Tenebre su tenebre
Quando Dio si vergogna degli uomini e gli
uomini si vergognano di Dio
Garzanti Libri
Saggistica
Pagg. 368
ISBN 881159797-8
Prezzo € 18,00
Un’analisi impietosa
Nel 2006 Ferdinando Camon ha riunito in un volume (Tenebre su tenebre) una serie di pensieri, ragionamenti, meditazioni, ricordi, scritti nel corso di circa tre lustri in concomitanza con i fatti più eclatanti della storia e della cronaca, come guerre, encicliche, omicidi, suicidi, fenomeni sociali di vario genere, tutti eventi che, senza che magari che ne accorgiamo, incidono in modo determinante sulla nostra vita. Ormai dovrei essere abituato all’originalità delle opere di questo autore, mai ripetitivo, e in grado di affrontare qualsiasi tema a 360°; eppure questo Tenebre su tenebre mi ha stupito, con questa lunga serie di riflessioni su aspetti diversi, ma in un’unica ottica: quella di rappresentare i controsensi di una società apparentemente felice, ma che va di giorno in giorno degradando. E il quadro che ne esce è per certi aspetti disarmante, perché non lascia scampo, perché non resta un barlume di speranza a che questa decadenza possa arrestarsi, o comunque rallentare.
Tengo a precisare che Camon non è l’inguaribile pessimista che da un aspetto, magari anche marginale, trae, per estensione, conclusioni apocalittiche; no, nel leggere questi pensieri, che a volte possono anche indisporre perché ci toccano direttamente, nascono altre riflessioni che finiscono con il pervenire, al termine del libro, a un unico giudizio sul futuro di questa povera umanità, tesa a percorrere una discesa senza freni e comunque nel più totale disinteresse per la propria sorte.
Ora parlare diffusamente di tutte queste ponderazioni è pressochè impossibile, perché il libro consta di 368 pagine, dove sono numerosissimi i fatti su cui l’autore ha ragionato e pertanto mi limiterò ad accennare solo ad alcuni, a quelli che, a mio parere, possono meglio dare un’idea dei contenuti di questo volume.
Comunque non è sfuggito nulla dei piccoli e grandi temi, o problemi, che caratterizzano la nostra società. A volte le riflessioni hanno imposto un discorso piuttosto lungo, altre, più spesso, si formalizzano in poche righe, una vera e propria fucilata che ci richiama alla realtà di situazioni e di fatti che abbiamo affrontato in modo superficiale, e frequentemente sulla base di preconcetti, che diamo come verità assolute, e invece sono delle falsità di comodo su cui costruire castelli che, per l’infondatezza delle loro stesse basi, prima o poi finiranno per crollare su di noi.
In un’epoca come la nostra, caratterizzata da grandi spostamenti di esseri umani dalle aree misere della terra alle nostre, in cui il benessere è ancora palpabile nonostante la crisi, non poteva così mancare un’attenzione per il fenomeno delle migrazioni ed ecco allora alcune meditazioni, fra le quali Verme mi sembra che più di ogni altra valga a spiegare la nostra diffidenza verso questi stranieri (I paesi che hanno avuto una forte emigrazione sono i più crudeli nel bloccare l’immigrazione. Perché l’ex-emigrante vede nel nuovo povero il povero che lui è stato. La visione accanto a sé dello straniero-povero è come la scoperta di un verme nella mela che sta mangiando: sputa perché lo disgusta. Perciò gli immigranti, dopo aver lavorato qua per decenni, prima di morire tornano nei loro paesi: finalmente liberi, pari tra pari.).
Altre riflessioni sono brevi, quasi uno strale che colpisce all’improvviso e che dà l’impressione di un epitaffio disincantato, proprio per la logica ferrea che è alla loro base, come nel caso di Vincitori (Nelle polemiche letterarie, come nelle guerre, vince chi ha più potere, non chi ha più ragione. La tv sul giornale, il giornale sulla rivista, il premiato sul finalista, le centomila copie sulle diecimila copie.).
