mercoledì 15 novembre 2023

Racconti di Natale 2023

 


Il Natale dei pensionati

di Renzo Montagnoli


Fra continui annunci del governo che prometteva il pagamento delle pensioni di dicembre e tacite smentite si arrivò al 24 dicembre, vigilia di Natale, allorché si sparse la voce, iniziata da non si sa chi, che presso tutti gli uffici postali c’erano le agognate risorse. Fu come un temporale estivo, con i primi cupi brontolii e poi in un crescendo di tuonate, sicché vecchi e meno vecchi, invalidi, storpi, colpiti da Alzheimer, ciechi che prima non vedevano la luna a un palmo di naso, si misero in cammino vocianti, tutti diretti al più vicino sportello delle poste. La stessa cosa accadde a Verzù, piccolo paese della pianura lombarda, ricco di sole e calore in estate e di nebbie e di freddo in inverno. I locali carabinieri, allarmati per questa fiumana che andava ingrossando lungo il percorso, si disposero ad attenderli, muniti di casco, scudo e manganello, nella piazza del municipio, dove appunto c’era anche l’ufficio postale, i cui dipendenti sprangarono l’ingresso, pronti a resistere come i soldati di Forte Apache.

Ma chi avrebbe mai potuto fermare quell’orda di affamati, a digiuno da parecchi giorni, che già poco mangiava quando pagavano i due soldi delle minime?

Il maresciallo invitò alla calma i facinorosi, ma fu tutto vano: i sei carabinieri della stazione furono travolti, aggrediti a calci, pugni e morsi, e chi riuscì a fuggire fu visto correre di sghimbescio con una protesi dentaria agganciata a una natica, sì, perché la fame e l’impotenza di fronte a un governo ladro e inetto rende il popolo disperato, che usa qualsiasi mezzo per far sentir le sue ragioni, anche la bocca, soprattutto quella che insieme allo stomaco è da giorni inattiva. La porta fu sfondata, si saltò il balcone, si carcerarono invano quei soldi che non c’erano, e allora, tutti, come a un segnale convenuto, gridarono: - All’Ipermercato! Fu peggio della rivolta dei forconi, anzi sarebbe stata ricordata come la rivolta delle forchette, impugnate con entrambe le mani per poter mettere qualcosa sotto i denti.

Il grande emporio commerciale era indifeso, ormai accessibile, perché i dipendenti pensarono bene di tagliare la corda. La fiumana piombò nei locali e arraffò di tutto; i più fortunati misero le mani, pardon infilzarono i rebbi delle forchette nella preziose carni e si ingozzarono senza cuocere; c’era chi girava tenendo in equilibrio cinque o sei scatolette di sardine sott’olio, altri, quelli meno fortunati e dalla vista corta, cercarono inutilmente di aprire degli strani barattoli con sopra disegnate delle mosche e delle zanzare. Il colpo più grosso lo fece il geom. Sollievo, un novantenne cieco come una talpa, che si sforzava di mandar giù quella che credeva margarina vegetale e che invece, a detta di molti, era crema per le mani.

Comunque, tutti, chi più chi meno, ebbero l’antipasto, perché con lo stomaco impigrito da giorni di digiuno anche una trota intera, divorata cruda, serviva solo a solleticare l’appetito. Fra rutti e peti quella folla lasciò l’ipermercato, decisa a soddisfarsi negli altri negozi del paese. Non uno sfuggì al linciaggio e così furono divorati i fiori del fioraio (qualcuno poi dirà che i migliori erano quelli finti, anche se un po’ duretti), del bar non restò che la macchina da caffè fracassata e non sfuggirono allo scempio nemmeno la merceria, con i bottoni scambiati per succose caramelle, e la tabaccheria, che vide stecche e stecche di sigarette trangugiate, anziché andate in fumo. Il sindaco, il rag. Porcelloni, grande e grosso com’era s’azzardò ad arringare la folla, ma fu travolto, calpestato, perfino mordicchiato.

Ormai non c’era più nessun freno e fra quelli che erano riusciti a mettere nello stomaco qualcosa ci fu anche chi tentò di usar violenza alla perpetua del prete, la Cesira, storta e gobba, e forse anche a lei non sarebbe dispiaciuto, ma vuoi per il momento di tensione e diciamo anche francamente per l’età, si risolse in un nulla di fatto, con il vecchietto che si rialzò continuando invano a cercare con la mano dentro la patta dei pantaloni.

Poi qualcuno, non si sa chi, gridò: - A morte i politici! E il grido percorse tutto stivale. A Roma in Parlamento, al governo si richiese l’intervento dell’esercito, ma questo nicchiava, perché non era pagato da quasi un anno e allora avvenne un fuggi fuggi, chi con l’auto blu, chi con l’elicottero blu, chi con l’aereo blu, insomma sembrava la grande fuga dei Puffi.

Brutta cosa la folla inferocita, peggio di un bisonte impazzito e i politici che non furono svelti ad eclissarsi ne uscirono malconci. L’onorevole Trepalle, famoso per i suoi discorsi roboanti e inconcludenti, fu visto l’ultima volta correre in mutande in Piazza Venezia, per poi gettarsi nel Tevere; il senatore Scartino, sì proprio lui, il difensore, a parole, dei pensionati, finì fra gli addobbi del gigantesco pino natalizio di Piazza Navona, e fu anche fortunato, perché il direttore generale dell’INPS, legato come un salame, fu fatto rotolare giù per i sette colli. Ovunque risuonava un unico grido: Pane! E ai pensionati si erano intanto aggregati i disoccupati, i cassaintegrati, gli studenti senza speranza, le casalinghe , i poliziotti, i carabinieri, insomma il paese era diventato un vulcano in eruzione.

In mezzo a tutti questi clamori si arrivò alla mezzanotte e fu allora che si udì una voce forte scendere dal cielo: - Basta, figlioli, tornate a casa, i vostri nemici sono fuggiti, fate in modo che non ritornino, trovate della brava gente che vi guidi e celebrate questa grande festa.

Poco a poco i rivoltosi si dispersero, tornarono alle dimore, stanchi, ma speranzosi, trascorsero il Natale dormendo, e così anche Santo Stefano, e quando si risvegliarono accesero i televisori e, con sgomento, videro che i politici erano di nuovo sugli scranni del potere. Spensero sconsolati gli apparecchi, abbassarono gli occhi, misero la coda fra le gambe, restarono come inebetiti per non più di cinque minuti e poi come cani bastonati si ricordarono della droga dei poveri; riaccesero allora il televisore appena in tempo, perché l’arbitro stava fischiando l’inizio del derby cittadino fra Inter e Milan.




