno sfollato, si aggrega a un’organizzazione spionistica , attività sconosciuta ad Anna, e il suo compito è quello di trasmettere messaggi in codice agli alleati e a Badoglio. Per colpa di una spiata i componenti di questa organizzazione vengono presi, imprigionati torturati e malmenati per giorni.
Roma, Via Rasella, 23 marzo 1944: una bomba esplode improvvisamente colpendo un drappello di soldati SS. L’attentato, come verrà reso noto in seguito, è un avvertimento della Resistenza italiana contro gli invasori tedeschi. La rappresaglia nazista scatta immediatamente: per ogni tedesco ucciso pagheranno con la vita dieci italiani, scelti tra i detenuti politici e comuni di Regina Coeli e del carcere di via Tasso. È Herbert Kappler il comandante delle SS che compila la lista delle vittime
Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguto. (Stefani)
Chi furono le vittime, quanto e dove avvenne il massacro non fu dato sapere, solo dopo mesi ci furono i primi sospetti sul lungo, qualcuno aveva visto qualcosa, un sacerdote salesiano che informò anche il vaticano. Nei mesi successivi un via vai discreto di parenti delle vittime si recano sul luogo a lasciare fiori foto o qualcosa che ricordasse quei prigionieri misteriosamente scomparsi, non hanno certezze che i loro famigliari siano sepolti sotto i cumoli di macerie.
In 4 giugno del 1944 le avanguardie della quinta armata americana entrano nella città per le vie principali è finalmente la liberazione.
Dopo alcune mesi si aprono le cave della via Ardeatina e iniziano i riconoscimenti delle vittime.
Ogni anno, il 25 Aprile, nella giornata della memoria Anna è sulla tomba dell’ignoto 122, per ricordare gli avvenimenti, nella Roma occupata dai nazisti.
“Chi per la Patria muor, vissuto è assai! Ebbene, se per la Patria io dovessi versare il mio sangue, se essa mi chiedesse il supremo olocausto, non indietreggerei. Non indietreggerò. Sono italiano e mi vanto di appartenere alla nazione più bella del mondo, a questa bella Italia così martoriata. Se non dobbiamo più rivederci, ricordate che avete avuto un figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando in viso i carnefici!” (Domenico Ricci, tra le vittime delle Fosse Ardeative)
Avevo grandi aspettative per questo libro, ma in realtà ne sono rimasta delusa per come l’autore ha affrontato l’argomento. Ci sono avvenimenti trattati con troppa fretta e in qualche momento mal spiegato, mi immagino un lettore digiuno di storia che per comprendere alcuni momenti devono andare a ricercare l’accaduto. Forse quello che ha “castrato” un po’ il libro è stata la decisione di una narrazione tra il romanzo e il documentario, perché nel romanzo alcuni dialoghi sono scialbi e scontati, mentre la parte giornalistica, quella che riporta l’accaduto è di molto superiore. Liberati è un professionista nel raccontare la guerra, come inviato a potuto vedere con i proprio occhi la bruttezza della guerra e che purtroppo, ancora nel mondo esiste
Ma nonostante questa visione stilistica, sicuramente personale, e forse non condivisibile da altri, consiglio vivamente la lettura di “Al di là della notte” per non dimenticare.
A Roma in quell’inverno si rubava per fame, e tutto era Verboten: “Verboten portare la barba troppo lunga, Verboten camminare con un passo troppo svelto, Verboten portare pacchi sotto braccio o occhiali scuri, Verboten camminare su certi marciapiedi. Verboten perfino andare in bicicletta da quando si era scoperto che i partigiani le usavano per le loro azioni”.
Anna una delle protagoniste di questa storia troppo vera e poco romanzata, narra le sue avventure/disavventure, tra comparsate nel cinema – per sopravvivere – e pettegolezzi su attrici e registi del momento.
Si girava “Ossessione” il primo film che fuoriusciva dai rigidi schemi fascisti dei telefono bianchi “Il bianco del cinema per mascherare il grigio della vita”.
Anna, va in sposa a Mario un disertore che sopravvive sotto le mentite vesti di uno sfollato, si aggrega a un’organizzazione spionistica , attività sconosciuta ad Anna, e il suo compito è quello di trasmettere messaggi in codice agli alleati e a Badoglio. Per colpa di una spiata i componenti di questa organizzazione vengono presi, imprigionati torturati e malmenati per giorni.
Roma, Via Rasella, 23 marzo 1944: una bomba esplode improvvisamente colpendo un drappello di soldati SS. L’attentato, come verrà reso noto in seguito, è un avvertimento della Resistenza italiana contro gli invasori tedeschi. La rappresaglia nazista scatta immediatamente: per ogni tedesco ucciso pagheranno con la vita dieci italiani, scelti tra i detenuti politici e comuni di Regina Coeli e del carcere di via Tasso. È Herbert Kappler il comandante delle SS che compila la lista delle vittime
Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguto. (Stefani)
Chi furono le vittime, quanto e dove avvenne il massacro non fu dato sapere, solo dopo mesi ci furono i primi sospetti sul lungo, qualcuno aveva visto qualcosa, un sacerdote salesiano che informò anche il vaticano. Nei mesi successivi un via vai discreto di parenti delle vittime si recano sul luogo a lasciare fiori foto o qualcosa che ricordasse quei prigionieri misteriosamente scomparsi, non hanno certezze che i loro famigliari siano sepolti sotto i cumoli di macerie.
In 4 giugno del 1944 le avanguardie della quinta armata americana entrano nella città per le vie principali è finalmente la liberazione.
Dopo alcune mesi si aprono le cave della via Ardeatina e iniziano i riconoscimenti delle vittime.
Ogni anno, il 25 Aprile, nella giornata della memoria Anna è sulla tomba dell’ignoto 122, per ricordare gli avvenimenti, nella Roma occupata dai nazisti.
“Chi per la Patria muor, vissuto è assai! Ebbene, se per la Patria io dovessi versare il mio sangue, se essa mi chiedesse il supremo olocausto, non indietreggerei. Non indietreggerò. Sono italiano e mi vanto di appartenere alla nazione più bella del mondo, a questa bella Italia così martoriata. Se non dobbiamo più rivederci, ricordate che avete avuto un figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando in viso i carnefici!” (Domenico Ricci, tra le vittime delle Fosse Ardeative)
Avevo grandi aspettative per questo libro, ma in realtà ne sono rimasta delusa per come l’autore ha affrontato l’argomento. Ci sono avvenimenti trattati con troppa fretta e in qualche momento mal spiegato, mi immagino un lettore digiuno di storia che per comprendere alcuni momenti devono andare a ricercare l’accaduto. Forse quello che ha “castrato” un po’ il libro è stata la decisione di una narrazione tra il romanzo e il documentario, perché nel romanzo alcuni dialoghi sono scialbi e scontati, mentre la parte giornalistica, quella che riporta l’accaduto è di molto superiore. Liberati è un professionista nel raccontare la guerra, come inviato a potuto vedere con i proprio occhi la bruttezza della guerra e che purtroppo, ancora nel mondo esiste
Ma nonostante questa visione stilistica, sicuramente personale, e forse non condivisibile da altri, consiglio vivamente la lettura di “Al di là della notte” per non dimenticare.
Katia
Ciarrochi