Di questi pensieri lapidari ce ne sono parecchi e, a differenza di quelli che sono più lunghi da leggere, sono brevissimi, ma richiedono, magari in più tempi, ulteriori nostre riflessioni che finiscono poi per approdare ad altre problematiche, proprie dell’esercizio della mente quando viene opportunamente stimolata, come in Bene (Il bene è silenzioso. Se diventa rumoroso, è pubblicità.). E’ vero e senz’altro incontestabile, ma in una società in cui conta l’apparenza, finirà nella maggior parte dei casi con l’essere pubblicità. E se poi pensiamo al concetto che abbiamo di bene, sorge immediata una richiesta di verifica, su cosa sia effettivamente il bene, su come cercarlo in noi, su come farlo senza la cognizione di farlo, come gesto spontaneo, contro ogni forzatura.
Si potrebbe andare avanti per un bel po’, e infatti la lettura del libro è stata piuttosto lunga, nel senso che mi ha impegnato in un arco di tempo di circa un anno, che può sembrare un’enormità, ma non lo è, poiche gli stimoli che mi ha indotto continuano a perpetuarsi, provocano indirette e anche non cercate riflessioni che tendono a far sì che il mio apprezzamento, a distanza di tempo da quando l’ho terminato, si accresca, al punto da farmi esclamare:” Se non l’avessi letto, mai e poi mai avrei fatto queste considerazioni; mai e poi mai avrei pensato che ciò che ritenevo assodato era solo un preconcetto; mai e poi mai avrei cercato di comprendere, attraverso me stesso, i problemi di questa società.”.
Quelli che erano atti di fede sono così risultate semplici convizioni, assimilate come veri e propri dogma, e quindi a prova di ogni logica, in quanto questa aprioristicamente respinta.
Al riguardo Camon scrive una riflessione esemplare sulla Fede (Su quel che promette la fede l’umanità si divide in due parti: metà crede che ci sia tutto ma teme che non ci sia niente, l’altra metà crede che non ci sia niente ma teme che ci sia tutto.)
Quasi senza accorgerci, una pagina dopo l’altra, emerge una diagnosi cruda, impietosa, della nostra società, una conclusione che turba e che porta a una visione di un mondo insensato, in un libro di grandissimo interesse, e di altrettanto consistente valore.
Leggetelo, per sapere come siamo, per conoscere dove andiamo.
Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente, Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).
Intervista a Ferdinando Camon, autore di Tenebre su tenebre, edito da Garzanti.
Strano libro, questo, costituito da riflessioni, pensieri, in alcuni casi da articoli pubblicati su qualche quotidiano. Se a me per leggerlo è occorso un anno (non per la lunghezza, ma perché inevitabilmente questi brani suscitano altrettante riflessioni), penso che per scriverlo sia stato necessario molto di più, o forse, con maggiore probabilità, l’opera è frutto di scritti stilati in un arco di tempo piuttosto lungo. Nell’ambito della produzione letteraria italiana Tenebre su tenebre costituisce un genere atipico e peraltro non facilmente inquadrabile, ma è indubbiamente un lavoro interessante che offre spunti per confronti, per dialoghi, quasi dei dibattiti, come quello che mi accingo ad avviare con l’autore, Ferdinando Camon. Perché l’idea di riunire in volume idee, riflessioni, maturate in più anni e che finiscono, nel loro insieme, per delineare un quadro impietoso della società attuale?
Non sono articoli, sono il cuore di ragionamenti maturati a ridosso della cronaca, in un decennio e più: se il centro, la tesi centrale di quei ragionamenti non è stata smentita finora, ho pensato che può avere una validità, cioè una attualità, anche domani. Sono insegnamenti del passato ad uso del futuro. Non mi offendo se qualcuno mi definisce “moralista”, penso anzi che tutto dovrebb’essere morale, anche la politica, e una politica immorale o amorale, come piaceva a Machiavelli e come abbiamo avuto fino a poco fa, non è accettabile. Ritengo che sia necessario risalire a monte dello Stato, della Chiesa, della Costituzione, delle Leggi, e interrogarsi sui primi princìpi e le cause prime, che non sono affatto chiare. Illegalità dello Stato, colpe della Chiesa, ignoranza della Scuola, contraddizioni della Costituzione (nostra e altrui), scontri fra culture, in cui le altre hanno torto ma la nostra non ha ragione, diritto di morire, primato della coscienza, fanno della vita un viaggio disperato, in cui non c’è una guida ma in ogni attimo occorre trovare una guida. Che varrà per quell’attimo.