Il tesoro dei poveri 

di Gabriele D’Annunzio


C'era una volta, non so più in quale terra, una coppia di poverelli.
Ed erano, questi due poverelli, così miseri che non possedevano nulla, ma proprio nulla di nulla.
Non avevan pane da mettere nella madia, nè madia da metter vi pane.
Non avevano casa per mettervi una madia, nè campo per fabbricarvi casa.
Se avessero posseduto un campo, anche grande quanto un fazzoletto, avrebbero potuto guadagnare tanto da fabbricarvi la casa.
E se avessero avuto la madia, è certo che in un modo o in un altro, in un angolo o in una fenditura, avrebbero potuto trovare un pezzo di pane o almeno una briciola.
Ma non avendo nè campo, nè casa, nè madia, nè pane, erano in verità assai tapini.
Ma non tanto del pane lamentavano la mancanza, quanto della casa.
Del pane ne avevano abbastanza per elemosina; e qualche volta avevano anche un po' di companatico, e qualche
volta anche un sorso di vino.
Ma i poveretti avrebbero preferito rimanere sempre a digiuno, e possedere una casa dove accendere qualche ramo secco e ragionar placidamente dinanzi alla brace.
Quel che vi ha di meglio al mondo, in verità, a preferenza anche del mangiare, è posseder quattro mura per ricoverarsi. Senza le sue quattro mura, l'uomo è come una bestia errante.
E i due poverelli si sentivano più miseri che mai, in una sera triste della vigilia di Natale: triste soltanto per loro, poichè tutti gli altri in quella sera hanno il fuoco nel camino e le scarpe quasi affondate nella cenere.
Come si lamentavano e tremavano, su la via maestra, nella notte buia, s'imbatterono in un gatto che faceva un miagolìo roco e dolce.
Era, in verità, un gatto misero assai, misero quanto loro, poichè non aveva che la pelle sulle ossa e pochissimi peli sulla pelle.
S'egli avesse avuto molti peli sulla pelle, certo la pelle sarebbe stata in migliori condizioni.
Se la sua pelle fosse stata in condizioni migliori, certo non avrebbe aderito così strettamente alle ossa.
E s'egli non avesse avuto la pelle aderente alle ossa, certo sarebbe stato forte abbastanza per pigliar topi e per non rimanere così magro.
Ma, non avendo peli, ed avendo invece la pelle sulle ossa, egli era in verità un gatto assai meschinello.
I poverelli son buoni e s'aiutano fra loro.
I due nostri dunque raccolsero il gatto, e neppur pensarono a mangiarselo; chè anzi gli diedero un po' di lardo che avevano avuto per elemosina.
Il gatto, com'ebbe mangiato, si mise a camminare dinanzi a loro e li condusse a una vecchia capanna abbandonata.
C'eran là due sgabelli e un focolare, che un raggio di luna illuminò un istante, e poi sparve.
Ed anche il gatto sparve col raggio di luna, cosicchè i due poverellì si trovaron seduti nelle tenebre, innanzi al nero focolare, che l'assenza del fuoco rendeva ancor più nero.
- Ah! - dissero - se avessimo appena un tizzone!
Fa tanto freddo! E sarebbe tanto dolce scaldarsi un poco e raccontare favole!
Ma, ahimè l non c'era fuoco nel focolare, poichè essi erano miseri; in verità, assai miseri.
D'un tratto due carboni si accesero in fondo al camino: due carboni gialli come l'oro.
E il vecchio si fregò le mani in segno di gioia, dicendo alla sua donna:
- Senti che buon caldo?
- Sento, sento! - rispose la vecchia.
E distese le palme aperte dinanzi al fuoco.
- Soffia ci sopra, - ella soggiunse. - La brace farà la fiamma.
- No, - disse l'uomo. - si consumerebbe troppo presto.
E si misero a ragionare del tempo passato, senza tristezza, poichè si sentiva n tutti ringagliarditi dalla vista dei due tizzoni lucenti.
I poverelli si contentan di poco e son più felici. I nostri due si rallegrarono, fin nell'intimo cuore, del bel dono di Gesù Bambino, e resero fervide grazie al Bambino Gesù.
Tutta la notte continuarono a favoleggiare scaldandosi, sicuri ormai d'esser protetti dal Bambino Gesù, poichè i due carboni brillavan sempre come due monete nuove, e non si consumavano mai.
E, quando venne l'alba, i due poverelli che avevano avuto caldo e agio tutta la notte, videro in fondo al camino il povero gatto che li guardava con i suoi grandi occhi d'oro.
Ed essi non ad altro fuoco s'erano scaldati, che al baglior di quegli occhi.







L’angelo messaggero

di Giovanna Giordani



L’angelo messaggero iniziò il suo viaggio intorno alla Terra per raccogliere notizie da riferire al suo amato Gesù che fra poco avrebbe compiuto ben 2019 anni. La festa in cielo per questo compleanno era magnifica: gli angeli cantavano canzoni dolcissime e le anime di coloro che nella vita avevano amato Gesù si univano ai cori gioiosamente. La splendida luce delle stelle illuminava ogni cosa.

L’angelo messaggero aprì dunque le sue grandi ali e iniziò a volare scrutando attentamente il mondo. Egli vide che in certe zone brillavano infinite luci artificiali sulle case e sui palazzi, ma soprattutto nei grandi magazzini. Ne fu quasi abbagliato. Continuando il suo volo notò che in altre zone, invece, brillavano delle piccole luci che però non erano artificiali bensì delle gioconde fiammelle.

Lo annotò sul suo “diario di bordo” e, finito il giro intorno al nostro pianeta, tornò dal suo Gesù.

  • Ho visto in certi luoghi miriadi di luci splendenti come fossero impazzite – riferì l’angelo - si vede che gli uomini ci tengono al tuo compleanno! Strade, negozi, bancarelle, era tutto un luccicare festoso e ne sono stato quasi abbagliato. In certe zone però non vedevo luci abbaglianti e ho dovuto abbassarmi per vedere meglio. Mano a mano che scendevo potevo notare delle piccole fiammelle che tremolavano nel buio. In quel luogo, notai inoltre, con mia grande gioia, che c’era un’atmosfera di pace e serenità. –

  • E poi cos’altro hai visto? – Chiese Gesù.

  • Non vorrei dirtelo - rispose l’angelo - ma dato che me lo chiedi devo confessarti che ho visto anche delle enormi chiazze di luce che uccidevano gli uomini. Laggiù le chiamano armi, o bombe, credo, e la loro vista mi ha procurato tanta tristezza .