Concordo e pure io, magari con un approccio diverso, nel chiedermi dove sto andando, mi sono immancabilmente domandato dove sta andando il mondo, che sembra una mosca in un bicchiere capovolto: si agita, vola di qua e di là, e sbatte per poi sempre verificare l’amara realtà della sua prigionia. Come ha ben detto Saramago, l’attuale crisi non è tanto economica, quanto morale.
Però a me sorge un dubbio, non sempre presente, ma che ogni tanto ritorna. Infatti mi chiedo se il mio atteggiamento moralistico sia sbagliato, cioè se sono io che percorro una strada fuori da quel bicchiere in cui inconsciamente tento di entrare. Cerco una risposta, che trovo nei miei principi di onestà, di rispetto per gli altri, di convinzione che il pensiero del cristianesimo non sia un’utopia, perché tutto ciò che, per un motivo o per l’altro, non ci risulta comodo, lo liquidiamo con il termine impossibile. E’ tuttavia una risposta che, se mi rincuora, non fuga i miei dubbi e allora quello che le chiedo è questo: siamo proprio sicuri che la nostra visione pessimistica del mondo attuale sia giusta e che altrettanto giusto sia quel concetto di moralità che ci accomuna?
Visto che lei parla di Cristianesimo, è vero, al fondo della nostra civiltà c’è questa religione, però predica una verità rivelata, e di fronte alla rivelazione si deve fermare ogni ricerca, filosofia, scienza. È questo il punto. Il Cristianesimo non concepiva rapporto possibile con l’”altro” se non in vista della sua assimilazione, o conversione, cioè della sua distruzione come “altro”. Il Cristianesimo crede nell’assioma che Dio è la verità, non accetta di cambiarlo con l’inverso, che la verità è Dio. È un tema antico, ne parla già Socrate nell’”Eutifrone”, dove si pone il quesito: una cosa è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? È buona se piace a Dio, rispondeva Eutifrone, che è un sacerdote. E così ha risposto ogni papa, fino al primo Ratzinger. Se un’azione è buona quando piace a Dio, se al posto di Dio ci metto Hitler o Stalin, facendo la sua volontà faccio il bene. Ci abbiamo messo duemila anni a liberarci da questo impianto. Todorov insegna a non convertire, o non acculturare, nessuno. Noi diamo agli altri tutto quello che sappiamo, lasciandoli liberi di accettare o no. Abbiamo una società più arretrata rispetto a quella dell’impero romano, dove erano possibili convivenze che oggi non ammettiamo. C’è poca scienza nella nostra società, poca filosofia, e molta ideologia. Non abbiamo concetti, ma soltanto preconcetti.
Sì, il confronto con l’impero romano ci vede perdenti perché siamo succubi di noi stessi, nel senso che siamo alla ricerca di un’identità che non ci è stata tolta, ma che abbiamo perso per strada. E in un tempo come il nostro abbiamo un concetto di razionalità che è irrazionale, di nazione che è più retorico che effettivo, siamo un branco di naufraghi alla deriva pronti ad agganciarci alla prima zattera che incontriamo, convinti che non ci sia di meglio, ma subito lesti a disperare. A dirla francamente, l’uomo contemporaneo ha meno personalità che in un passato lontano, è una massa belante che si crogiola in una pseudo democrazia che è remissiva accettazione del governo di pochi. Si ha paura dell’altro, di quello che viene da fuori, perché non ci si conosce dentro, e d’altra parte la decadenza del mondo occidentale è sotto gli occhi di tutti, e in questi periodi di disfacimento è logico, come dice lei, che non esistano concetti, ma preconcetti, preconcetti che sono alla fin fine oggetto di questo suo libro. Al riguardo ricordo quanto scrive a proposito dell’analfabeta: “ Quando hai finito un romanzo, devi leggerlo di fronte a un grande critico e a un analfabeta. Il secondo non ha meno importanza del primo.” . Eppure, se domanda a chi si picca di scrivere se leggerlo solo davanti a un famoso critico e non anche a un analfabeta, la pressochè totalità risponderà sdegnata che la seconda ipotesi è quasi blasfema.
Ecco, quindi, la domanda, quella che ora rivolgo a lei, certo di non facile risposta: perché ci siamo ridotti così?
Avevamo, e in gran parte abbiamo ancora, un’idea bloccata di storia. Di Stato, nazione, progresso, religione, scuola, futuro. Ci sembrava che il nostro domani sarebbe dipeso dal nostro oggi, che la nostra idea di Stato sarebbe durata per sempre, che i nostri diritti sarebbero sempre stati i nostri diritti, che i nostri figli sarebbero stati la nostra ripetizione, che la nostra religione fosse frutto di una più perfetta rivelazione, che noi fossimo “oi ghennàioi”, i migliori, e che chi arriva qui dovesse diventare la nostra brutta copia. È saltato tutto. La Storia impone agli altri diritti che noi non gli riconoscevamo, è finita l’epoca delle storie separate, ogni popolo la sua con i suoi risultati: dobbiamo spartire i risultati della nostra storia con i figli di altre storie. Predicavamo un concetto astratto di umanità, ora l’umanità ci stringe d’attorno, ci assedia. Tutto ciò che sapevamo non ha più un valore assoluto. Dobbiamo riapprendere. Né nell’universo morale né nell’universo fisico.
Quando una civiltà si culla sugli allori, è il momento in cui inizia a decadere. Perché a una rivoluzione non segua una restaurazione, la rivoluzione deve essere continua. Lo stesso ragionamento vale per l’evoluzione, che deve essere sempre presente: il fermarsi implica che si resti indietro e non si possa più riprendere il treno, su cui altri invece sono saliti al posto nostro. Certo che in questo suo libro non mancano gli strali, che colpiscono anche la sua categoria (Insegnare a un altro a scrivere vuol dire insegnargli a copiare. Scrivere s’impara, non s’insegna. Fondando scuole di scrittura, Pontiggia, Baricco e Mozzi creano imitatori, non scrittori). Premetto che condivido quanto ha scritto ed è comprovato dai fatti. Dalle scuole di scrittura non escono scrittori, ma scrivani. Eppure mi risulta che siano molto frequentate e questo sinceramente mi è incomprensibile. Secondo lei, perché uno dovrebbe partecipare a uno di questi corsi, ovviamente non gratuiti, per scrivere in un modo uniforme, un’omologazione che sa tanto di catena di montaggio?
Una civiltà decade quando non impara più, perché crede di avere imparato tutto. La cultura non sta nel sapere, ma nel cercare. La scuola non deve insegnare verità da imparare, ma un metodo per cercarle. Le scuole di scrittura sono un non-senso: chi impara a scrivere da uno scrittore-insegnante, sostanzialmente ripete quello scrittore, in peggio. Non dovrebbero esistere nemmeno gli editors, cioè i lettori-correttori di testi: ogni parola che sta in un testo viene dal vissuto dell’autore, se un editor inserisce una propria parola sostituisce il vissuto dell’autore col proprio. Molti anni fa l’”Unità” mi chiese un’opinione sul divorzio, era la vigilia del referendum, la mandai, nel pomeriggio mi richiamarono 7-8 volte, ogni volta per cambiare un aggettivo o un sostantivo, alla mattina dopo leggo l’articolo stampato e mi chiedo: “Ma chi lo ha scritto?”. Non era più mio. Quando lesse il mio primo romanzo, “Il Quinto Stato”, in manoscritto, Pasolini mi consigliò di inserire una parola, una sola: l’ho fatto, ma ancor oggi mi rimorde. Tuttavia ci sono quelli che s’iscrivono alle scuole di scrittura, perché hanno un’idea scolastica e professionale della scrittura, un’idea borghese. Vengono fuori scrittori da sottobosco, che poi cercano editori a pagamento.