  • Anche a me questa tua notizia procura immensa tristezza e dolore - rispose Gesù. – Ti dirò anche - proseguì – che le fiammelle di cui mi hai parlato sono quelle che brillano nei cuori che vorrebbero vivere in pace assieme a tutti i loro simili e sanno il vero significato della parola ‘Amore’ . Sono loro che un giorno saranno qui fra noi a festeggiare in letizia il mio compleanno –

  • Capisco – rispose l’angelo – spero proprio di vederne tante di quelle fiammelle nel mio prossimo viaggio! –

Poi si sedette accanto a Gesù e gli consegnò il suo “diario di bordo” mentre tutto intorno era un andirivieni di angeli e anime indaffarati per i preparativi della festa. L’angelo messaggero li osservava sorridendo, poi, rivolgendosi al suo grande amico e Signore gli disse: ti vogliamo bene, buon compleanno, Gesù! -





La bacchetta magica del Natale

di Danila Oppio


Fata Serenella era perplessa, non sapeva cosa regalare ai bambini del mondo per Natale.

Molti piccoli avevano di tutto, altri proprio nulla. Ma non sono i giochi quel che lei desiderava donare ai bambini, piuttosto cose o situazioni di cui avevano veramente bisogno.

Le guerre esplodevano quasi in ogni luogo, e a lei questa faccenda non piaceva per nulla.

In alcuni luoghi del mondo mancava l’acqua, i bimbi morivano di sete, e non solo loro.

In altre zone soffrivano la fame, o venivano colpiti da malattie piuttosto gravi.

Insomma, Serenella era molto preoccupata, allora chiese alla Regina delle Fate di darle una bacchetta magica che facesse meraviglie.

La Regina le disse che per poterla usare, doveva caricarla di tanto Amore, altrimenti non avrebbe funzionato a dovere.

  • Oh, di amore ne ho tanto nel cuore, ma quella bacchetta dovrebbe farlo nascere anche nel cuore degli umani, altrimenti quel che desidero donare ai bambini non sarebbe sufficiente.

  • Stai tranquilla, farò in modo che questa bacchetta trasformi i cuori degli uomini.

  • Grazie mia Regina!



Fata Serenella pensò che dovesse cominciare a volare sul mondo molto prima di Natale, per riempire i cuori di tanto Amore.

Volò sopra i Paesi dove infuriavano le guerre, e gettò la polverina magica che fuoriusciva della bacchetta.

Poi volò sopra quei Paesi dove non pioveva da tanto tempo e la siccità bruciava ogni cosa.

Fece piovere, di una pioggia leggera che non causasse alluvioni o allagamenti.

Inviò poi medicine per curare quelle malattie che facevano soffrire i bambini.

Quindi, sempre usando un particolare movimento della bacchetta, creò una carovana di camion pieni di cibarie, di ogni tipo e sapore, per nutrire i bambini e le loro famiglie, che da tempo non avevano nulla da mettere sotto i denti.

Sperava che per Natale tutti fossero felici, perché non sono le cose inutili a donare felicità, ma il necessario per vivere serenamente.

Il lavoro di Serenella non è cosa da poco, ma se gli esseri umani non si impegnano ad abbracciare la fratellanza, la generosità e tutti quei sentimenti che fanno parte della parola Amore, la sua sola bacchetta magica può fare ben poco.

Il Natale più bello è apprendere che le guerre sono scomparse dal mondo, che nessuno muore di fame o di sete, che tutti abbiano l’opportunità di curare la propria salute.

Cara Fata Serenella, tu fai quel che puoi, e noi ci impegneremo di affiancarti in questi bellissimi doni natalizi, perché l’Unione fa la Forza. Purtroppo, una sola bacchetta magica non serve, se tutta l’umanità non si impegna sul serio.

Noi abbiamo apprezzato le tue buone intenzioni, ma il cuore degli uomini non sempre accoglie il vero Amore. Che sia un Natale colmo di buone notizie!








Un regalo di Natale molto speciale

di Piera Maria Chessa



Era ormai tardi, bisognava andare a dormire, ma Ferruccio, quella sera, non aveva proprio voglia di riposare. Col papà Diego e la mamma Sandra aveva appena guardato alla televisione il telegiornale, dove in un servizio ricordavano ciò che era avvenuto esattamente un anno prima in Trentino, luogo in cui loro vivevano, quando la tempesta Vaia, con le sue terribili piogge, aveva procurato la caduta di un numero impressionante di alberi, raccontavano anche che cosa in quell'anno appena trascorso era stato fatto, e com'era ora la situazione, soprattutto nella foresta di Paneveggio, forse la zona più colpita dell'intera regione.

Ferruccio, che aveva solo nove anni ma una maturità straordinaria per la sua età, non aveva perso una virgola dell'intero servizio, e generoso com'era non si dava pace, nutrendo già per la natura un amore sconfinato. La mamma e il papà cercavano di rasserenarlo spiegandogli che ci sarebbe voluto ancora tanto tempo ma che non bisognava disperare, in qualche modo avrebbero trovato delle soluzioni.

Lui, che leggeva già tanto e di tutto, rivolgendosi ai genitori aveva detto:" Ma sapete quanto tempo occorre perché un albero abbattuto possa essere sostituito, non cresce mica in un giorno! Quanti anni passeranno? E ora ne è trascorso uno soltanto... Io, che sono un bambino, diventerò un ragazzo, e poi un uomo come te, papà, prima che tutti i nuovi alberi diventino grandi come quelli caduti. E' una cosa terribile!"

I suoi genitori non trovarono parole per replicare, e rimasero in silenzio, Ferruccio aveva ragione. Tutti e tre, dispiaciuti, andarono a dormire.



Si era a fine ottobre, il tempo passava veloce e dicembre non tardò ad arrivare, il Natale era ormai vicino. Ferruccio non vedeva l'ora, lo aspettava con impazienza, come tutti i bambini della sua età, ma la sua testolina sempre attiva non smetteva di lavorare. Soprattutto in quegli ultimi due mesi, quante volte aveva ripensato alla tempesta Vaia e ai danni che aveva procurato!

Era figlio unico, avrebbe desiderato tanto un fratello o una sorella, ma non erano mai arrivati, in compenso lui "era venuto su bene", come dicevano gli amici dei suoi genitori, che col tempo se n'erano fatti una ragione. Erano soddisfatti della loro vita e fieri di avere un figlio così. Ne capivano le necessità e lasciavano che si circondasse di amici; per questo motivo la loro casa e il loro giardino erano sempre molto "vissuti" e colmi di voci infantili che si rincorrevano.

Verso la metà di dicembre, come tutti gli anni, Ferruccio scrisse la sua lettera di Natale. In realtà, da qualche tempo, pur avendo solo nove anni, aveva smesso di credere alle belle favole e ai bei doni che sarebbero dovuti arrivare chissà da dove sulla slitta trainata dalle renne. Era stato purtroppo un suo compagno di scuola, un po' più smaliziato degli altri, a prendersi la briga di fugare ogni dubbio.

"Guardate che a me l'ha detto il mio papà, lui è grande e non dice bugie. E mi ha anche detto che non devo mai "farmi illusioni", proprio così ha detto!"

E fu così che Ferruccio e i suoi compagni quel giorno persero un pezzetto della loro infanzia e di colpo diventarono un pochino più vecchi.

Lui non perse tuttavia la bella abitudine di scrivere la sua lettera, e i nuovi destinatari diventarono i suoi genitori.

Lo faceva di nascosto, alla sera, quando si ritrovava da solo nella sua cameretta, e scriveva, scriveva... Raccontava di sè, dell'affetto che provava per loro, di quelli che erano i suoi desideri.

Ma quella sera non concluse la lettera, in fondo aveva ancora del tempo, voleva pensarci bene, magari nei giorni successivi gli sarebbe venuta qualche buona nuova idea sui regali da chiedere.

Andò a dormire sereno, soddisfatto di ciò che aveva già scritto. Il tepore della sua camera, e soprattutto del suo letto, gli conciliarono il sonno.



"Che freddo", disse Ferruccio, "perché sento tutto questo freddo? Mamma, ho la febbre!"

Aprì gli occhi spaventato, guardandosi intorno e cercando sua madre, ma intorno a sè vide soltanto buio. Che cosa stava succedendo?

"Ho paura, mamma, dove sei?", chiese sottovoce. Ma la mamma non c'era.

Per fortuna, lentamente, incominciava ad albeggiare. Sempre più preoccupato continuò a scrutare intorno. Si trovava in un bosco da solo, disteso vicino a dei grossi sassi, e percepiva sotto di sè il freddo della terra umida. Si mise seduto e guardò meglio. Vi era tanto verde, era l'erba cresciuta in quei giorni di pioggia. Guardò verso l'alto. Quanti alberi! Li riconobbe, erano i suoi amati abeti, e poi tanto muschio intorno che ricopriva i sassi. Si alzò per sgranchirsi le gambe, si sentiva indolenzito e sempre più infreddolito, meravigliato per quel che stava vivendo. A un certo punto sentì, sugli alberi che lo circondavano, il trillo di un uccello, subito dopo lo vide accanto a sè. Aveva il piumaggio rosso e verde, e lo osservava incuriosito emettendo un verso che a Ferruccio parve molto melodioso. Forse era il suo modo consueto di salutare, così pensò. Ma non fece in tempo ad abituarsi a quella singolare compagnia che d'improvviso avvertì uno strano brusio che, a mano a mano che si avvicinava, diventava più forte. La luce dell'alba, che ora filtrava tra i rami degli abeti, gli permise di vedere meglio.

Su un sentiero ricoperto d'erba avanzavano decine e decine di minuscoli ometti luminosi, così parvero a Ferruccio, poi, quando arrivarono ormai a pochi passi da lui, capì che si trattava del colore dei loro striminziti abitini gialli. Si posizionarono intorno formando un ampio cerchio, uno di loro si fermò nel mezzo. Sempre più sbalordito, Ferruccio sentì il suo cuore che batteva forte. L'omino al centro, forse il capo, o forse il più anziano del gruppo, prese solennemente la parola. La sua voce era quasi un bisbiglio, gentile ma ugualmente ferma.

"Ciao, ragazzo, ci presentiamo subito, siamo l'esercito degli Omini gialli e viviamo in questi boschi da tanto tempo, secoli o millenni, questo non te lo so dire, posso però dirti che non abbiamo età, non festeggiamo i compleanni, come fate invece voi umani, e rimaniamo sempre uguali a noi stessi. Vedi, siamo piccoli piccoli, ma non invecchiamo mai. Abbiamo un compito ben preciso, quello di difendere questi boschi straordinari, ci opponiamo alla natura, quando diventa matrigna, ma l'aiutiamo quando ha bisogno di noi. E soprattutto quando dobbiamo difenderla dagli uomini. Siamo molto piccoli, ma anche numerosi, e uniamo le nostre forze. Proprio come fanno le formiche, così capaci di trasportare persino grossi pesi. Quando ritornerai a casa, dovrai dire ai tuoi amici, ma soprattutto agli adulti, i più pericolosi, di non fare del male alla natura, perché non rispettandola fanno male innanzitutto a se stessi. Sono grandi e grossi, mica come noi, ma privi di cervello. Ora vai, e Buon Natale! Perdonaci se ti abbiamo spaventato.".



"Ferruccio, dormi ancora? Guarda che si fa tardi, oggi non è domenica, si va a scuola. Presto però potrai dormire a lungo, pochi giorni e sarà Natale!".

"Ma come? Dove sono? Quando sono tornato?" Ferruccio non si capacitava, dunque, aveva solo sognato? Guardò la mamma con uno sguardo perso, un po' il sogno, un po' la sorpresa lo avevano completamente disorientato. Lei aspettò con pazienza che si svegliasse per bene, doveva aver dormito profondamente quella notte. Ma Ferruccio si riprese in fretta e incominciò a raccontarle il suo strano sogno. Non lo avrebbe invece raccontato ai compagni, forse lo avrebbero deriso, ma soprattutto voleva tenerlo per sè, soltanto i suoi genitori avrebbero capito e non si sarebbero presi gioco di lui.

Ora avrebbe atteso il Natale con trepidazione, aveva ancora un impegno da assolvere: la sua lettera non era conclusa; quella sera stessa, prima di andare a dormire, avrebbe chiesto ai suoi genitori i due regali per lui più belli.

In fondo non abitavano poi così lontano dalla foresta di Paneveggio, desiderava tanto vederla, dopo ciò che era successo voleva accertarsi che, sia pure lentamente, le cose stessero migliorando. Alla televisione ne avevano parlato ancora, ricordava che qualcuno aveva fatto una proposta, quella di "adottare" un albero. Avevano usato proprio quel verbo, come si fa con i bambini, si disse, lui queste cose le sapeva, un suo compagno era stato adottato.

Avrebbe chiesto informazioni ai genitori, ecco, quello sarebbe stato un regalo di Natale davvero speciale per lui, che voleva sinceramente fare qualcosa per i suoi amati alberi.