Il fenomeno sembrerebbe quindi irreversibile, tanto che quando decade una civiltà è come un masso che rotola lungo una china fino alla sua base. Secondo lei, sarebbe possibile rallentare questo disfacimento o addirittura rimediarvi e, se sì, in che modo?
Una volta la questione veniva posta in altri termini: cosa c’è dietro l’angolo? Ogni politico, intellettuale, filosofo, prete, docente intervistato dava la sua risposta. Finché apparve un politico ex-comunista che rispose: “Io so cosa c’è dietro l’angolo”, ”E cosa c’è?”, “Un altro angolo”. Quel politico è morto, non c’è più. Aveva sperimentato la fine di un mondo che credeva epocale, e s’era visto trasportato dalla storia in un mondo opposto. Se fosse vivo oggi, si troverebbe da capo nella stessa situazione: il mondo si sgretola, non possiamo farci niente, e non sappiamo quale sarà il mondo di domani, perché non possiamo vedere dietro il nuovo angolo. In queste situazioni, capisco chi si fa prendere dalla nostalgia, e spera che la storia faccia (come non farà mai) un salto indietro. Il mio traduttore russo (una volta avrei detto sovietico) rimpiangeva Stalin, diceva che con Stalin “c’era la chiarezza”. Di recente m’ha scritto un’email un suo figlio, scappato già allora negli Stati Uniti. Mi chiedeva notizie recenti su suo padre. A Istanbul mi ha intervistato uno scrittore islamico integralista, calvo ma bello, un Yul Brynner, che mi trattava con disprezzo: lui nella verità, io nell’errore. È fatale che le cose vadano così. Impossibile convincerlo che la sua verità è provvisoria e relativa, come il mio errore.
Le dico che è una fortuna non sapere cosa c’è dietro l’angolo, sia che si tratti di un mondo migliore che di uno peggiore. Provi un po’ a immaginare se potessimo conoscere il nostro futuro: sarebbe un’esistenza terribile, sia che questo si presenti roseo, sia che risulti tragico. E in questo modo non avremmo più né passato, né presente, né futuro, ma solo una seguenza noiosa di fatti ed eventi che toglierebbe ogni emozione.
Il suo libro porta come sottotitolo “Quando Dio si vergogna degli uomini e gli uomini si vergognano di Dio”. Vuole spiegarmi il significato di questa frase?
Che gli uomini facciano cose vergognose è palese a tutti. Che nel nome di Dio vengano fatte cose altrettanto vergognose è difficile dirlo e difficile accettarlo, per ogni religione, cristiana, islamica, e le altre. Stiamo in casa nostra. C’è un capitano dell’aviazione argentina, che ha guidato alcuni “voli della morte”, scaricando in mare centinaia di ragazzi sequestrati dalla polizia e addormentati con iniezioni di Valium, il quale anni dopo atterrò, per incautela, in Spagna, e la Spagna lo arrestò, perché tra le sue vittime c’erano anche ragazzi spagnoli. Lui raccontò che una volta, dopo uno di quei voli, si recò in chiesa e si confessò, per fare la comunione. Il prete gliela diede dicendo: “Oggi, per te, questa è la seconda comunione”, intendendo che il volo della morte era stato la prima. La Spagna non ha la condanna a morte, e non ha l’ergastolo, però può condannare a un numero di anni illimitato. A questo capitano inflisse 600 anni di carcere. Se quel volo della morte valeva 600 anni di carcere, e se è stato possibile dargli prima la comunione, ci si può vergognare di quella religione. È un esempio. Nel mio studio, in una scatoletta, conservo una fibbia per pantaloni, comprata in un mercatino di Brunico, in Alto Adige: è la fibbia della Wehrmacht. Porta la scritta “Gott mit uns”. Di quel Dio che era con loro ci si può vergognare.
Più che vergognarsi di quel Dio che era con i nazisti, ci si dovrebbe vergognare per aver permesso che un’ideologia come quella nazista andasse al potere. Dio non può essere né buono, né cattivo e solo gli uomini tentano di dargli un’immagine, di considerarlo alla stregua di se stessi, e poiché l’uomo è imperfetto, anche il Dio costruito da questi uomini è imperfetto.
In ogni battaglia i contendenti invocano l’aiuto di Dio e questo offre la misura della loro fragilità; il ricorrere a un giudice supremo per la vittoria non solo è irrazionale, ma dimostra che l’evoluzione della specie è ancora enormemente lenta.
Nel suo libro ci sono delle riflessioni illuminanti, di una logica ineccepibile e parlare di tutte – e sono tante – è praticamente impossibile. Qualcuna, però, merita più di un’attenzione e un approfondimento, come questa: “Il nuovo papa, tedesco, dichiara di voler condurre il mondo a Cristo. Non cambia nulla. Cambierà tutto quando verrà un papa che vorrà condurre Cristo al mondo.”
Mi piace, ma non sono convinto del tutto. Può spiegare in altri termini il significato?
Alle mie spalle, in questa stanzetta dove scrivo, ho l’Abiuratio Galilei, il testo con cui Galilei rinnegava la propria scienza, la malediceva e la condannava, e prometteva a chi lo teneva sotto giudizio (7 cardinali, che occupano le prime sette righe della pagina), che se girando per il mondo avesse scoperto scienziati che portavano avanti le sue dottrine, immediatamente li avrebbe denunciati al più vicino tribunale della Santa Inquisizione. Era un modo per ridurre il mondo a Cristo. Il nazismo, lo stalinismo, l’islamismo usano modi analoghi. Il cambiamento da raggiungere è l’impianto opposto: vediamo se ciò in cui crediamo si può adattare alle nuove scoperte della scienza. Il sistema in cui viviamo è plasmato dal nostro cervello, ma anche viceversa: il nostro cervello è prodotto dal sistema in cui viviamo. Confesso che il mio cervello non riesce a concepire uno spazio che si dilata infinitamente, occupando sempre nuovo spazio, e un universo che s’è prodotto con l’esplosione di una microparticella che c’era da sempre, anche quando non c’era niente. Qualche mese fa ho letto che questa teoria viene sostituita da un’altra, che il Big Bang non fu un unicum, ma la storia dell’universo è una catena di Big Bang che esplodono e reimplodono dopo miliardi di anni. Non ho il cervello per incamerare questi concetti. Mio padre, contadino, non capiva il sistema solare galileiano, gli era più chiaro quello tolemaico. Io, suo figlio, non capisco la fisica post-einsteiniana. Nel sistema in cui i mondi si succedono dopo miliardi di anni, si auto-creano e si autodistruggono, vale il detto di Dostoievski che “tutto è permesso”, sparisce ogni concetto di bene e di male. Non riesco a farlo mio.
Sostanzialmente è la differenza fra la supposta certezza e il dubbio, dove quest’ultimo dovrebbe essere sempre presente per comprendere dove si sta andando e per cercare di andare per il meglio. Comunque c’è un’altra riflessione, molto illuminante, intitolata Sviluppo e civiltà. Lei scrive “ Secondo gli americani (cito un economista) lo sviluppo economico di un popolo non è compatibile con il mantenimento dei suoi costumi e delle sue usanze.” Poi, e per brevità salto alcune righe, aggiunge “Gli americani vanno per il mondo a salvare i paesi poveri, portandogli la ricchezza ma sopprimendo la loro civiltà. Dappertutto trovano una interminabile resistenza, e la credono resistenza alla ricchezza, mentre è resistenza alla perdita della propria civiltà. Nessun popolo può sentire l’arrivo del progresso nella perdita della propria civiltà.”. E’ vero, ma la civiltà proposta dagli americani è una non civiltà, basata solo sul guadagno come fine di ogni popolo, un concetto talmente deleterio che finisce con il ritorcersi contro chi lo propugna, come stiamo anche osservando con la crisi economico-finanziaria attuale. Con lo stesso sistema si vuole imporre poi un concetto di democrazia a chi, per civiltà, non fa comodo. Ora, il declino dell’occidente appare ormai inevitabile e progressivo, anche perché gli altri paesi europei si sono omologati ai principi della potenza egemone e passivamente ne seguono le vicende, disuniti e pronti a beccarsi come i polli manzoniani. E’ un sistema in cui tutti si puntellano per restare in piedi, ma basta che uno scivoli e tutto crolla.