Un’aquila a Natale

di Aurelio Caliri


C’era una volta un bambino che si chiamava Federico ed era un tipo molto dormiglione. Quella mattina, inspiegabilmente, si svegliò all’alba e mentre si vestiva si chiedeva il perché di tale levataccia. Era la vigilia di Natale e sentiva come un richiamo, come se qualcosa di misterioso lo spingesse a scuotersi, ad agire. Uscì sulla terrazzina della mansarda che dava sui tetti e rimase sorpreso dallo splendore strano del sole che s’affacciava all’orizzonte e irradiava con sfumature giallastre la sua luce sulle case. Ma c’era qualcos’altro di cui non si capacitava: non avvertiva il benché minimo senso di freddo, nonostante la stagione invernale ormai inoltrata; l’aria poi sembrava immobile, come incantata e, soprattutto, c’era un silenzio quasi allarmante: nessun rumore di macchine, di treni, di persone, di animali. La vita si era fermata.

Il bambino, pur affascinato dalla novità, fu pervaso da un senso di inquietudine, ma poi, al pensiero che il padre e la madre dormivano nella camera accanto, si sentì confortato e cercò subito di analizzare la situazione e capire. Ecco, era come se qualcosa d’ignoto incombesse sulla natura, come se un evento soprannaturale stesse per manifestarsi. Si guardò intorno per valutare meglio il fenomeno e, d’un tratto, giunse al suo orecchio un frullare distinto di ali che s’avvicinava, quindi il sole per un attimo fu oscurato da un uccello enorme che planò dinanzi a lui e tranquillamente si posò sul tetto, a un paio di metri di distanza.

Era un’aquila maestosa, le sue penne brillavano al sole e i suoi grandi occhi, che non avevano nulla della ferocia dei rapaci, guardavano fissi il bambino. Questi rimase immobile dalla meraviglia, come ipnotizzato, ma sulla paura istintiva ebbe la meglio la curiosità, il desiderio di conoscere quella nuova realtà. Lo sguardo dell’animale aveva un che di umano, sembrava volesse comunicare un messaggio,

volesse parlare, e infatti inaspettatamente l’aquila parlò. Disse:

Vuoi venire con me? Vuoi trascorrere in un modo speciale questa vigilia? Vedrai, sarà bellissimo: sarà il mio regalo di Natale!”.

Il bambino deglutì, l’emozione gli impediva di articolare le parole, ma riuscì infine a dominarsi e rispose:

Ma dove mi porti? Vengono con me anche i miei genitori?”.

No, mi dispiace”, replicò l’aquila, “ma non ti preoccupare: vedrai che ti raggiungeranno nel posto in cui andiamo!”.

Il bambino era indeciso sul da farsi: l’uccello misterioso, l’avventura inaspettata esercitavano su di lui un’attrattiva fortissima e nello stesso tempo aveva timore di lasciare la sua casa. Chiese:

Ma è sicuro che i miei genitori mi raggiungeranno? E poi, in che modo vengo con te?”.

L’animale si accostò zampettando sulle tegole fino al margine del muretto che delimitava il tetto e gli disse:

“ Sali e tieniti stretto. Per il resto ti assicuro che non avrai alcun problema”.

Il bambino accantonò ogni perplessità e, issatosi agilmente sul parapetto, con un balzo si mise a cavalcioni del pennuto e fece appena in tempo ad aggrapparsi al suo collo vigoroso perché subito si librò in volo distendendo le ali immense e muovendole ritmicamente.

Che spettacolo la terra vista dall’alto che scorreva a perdita d’occhio! Il bambino era stordito dall’aria e dalla luce che lo investivano con impeto, ma non provava alcuna apprensione, anzi si sentiva sicuro. L’aquila col suo sguardo dolce e quasi umano, con i suoi modi gentili, gli aveva comunicato quella sicurezza, insieme a un grande senso di libertà che lo colmava di gioia.

L’uccello atterrò dolcemente vicino a una casa che si trovava sul limitare di un bosco e parlò ancora:

Scendi ed entra: ti stanno aspettando!”.

Ma chi mi aspetta?”, chiese il bambino, “e tu, non vieni con me?”

No, non posso, vado dai miei aquilotti su in montagna: anche per noi è Natale! Ma verrò dopo. Tu intanto vai …vedrai …”.

Dette queste parole si alzò in volo e in breve scomparve al di là degli immensi alberi secolari.

Il bambino s’avviò titubante verso l’ingresso socchiuso e saliti diversi scalini e attraversata una specie di anticamera si trovò in una vasta cucina fuligginosa e semibuia dove c’era un grande fermento. Il forno era stato appena acceso perché la fiamma era ancora alta e dei ramoscelli secchi scoppiettavano allegramente. Una signora sui quarant’anni vi accudiva con un rastrello di ferro e quando lui si avvicinò lei si voltò e lo salutò:

Ciao! Ti stavamo aspettando. Tra poco ti farò una bella focaccia!”.

Aveva un sorriso tenero, struggente, ed era così affettuosa che si sentì riscaldare dentro. Intanto, guardandosi intorno, trasalì dalla sorpresa: in un angolo stavano seduti i suoi nonni, Turi e Nina, i genitori di Maria, sua madre, che lo guardavano sorridendo. Si avvicinò e li abbracciò. Chiese:

Ma voi che fate qua?”

Siamo venuti per vederti: è Natale, no?”.

Che strano! Erano tanti anni che non li incontrava e, mentre cercava di capire come mai si trovassero là, gli si avvicinò un bambino della sua età e al vederlo si sentì ancora pervadere dalla meraviglia. Gli somigliava moltissimo, era come avere davanti un altro se stesso: stessi lineamenti, stessi occhi, stessa statura. Era suo fratello? fratello gemello? Ma l’unico suo fratello, Mirko, era già grande, biondo, con gli occhi azzurri. Nemmeno allora ebbe il tempo di riflettere perché il bambino, dopo aver dato un bacio alla madre Bettina, che badava al forno, lo prese per un braccio e affettuosamente gli disse:

Vieni, ti faccio vedere qualcosa!”.

Lo portò nella parte opposta della cucina e in una gabbia vide i propri scoiattolini che saltavano da una estremità all’altra senza un attimo di sosta, come impazziti dal piacere di rivederlo. Ma che succedeva? Come mai si trovavano in quella cucina? Come se non bastasse, vicino c’era un’altra gabbia più grande e dentro vide Ciccia, la sua coniglietta bianca, soffice, bellissima. Ebbe un tuffo al cuore. Aprì la gabbia, la prese, la baciò, se la strinse forte al petto. Ma cosa significava tutto ciò? Non vedeva Ciccia da molto tempo: che ci faceva in qual posto?

L’abbaiare di un cane lo distolse ancora una volta dalla sua riflessione.

Viola, zitta!”, le intimò il bambino che sembrava suo fratello gemello.