Secondo lei, noi europei abbiamo rinnegato la nostra civiltà, accettando supinamente quella imposta dagli Stati Uniti, o ancora in noi è presente un po’ di orgoglio che potrebbe anche sfociare in un rifiuto a un sistema di vita solo in apparenza gratificante, ma che alla fine immerge tutto in uno squallore desolante?
I paesi che non sono disposti a barattare ricchezza con civiltà, e che non accettano la civiltà americana, sono i paesi islamici. Dove c’è l’Islam la civiltà occidentale penetra poco o niente. L’Islam sente questo come una sua forza, noi occidentali lo sentiamo come una sua forma di arretratezza. Gli islamici che vengono qui faranno negli anni futuri, in un paio di generazioni, il percorso che noi abbiamo fatto nelle generazioni passate: noi abbiamo acquistato in benessere, ma abbiamo perduto la nostra civiltà. Rispetto al dopoguerra abbiamo perso un tipo di famiglia, di coppia, un concetto di lavoro, di risparmio, di rapporto tra generazioni, di sesso, di Dio, di vecchi, di solidarietà: abbiamo perso una civiltà. Siamo uomini diversi, viventi in una famiglia diversa, in una società diversa, e concentrati su valori diversi. Ogni impero dominante nella storia impone i suoi valori. L’impero americano impone il valore dei soldi. Si fa tutto solo per i soldi. I marines si arruolano e uccidono per i soldi, le guerre si dichiarano per il petrolio, la Sanità è regolata per censo, e anche gli studi all’università. Anche l’arte è sottomessa al denaro. Se fai un film che incassa, potrai fare un altro film, ma se fai un film bello che però non incassa, hai chiuso. Se hai un infarto per strada ma non hai un’assicurazione, l’ospedale ti trascina fuori della porta e ti lascia morire sul marciapiede. È un sistema turpe ma forte, lo Stato americano è iniquo ma potente. Nel breve futuro che riusciamo a vedere con i nostri occhi, non cambierà. Questo è il nostro mondo e sarà il mondo dei nostri figli.
E’ un quadro desolante, che lascia presagire un futuro sempre peggiore per la nostra società, una situazione in cui ci siamo messi inconsciamente e altrettanto inconsapevolmente continuiamo a sbagliare, pur fra lamentele varie, anche per il timore di apparire diversi, e quindi di essere emarginati. Quella frase “Se hai un infarto per strada ma non hai un’assicurazione, l’ospedale ti trascina fuori della porta e ti lascia morire sul marciapiede.” mette i brividi e mi fa venire una delle riflessioni che, a parer mio, è fra le migliori, quella sulla Carità e la giustizia.
Credo di non aver mai trovato due definizioni migliori delle sue per fare comprendere come dovrebbero essere. E opportunamente ha evidenziato il pensiero di Mao, una soluzione non solo marxista, ma anche cristiana e liberale: .” se dai al povero un pesce, lo sfami una volta; ma se gli insegni a pescare, lo sfami per sempre.” . La carità, invece, consiste nel venir incontro a chi ha fame, affinchè non muoia, nell’attesa che politicamente gli si insegni come procurarsi i mezzi per mangiare.
In realtà i paesi ricchi centellinano gli aiuti a quelli poveri, perché sono consapevoli che la loro ricchezza esisterà solo a fronte di quella povertà. Non è più una questione di surplus, ma di potenza, che non deve essere mininamente scalfita, bensì, se possibile, accresciuta.
Lei cosa pensa al riguardo?
Nel capitalismo non esiste il concetto di carità o aiuto o sussidio, esiste il concetto di interesse o di affare. I paesi poveri saranno aiutati quando aiutarli sarà un affare. Si possono aiutare i paesi arretrati, e di fatto si aiutano, ma in previsione del loro salire tra i paesi emergenti: allora l’aiuto è un investimento, che è una perfetta pratica del capitalismo. Nel rapporto con i paesi affamati, il capitalismo applica un suo principio: “Hai fame? Colpa tua”. È lo stesso principio per cui si dice: “Sono ricco? Me lo merito”. Se un paese fallisce (come, nel momento in cui scrivo, pare succeda alla Grecia), è giusto che venga divorato dai paesi sani che lo circondano. In Parise c’è un marito, capo-famiglia, che è malato e sta in ospedale, ogni volta che la moglie o i figli vanno a trovarlo, lui si vergogna: perché è malato, tutti gli altri padri e capi-famiglia lavorano e portano avanti la loro famiglia, lui non lo fa e se la sua famiglia è danneggiata, la colpa è sua. La malattia come colpa è un concetto della società del lavoro. Non è un concetto infondato. È possibile che il lavoratore non ami la sua condizione, la avversa, e se ne libera rifugiandosi nella malattia. La “malattia come tornaconto” è un concetto caro a Freud. Nel capitalismo non c’è limite alla corsa verso la ricchezza, chi ha vuole avere sempre di più: teoricamente, la corsa dovrebbe finire quando uno solo ha tutto. Ma sempre, quando lo squilibrio è troppo alto, la storia si spezza.
Logica ferrea, la sua, con una descrizione del capitalismo che sarebbe piaciuta tanto a Marx e, che al di là delle opinioni, è purtroppo veritiera. Fino ad ora abbiamo parlato di questo suo libro e mi piacerebbe continuare, ma le domande finirebbero con l’essere in numero eccessivo, con il risultato che potremmo andare avanti per giorni e giorni. Non nascondo che mi piacerebbe trattare con lei altri punti, ma c’è un limite fisico che mi frena e che mi induce, per l’ultima domanda, a passare ad altro argomento.
S’impara a scrivere leggendo e nessuno sfugge a questa norma; però, ci sono autori e opere che più ci influenzano e quindi, nel suo caso, che maggiormente hanno contribuito alla formazione di Camon scrittore. Chi sono questi artisti, quali loro opere sono state determinanti e perché?
E se mi permette, in uno con questa domanda, ne rivolgerei un’altra: a quale suo libro è maggiormente affezionato e per quale motivo?
Sì, ci parliamo da troppo tempo, se qualcuno ci seguiva all’inizio a quest’ora ci ha abbandonato. S’impara a scrivere leggendo, e leggendo s’impara a leggere, quali libri leggere. In giovinezza si legge di tutto, tutto ci nutre. In età matura si sceglie, ci sono autori fraterni, la loro vita e la loro opera insegna qualcosa alla nostra vita e alle nostre opere, se vogliamo tentare di scrivere. Per me, sono stati importanti gli autori del Verismo italiano, Verga soprattutto, e del Naturalismo francese, Maupassant più degli altri. E del neorealismo, Pasolini in modo particolare. Anche il suo cinema, il suo primo cinema, da “Accattone” al “Vangelo secondo Matteo”. E ancora i sudamericani, Cortàzar più di Màrquez. Alla fine, sapevo interi capitoli a memoria. Non rinnego nessuno dei miei libri. Ci sono articoli che ho scritto senza volerlo, stanco, ad ora tarda, tra le 23 e le 24, perché un direttore me lo chiedeva, aveva bisogno di quel pezzo e lo voleva prima di chiudere io giornale. Ma i libri li ho scritti perché li volevo io, ognuno nasce da una necessità. Più di tutti, “Immortalità”, quello che io chiamo così, e che così s’intitolava quando l’ho mandato all’editore. L’editore italiano lo intitola “Un altare per la madre”, quello francese “Apothéose”, quello americano “Memorial”… Credo che si chiami “Immortalità” soltanto in Lettonia, Brasile, Turchia. Ma per me resta “Immortalità”. Entrando nel mondo di là, lo userò come un lasciapassare. Una volta mi chiedevo: Sì, ma in quale lingua? Italiana, francese, tedesca, inglese, russa…? Visto come va la storia, escludo che nel mondo di là parlino il russo.
La ringrazio per questa piacevole e assai interessante intervista e la saluto con l’auspicio di avere altre occasioni come questa per un nuovo scambio di opinioni.
Recensione e intervista a cura di Renzo Montagnoli