Ma allora era Viola, la cagnetta di suo padre, quando questi era piccolo, che uscita da sotto il forno gli si era avvicinata e gli faceva festa abbaiando e scodinzolando. Come poteva essere possibile?

Non ci capiva più niente. Era un miracolo di Natale? Forse! Ma qualunque cosa fosse, non gli importava, sapeva solo che traboccava di felicità, come forse mai era successo. Un solo pensiero appannava quel momento: i suoi genitori quando sarebbero arrivati? e l’aquila? Sentiva la sua mancanza e avrebbe voluto rivederla.

Trascorse un tempo indefinito tra giochi e scherzi insieme all’altro bambino ed ecco che la signora dal sorriso tenero e struggente sfornò il pane e le focacce. C’era in quella cucina d’altri tempi un profumo invitante, inebriante, anch’esso d’altri tempi. Arrivarono intanto i fratelli e le sorelle del suo piccolo compagno, preceduti da strepiti e risate, ed entrò anche un uomo corpulento, affabile, Vito, che doveva essere il padrone di casa, il marito della Signora. In piedi, attorno a un grande tavolo

sgangherato, mangiarono con gusto, quindi, accostate le sedie, tutti insieme giocarono prima a carte, poi a tombola. Il bambino pensava che mai aveva trascorso momenti così appaganti, ma che tutto sarebbe stato perfetto se ci fossero stati anche i suoi genitori.

Improvvisamente, non sapeva come, si era fatta sera e suonarono le campane che annunciavano la messa di mezzanotte. Non si trovavano sul limitare di un bosco? Lo chiese al compagno, il quale, invece di rispondere, prendendolo per mano gli disse:

Andiamo!”.

Uscirono. Il bosco era scomparso, c’era invece davanti alla casa un piazzetta e la chiesa antica che la sovrastava, la Matrice, che lui conosceva.

Entrarono. C’era molta gente. La messa era cominciata e tutti cantavano “Adeste fideles”. Che canto fantastico, sublime! Si sedettero su una panca e proprio in quel momento scoccò la mezzanotte e, caduto un drappo rosso sull’altare maggiore, apparve il Bambinello di cera, disteso su di un giaciglio di paglia, sorridente e benedicente, mentre l’organo intonava con forza “Tu scendi dalle stelle” e accompagnava il canto dei fedeli.

Si udì un frullare di ali. Era l’aquila? Avrebbe voluto ringraziarla. No, era una colomba che attraversava la navata centrale. Il bambino si girò verso il compagno come per partecipargli l’ennesima sorpresa, ma era scomparso. Al suo posto invece si era come materializzato suo padre che sedeva accanto a sua madre, ed entrambi

gli sorridevano, complici. Pensò: ma allora il compagno che gli somigliava tanto e suo padre, Aurelio, erano la stessa persona, in due momenti diversi della vita?. Mentre rifletteva su questo mistero ed era invaso dalla felicità per aver ritrovato i genitori, le campane cominciarono a suonare in segno di giubilo, a lungo, insistenti. Tanto insistenti che il bambino si svegliò.

Attraverso l’imposta socchiusa della finestra della sua cameretta su in mansarda la luce filtrava luminosa, mentre le campane della Cattedrale suonavano a distesa.

Che bello: era Natale!









MondoBlog del 15 novembre 2023

 

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Ma non era "specchio delle mie brame"?



Tututún, tututún, tututún...



Un urlo lancinante



sabato 7 ottobre 2023

Alla ricerca del foliage

 

Alla ricerca del foliage

di Renzo Montagnoli


Ottobre mese autunnale da restare tappati in casa? Macché, con questo clima impazzito, con temperature che di giorno sono quasi estive e con dei bei cieli tersi è un mese ideale per fare delle gite, per vedere come muta la natura con il trascorrere dei giorni (sì, perché anche se il clima non è proprio autunnale il ciclo vivente, soprattutto quello dei vegetali, è invece quello tipico della stagione che precede l’inverno). Le foglie cambiano di colore e ai primi venti cadono. Il cosiddetto foliage si tinge di giallo e di rosso, nelle infinite tonalità, assicurando un quadro che sembra una tavolozza.

Dove andare per vedere questa meraviglia? Più o meno tutti abitano vicini a dei giardini e a dei viali, e pertanto si tratterebbe di fare due passi, ma ci sono mete ben più interessanti, non proprio vicine, ma nemmeno troppo lontane.

Ecco le tre che ho scelto:



La Val di Fumo




Ci sono valli alpine che, per l’andamento orografico o anche per una limitata accessibilità stradale, rappresentano tuttavia dei luoghi che è quasi eufemistico definire incantevoli. E’ così che la val di Fumo si presenta agli occhi degli escursionisti, una manciata di chilometri di natura selvaggia e rigogliosa. Estensione della forse più conosciuta val Daone, ben inserita nel Parco Naturale Adamello Brenta, è solcata da un intrepido torrente che scende dal grande ghiacciaio della Lobbia e che già si chiama con il nome per cui è da tanti conosciuto, cioè il Chiese. Valle tipicamente frutto dell’erosione glaciale, si estende nella direzione Nord-Sud, praticamente nel settore meridionale del massiccio dell’Adamello. 





L’itinerario ideale per scoprire questa bellissima vallata è quello che parte dal parcheggio del lago artificiale di Malga Bissina, a cui si può arrivare con una tipica strada di montagna, tuttavia ben tenuta e anche sicura. La quota di partenza è a 1.790 m. slm e il sentiero che si prende porta fino al Rifugio Val di Fumo, aperto nel 1960 e sito a un’altezza di 1.920 m. slm, con un dislivello complessivo di 195 metri, per niente impegnativo, anche perché spalmati lungo un percorsi di km. 5,500 che possibile effettuare in circa 90-120 minuti. Al parcheggio non si può fare a meno di ammirare la possente diga che ha formato il lago di Malga Bissina e subito si può intraprendere l’itinerario, scegliendo fra i due disponibili, ognuno dei quali segue una sponda del torrente Chiese. L’itinerario non presenta particolari difficoltà e quindi ci si può concentrare sulle bellezze del paesaggio, con sullo sfondo le innevate cime del Gruppo dell’Adamello, che hanno nomi che richiamano la memoria dei combattimenti che si ebbero ad alte quote nel corso della Grande Guerra: Caré Alto, Corno di Vigo e il Crozzon di Lares. Si arriva così al rifugio Val di Fumo quasi senza accorgersi, un fine corsa provvidenziale perché la fatica comincia a farsi sentire e con essa la fame. Oltre alle possibilità di pernottamento, c’è anche la ristorazione, di qualità indubbia, tale da saziare stomaco e palato. 





Poi, per chi volesse proseguire, non mancano itinerari più impegnativi, come quello che porta al Rifugio Carè Alto attraverso il Passo delle Vacche. Proprio vicino a quest’ultimo si possono trovare numerose testimonianze della Grande Guerra e per questo motivo è molto frequentato. 




Comunque l’escursione è su quote piuttosto elevate (3.000 metri), il che presuppone preparazione e attrezzatura adeguata. Punto di riferimento, o se vogliamo chiamarlo più appropriatamente Campo base, è il Rifugio Caré Alto, sito a 2.459 m. slm.; lungo la cresta del Caré Alto, a monte del rifugio, in un’ora di cammino si può arrivare al cannone austriaco Skoda, restaurato in quella che era la sua postazione originale. Oltre alle tracce delle guerra non ci si può sottrarre al fascino di panorami a 360° e che spaziano dalle cime e dai ghiacciai dell’Adalmello ai torrioni spettacolari delle Dolomiti di Brenta.




San Romedio, la chiesa sulla roccia


 


Ci sono motivi che vanno oltre fede, atmosfere che avvincono e che attirano irresistibilmente credenti, agnostici e atei.

E' questo il caso di San Romedio, uno dei più celebri santuari d' Europa, una meta da raggiungere almeno una volta nella vita per immergersi nella sacralità della natura e quindi per avvicinarsi a Dio.




Si trova nel Comune di Sanzeno, in provincia di Trento, in Val di Non e si può raggiungere percorrendo prima l'autostrada A22 (Brennero) con uscita a Mezzocorona. Di lì si prende la strada che porta a Cles, un percorso a mezza costa fra meleti che in settembre diffondono ovunque il profumo dei loro frutti maturi. Arrivati a Sanzeno, nella piazza del paese, si prende la stradina a destra che porta appunto all'inizio della gola al termine della quale c'è la nostra meta. Per quanto sia possibile giungervi in auto, tranne che nei mesi di luglio ed agosto, allorché il transito dei veicoli a motore è vietato, conviene fermare l'auto nell'ampio e comodo parcheggio a lato di un ristorante e proseguire a piedi, come i pellegrini.




Il percorso non è lungo, soprattutto se si segue lo stretto nastro asfaltato che corre nella gola di fianco al torrente. Consiglio però di prendere il sentiero attrezzato a mezza costa che, a parte la fatica dell'ascesa iniziale, poi si presenta agevole e offre un panorama veramente stupendo. In ogni caso si arriva poi ai piedi della roccia su cui sorge il santuario, un faro nel bosco che svetta sui pini e a cui si accede tramite una strada in salita non troppo scomoda.
Una volta giunti davanti all'ingresso ci si accorge della bellezza di quest'opera realizzata dall'uomo e costituita in pratica da tre chiese una sopra l'altra.

Sono tutte visitabili, a patto di avere ancora fiato per giungere in cima alla scalinata, costituita da ben 131 gradini.
E' un po' faticoso, ma ne vale senz'altro la pena, incontrando prima la cappella di San Giorgio (del 1487), poi la chiesa in stile gotico dedicata a San Michele Arcangelo e che risale al 1514, e infine la chiesa di San Romedio, del 1536, comprendente la cappella di San Vigilio, preceduta da un bel portale romanico, e infine in cima a tutto il sacello, cioè la cappella delle reliquie, il nucleo più antico risalente all'XI secolo e costruito vicino alla grotta dove visse l'eremita e ove si conservano le sue reliquie.



Stranamente il ritorno, cioè la discesa della scalinata sembra lieve; forse è l'atmosfera mistica che avvolge la sommità, oppure quel senso di appagamento che si prova nell'aver raggiunto una meta, ma resta il fatto che come si esce dal complesso già si progetta la prossima visita. Ah, prima di ripartire è opportuna una visitina agli orsi, che si trovano in un bello spiazzo recintato ai piedi della roccia, pigri e simpatici plantigradi ormai bene avvezzi alle vere e proprie frotte di turisti, custodi anche loro, come i francescani, di questo splendido monumento.
E il tema degli orsi mi ricorda che prima di ultimare questo articolo è giusto parlare di questo Romedio, vissuto tantissimi anni fa.

Romedio, in latino Remedius, era l'erede della prestigiosa casata tirolese dei Thaur e sulla fine del X secolo cedette tutte le sue ricchezze al vescovo di Trento, ritirandosi a meditare e a pregare in una grotta in val di Non, dove morì e intorno alla quale la devozione fece sorgere il Santuario.

Su di lui ci sono varie leggende, ma quella dell'orso è la più famosa; la bestia, affamata, gli divorò il cavallo che gli serviva per andare dal vescovo di Trento. Allora lui ammansì l'orso, ne fece la sua cavalcatura, con cui entrò poi in città.

Il Santuario è aperto tutto l'anno con orario dalle 9 alle 17 e con ingresso libero.



Se non siete ancora stanchi segnalo di seguito alcune mete interessanti negli immediati dintorni:

 

-         La diga di Santa Giustina, una delle maggiori a volta fra quelle costruite in Europa. Sbarra il Corso del Noce, dando luogo al lago di S. Giustina. L'opera è ardita con un'altezza di m. 152,50 e uno spessore alla base di m. 16,50. Splendida, ma terrificante, è la vista dalla sua sommità del letto del Noce;

 

-         Il lago di Tovel a 1178 metri s.l.m., inserito nel Parco Naturale Adamello-Brenta. Era noto soprattutto per la colorazione rossa delle sue acque in estate causata dall'azione di un'alga di nome Glenodium Sanguineum. Il fenomeno è stato visibile fino al 1964, anno dopo il quale si verificò la scomparsa di questa vegetazione lacustre, dovuta probabilmente all'inquinamento;

 

-         Castel Thun, costruito nella metà del XIII secolo, dimora e fortezza della famiglia Thun. Sorge su un colle a 609 metri d'altezza e gode di una magnifica vista panoramica. E' visitabile tutti i giorni, esclusi i lunedì non festivi, il 1° Gennaio e il 25 dicembre, dalle 10 alle 18. Chiuso negli ultimi anni per urgenti lavori di restauro, è stato riaperto ufficialmente il 17 aprile 2010. L'edificio conta ben 150 stanze impressionanti per sfarzo e raffinatezza.   





Il parco giardino Sigurtà




Valeggio sul Mincio, in provincia di Verona, a due passi da Borghetto, considerato il più bel borgo d'Italia, mollemente disteso in un anfiteatro contornato dalle colline moreniche del Garda, ospita, oltre al Castello e al ponte scaligero, anche un autentico gioiello, vale a dire il parco giardino Sigurtà.



Quest'area verde, che si affaccia sul profondo solco scavato dal fiume Mincio, che scorre con acque ancora cristalline poco più sotto, si estende per ben 600.000 mq. e trae la sua origine dal “brolo cinto de muro”  (1617), giardino di Villa Maffei, realizzata su progetto del Pallesina allievo del Palladio, dimora patrizia che nel corso della II guerra di Indipendenza fu il quartier generale di Napoleone III. Le fortune della famiglia Maffei non durarono a lungo e fu così che nei secoli successivi la proprietà passò di mano in mano fino a quando, nel 1941 il nuovo acquirente fu l'industriale farmaceutico di Milano Giuseppe Carlo Sigurtà. Il tutto era quasi in rovina e inoltre l'area collinare difettava di irrigazione, ma soprattutto quel che mancava era l'acqua, nonostante la vicinanza del fiume Mincio a seguito dei regolamenti di prelievo che impedivano di poterla attingere. Nel rovistare fra vecchie carte dei precedenti proprietari, Sigurtà ebbe la fortuna di scoprire un diritto concesso a Carlo Tullio Maffei di prelevare acqua, un diritto che era ancora valido e di cui l'originario beneficiario non si era mai avvalso.



Iniziò così la magnifica avventura del Parco Sigurtà, facilitata dalla possibilità di avere l'indispensabile acqua, ma anche supportata largamente in termini finanziari dalla passione del nuovo proprietario.



Occorsero tuttavia molti anni per arrivare a quello che è unanimemente considerato il più bel parco privato italiano; infatti l'inaugurazione, con apertura al pubblico, è datata 19 marzo 1978. Da allora i visitatori, italiani e stranieri, sono stati milioni, incantati dai bei viali, dalla fioritura in marzo e in aprile di un milione di tulipani, dal vale delle Rose con i suoi 30.000 esemplari, dall'enorme labirinto di 2.500 mq. costituito da ben 1.500 piante di tasso, dai bucolici specchi d'acqua impreziositi da stupende ninfee. E poi ci sono anche gli edifici, come il Castelletto, che in passato era una sala d'armi, l'Eremo, che è un piccolo tempio in stile neogotico, la Meridiana Orizzontale, la Grande Quercia, l'albero più antico fra quelli presenti, poiché ha più di quattro secoli.

Come se non bastasse, da un lato, volgendo lo sguardo in basso, si vede scorrere il Mincio e dall'altro, verso Sud, imponente e affascinante al tempo stesso si staglia il Castello Scaligero.  



Con il variare delle stagioni cambiano anche i colori, così se nella primavera le fioriture danno luogo a inebrianti policromie e in estate spiccano le alternanze di luci e ombre, nell'autunno le foglie dei vari alberi presentano sfumature di giallo e di rosso che hanno un fascino tutto particolare. Ovviamente, nella stagione morta, quella del riposo vegetativo e cioè l'inverno, il parco è chiuso ai visitatori.



Le parole, però, non sono in grado di fornire le emozioni che si provano nel vedere questa meraviglia, i profumi che soavi aleggiano e stimolano piacevolmente il senso dell'olfatto; ci si deve andare, considerando che a volerlo visitare tutto non s'impiega più di una mezza giornata, e ancor più velocemente si procede se, anziché andare a piedi, si noleggia una bicicletta o si prende il trenino che consente di arrivare nei punti migliori e più interessanti.

Per chi abita lontano, dico solo che è facilmente raggiungibile, che nelle vicinanze c'è una buona scelta di ospitalità e che è una zona in cui il mangiar bene e il bere ancora meglio è ormai una tradizione.

Pertanto, come al solito, di seguito riporto le informazioni necessarie.

Quando visitarlo

Dal 5 marzo al 12 novembre 2023, tutti i giorni con orario continuato.
Ingresso dalle ore 9.00 alle ore 19.00, chiusura ore 18.00.
Nei mesi di Marzo, Ottobre e Novembre ingresso fino alle ore 17.00, chiusura ore 18.00.

Il costo del biglietto

  Adulti

16,00

Ragazzi 5-14 anni

9,00

Bambini 0-4 anni

Gratis

Over 65

12,00

Disabili 100% (con certificazione)

Gratis - accompagnatore € 12,00

 

Nota importante: è vietato l'accesso agli animali al Parco, ad eccezione dei cani guida che accompagnino i non vedenti. 

 

Come visitare il parco

A piedi

A piedi, seguendo i percorsi consigliati o semplicemente la propria curiosità.

In trenino

Con il trenino che percorre l'"Itinerario degli Incanti" (35 minuti circa; € 4,00 a persona; gratis per i bambini inferiori al metro di altezza e per i disabili al 100%)

In bicicletta

In bicicletta elettrica (noleggio: € 6,50 all'ora)

In golf-kart

A bordo dei golf-cart elettrici potrete visitare il Parco grazie ad una speciale guida con tracciamento GPS in quattro lingue (italiano, inglese, tedesco, francese).
Un innovativo compagno di viaggio che offre ai visitatori tutte le informazioni relative alle attrazioni naturali che si snodano lungo il percorso.
Ogni golf-cart ospita un massimo di 4 persone e richiede che il conducente presenti la patente di guida B.
Il noleggio del golf-cart non è prenotabile ed ha un costo orario di 20,00 € all'ora.



Come arrivare

In auto

 

Autostrada A4, uscita Peschiera del Garda, 8 km in direzione Valeggio sul Mincio.

Autostrada A22, uscita Nogarole Rocca, direzione Valeggio sul Mincio all'uscita Affi Lago di Garda Sud, direzione Parchi del Garda

In treno

 

Stazione di Verona Porta Nuova: proseguire con autobus ATV, linea Verona-Valeggio sul Mincio. Stazione di Peschiera del Garda: proseguire con autobus APAM, linea Peschiera-Mantova. Visita il sito www.trenitalia.com/ per conoscere gli orari dei treni.

In autobus

 

Da Verona: visita il sito http://tech.atv.verona.it/atv_www/orari_extraurb/orari/atv_localita_V.html per conoscere gli orari degli autobus provenienti da Verona (linea Verona-Valeggio sul Mincio)

Da Mantova e Peschiera del Garda: visita il sito www.apam.it/linee per conoscere gli orari degli autobus provenienti da Mantova e da Peschiera del Garda (linea Mantova-Peschiera, n.46).


 

Parcheggi

Parcheggio gratuito esterno adiacente al Parco.
È inoltre possibile parcheggiare nei numerosi parcheggi pubblici nei pressi del parco.